Fatti storici

I secoli d’oro di Firenze. Storia della città del giglio nei secoli XII-XVI

Firenze. La culla del Rinascimento. Patria di Lorenzo de’ Medici, Michelangelo Buonarroti, Filippo Brunelleschi. Una delle più belle città del mondo. Città ricca di Arte e di Storia, in cui il visitatore ha l’impressione di viaggiare nel tempo.

Uno splendore costruito in tre secoli, tra il XIII e il XVI. Nonostante sorga in un ambiente poco felice, in una conca umida, dalle estati roventi e dai gelidi inverni, Firenze ha saputo conquistarsi la gloria eterna. Non senza fatica, soprattutto quando, nel Medioevo, la costruzione della Via Francigena fuori dalla sua portata la estromesse dai traffici commerciali. Ma la città riuscì ad affermarsi comunque negli affari, in particolar modo nella lavorazione della lana.

Ma come è arrivata ai giorni nostri questa splendida città?

Florentia nacque in epoca romana, nel 59 a.C. come un insediamento modellato a castrum militare, ossia un quadrangolo cinto da mura in cui vivevano circa quindicimila abitanti, costruito sulle due grandi strade del cardo maximus e del decumanus, al cui incrocio c’era il Campidoglio (oggi piazza della Repubblica). Verso il 570 cadde in mano dei Longobardi, periodo in cui si costruì la via Francigena che metteva in comunicazione la pianura padana con Roma e che lasciò la città fuori dal suo corso. Iniziò, così, un periodo di buio per Firenze, che durò fino al IX secolo quando il favore di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana alleata di papa Gregorio VII contro l’imperatore Enrico IV, consentì l’affermazione della città e la sua crescita economica. Ma Firenze restava, in Toscana, un centro ancora modesto, in cui la manifattura e il commercio superavano di poco il livello della sussistenza. Così, nel XII secolo partì alla conquista del contado e all’assoggettamento dei castelli dei dintorni, i cui casati dei cavalieri detentori venivano obbligati a diventare cittadini e ad abitare all’interno delle mura. La classe dirigente della città si arricchì delle famiglie guerriere del contado, che potarono a Firenze le case-torri e i costumi di faida e violenza. Con il contado pacificato e sicuro, prosperarono le attività mercantili e, nel 1182, si costituì la prima organizzazione dei mercanti, chiamata Arte. I mercanti acquistavano i panni di lana e il materiale tintorio e li raffinavano nelle botteghe per poi esportarli a prezzi maggiorati. E fu così che alla manifattura si affiancò l’attività di prestito del denaro. Con la crescita economica, anche la popolazione incrementò, tanto che lungo le strade che dalle porte andavano verso la campagna si crearono dei borghi, in cui si insediavano i nuovi arrivati. Empori, opifici e nuove case torri crebbero fuori dalle mura.

Quanto all’aspetto politico, dopo la morte di Matilde di Canossa, le istituzioni cittadine decollarono, determinando un governo autonomo de facto, distaccato da quello del Sacro Romano Impero, a cui Firenze era fedele. Fu creato il collegio dei consoli, al quale si aggiungeva il parlamento, ossia l’assemblea generale dei cittadini, con la funzione di ratifica delle decisioni. Ma a governare tra i consoli erano sempre le famiglie aristocratiche, le quali avevano difficoltà a governare in modo collegiale. Questa fu la motivazione che determinò una tensione continua che sfociava in frequenti episodi di violenza. Firenze era un campo continuo di battaglia in cui ci si contendeva il potere, il predominio di una famiglia sull’altra. I gruppi parentali si riunivano in associazioni che avevano tra loro rapporti matrimoniali, di affari o di amicizia e che abitavano nella stessa zona della città, che veniva fortificata con un sistema di edifici collegati e coronati da torri alte settantacinque metri. Era la cosiddetta società delle torri, i cui caratteri principali erano l’uso delle armi, le case-torri (ispirate alla pratica di guerra del contado) e il diritto alla vendetta. Le lotte interne tra le famiglie assunsero presto connotazioni più ampie e la lotta tra impero e papato servì come alibi per mascherare le lotte interne.

Oltre alla rivalità tra le famiglie aristocratiche che si alternavano nella gestione del potere, vi era anche il malcontento di quelle famiglie che restavano al di fuori delle consorterie e che ambivano a entrarvi o a rovesciare i meccanismi di potere. I primi furono gli Uberti che, nella seconda metà del XII secolo, si scagliarono contro il regime consolare, il quale si rivelò incapace di contenere queste ribellioni e che fu, perciò, abolito e sostituito con il regime podestarile. Il potere esecutivo venne quindi affidato a un magistrato forestiero, al quale si affiancarono un consiglio ristretto e uno allargato di cui facevano parte i capi delle Arti (ossia delle associazioni professionali). Il podestà doveva essere di condizione cavalleresca, buon capitano di guerra e avere conoscenze giuridiche, le quali si conseguivano all’università, frequentata solo dai membri delle famiglie aristocratiche; il podestà era, perciò, sempre un aristocratico. Con il consiglio allargato, però, entrarono nel panorama politico anche gli esponenti del Popolo, membri delle corporazioni. Prima fu l’Arte della Calimala (dei mercanti), poi fu la volta di quella del Cambio (banchieri), della Lana, della Seta e altre.

Nonostante l’ingresso del Popolo nel governo, gli scontri tra le fazioni non si attutirono e, nel 1216, l’incidente tra i Buondelmonti e i Fifanti polarizzò le antiche inimicizie in un sistema binario, che divenne la faida tra guelfi e ghibellini. Le scelte degli Uberti diedero agli schieramenti una connotazione ultra-cittadina: la loro fedeltà all’impero fece chiamare ghibellino il loro partito, al quale si contrappose quello dei guelfi, che significava generalmente anti-ghibellino e che, poi, passò a indicare i sostenitori del papa. A questi scontri, però, non partecipava il Popolo, anche se ne era coinvolto, soprattutto perché i popolani più alti che ambivano a una vita aristocratica e alcune famiglie di illustri natali ma di poco denaro, si imparentarono tra loro creando un nuovo ceto: i magnati. Nonostante l’instabilità politica, il moltiplicarsi delle attività economiche richiamò a Firenze una selva di uomini che andarono a incrementare la manodopera di opifici e botteghe e che costruirono nuovi borghi, dagli assetti miserabili e dalla posizione malsana, soprattutto a causa di zone paludose e inquinate. Al loro soccorso arrivarono gli Ordini mendicanti che si posizionarono in diversi punti della città, ognuno attorno a una piazza con la rispettiva chiesa: francescani, domenicani, serviti, carmelitani e agostiniani.

Gli scontri tra guelfi e ghibellini si intensificarono e ad essi si affiancarono le lotte con i grandi nobili del contado, quelle con le altre città (soprattutto Pisa e Siena) e quella contro i catari, svolta dall’Inquisizione gestita dagli Ordini mendicanti. Nel 1250, il partito ghibellino che governava la città venne rovesciato da un’insurrezione guelfa e le grandi famiglie che lo avevano appoggiato furono mandate in esilio, dando vita al periodo detto “del Popolo Vecchio”. L’assetto istituzionale mutò di nuovo e venne formato da due parti: da un lato il comune, guidato dal podestà, e i due consigli, dall’altro il Popolo guidato dal Capitano, forestiero e cavaliere, affiancato da altri due consigli (dei dodici, eletto dalle compagnie militari, e dei ventiquattro, di cui facevano parte i consoli delle Arti). Negli anni di questo governo guelfo fu riorganizzata la milizia, vennero create le nuove circoscrizioni, i sestieri, fu costruito il palazzo del Popolo (il Bargello), venne presentato il fiorino.

Ma circa dieci anni dopo, la battaglia di Montaperti, sfociata a causa del rifiuto della città di accettare l’egemonia di Manfredi di Svevia (che volle assoggettare la Toscana all’Impero), causò una crisi di governo. Nella battaglia, infatti, l’esercito guelfo fu sterminato, dando modo ai ghibellini esiliati di tornare in patria e di darsi a feroci vendette. Il governo di Firenze tornò nelle mani del partito ghibellino, guidato da Farinata degli Uberti. Non durò a lungo. Nel 1266, la caduta di Manfredi nella battaglia di Benevento e la conseguente vittoria di Carlo d’Angiò, sostenuto da papa Urbano IV, fece cadere i ghibellini. Tuttavia, alcuni pontefici successivi, in particolar modo Niccolò III, cercarono di arginare il potere di Carlo e favorirono alcuni ghibellini, i quali tornarono a Firenze, in un precario equilibrio con il governo guelfo. Questo assetto delicato portò il Popolo a premunirsi per non essere cacciato di nuovo dal potere, così i maggiorenti delle Arti della Calimala, del Cambio e della Seta ottennero che i loro rappresentanti affiancassero il governo comunale. Fu istituito il collegio dei sei priori delle Arti (uno per ogni sestiere) e venne riconosciuto il diritto delle Arti maggiori e mediane di avere un capo, detto gonfaloniere, un consiglio e dei reparti armati, e il diritto per i capi delle Arti di entrare nel consiglio del podestà. Era la vittoria di imprenditori e banchieri che erano riusciti a creare un governo in cui le associazioni professionali avevano una voce forte.

Tuttavia, questo nuovo governo popolano non piaceva ai membri dell’antica aristocrazia cavalleresca e alle famiglie che con loro si erano imparentate. Si creò, così, un conflitto sociale tra i magnati (ossia, non solo gli aristocratici, ma anche chiunque potesse attentare alla supremazia del Popolo nel governo cittadino grazie a ricchezza e prestigio) e il Popolo. I primi cercarono di recuperare lo svantaggio politico alimentando la guerra contro i ghibellini che era rinata nel 1288 e che portò, con la battaglia di Campaldino dell’anno successivo, a una nuova ascesa delle famiglie guelfe magnatizie (ricche). Ma contro di esse, nacque un movimento popolano volto sottrarre loro il potere, che portò all’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293, ossia una serie di norme che stabilirono l’impossibilità di essere eletti come priori o membri dei consigli per i magnati. Il Popolo voleva evitare che le famiglie ricche potessero, attraverso il prestigio, il peso politico e il denaro, attentare alla sua supremazia nel governo. Tuttavia, l’alleanza con il papa delle famiglie guelfe portava grande afflusso di denaro alle banche fiorentine, pertanto i guelfi andavano in qualche modo tollerati. Gli Ordinamenti vennero così emendati due anni più tardi, permettendo ad alcuni magnati di accedere alle Arti e, perciò, al governo.

A garanzia di questo nuovo assetto di governo, per impedire che i magnati guelfi approfittassero della loro posizione nei consigli, fu posto il gonfaloniere di giustizia, un magistrato supremo del collegio dei priori. Si formò così una élite composta da antiche famiglie e nuovi ricchi che aspiravano alla vita aristocratica e che si proponevano come banchieri e appaltatori di tasse, riunendosi in compagnie, ossia società bancarie e commerciali che prendevano il nome dalla famiglia che contava di più. All’inizio del Trecento non esistevano più le consorterie di famiglie guelfe e ghibelline, ma le compagnie di ricchi pronti a egemonizzare il governo delle Arti. Esse gestivano anche i depositi di speculatori stranieri e degli istituti ecclesiastici, nonché il prestito internazionale di importanti somme.

La lotta politica, però, non si era attenuata. Dopo Campaldino, il partito guelfo si era scisso in due fazioni: la famiglia dei Cerchi guidava i guelfi bianchi, mentre i Donati, guidavano i guelfi neri. Nel 1302, i guelfi neri uccisero ed esiliarono i bianchi, ma una serie di problematiche tra loro e con i ghibellini portò, nel 1325, il Popolo Grasso (ossia i membri delle famiglie più influenti) a chiedere aiuto al re di Napoli, il quale affidò la signoria di Firenze a suo figlio Carlo d’Angiò per dieci anni.

Si chiuse, così, uno dei periodi più splendidi per la vita artistica, urbanistica e culturale della città, nel quale Arnolfo di Cambio fu protagonista. Firenze era diventata una delle città più popolose dell’Occidente, erano stati costruiti una nuova cinta muraria, il palazzo dei Priori (Palazzo Vecchio), il battistero, la basilica di Santa Maria del Fiore. Era stata la Firenze di Dante, Cimabue e Giotto.

A metà del Trecento, le compagnie fiorentine prestavano denaro ai papi, ai re di Francia e Inghilterra e a tutti i signori d’Europa; le botteghe raffinavano il 10% di tutti i panni di lana prodotti in Occidente. Banca, commercio e manifattura si sostenevano a vicenda. Calimala, Cambio e Lana dominavano la città. Eppure, l’avvio della guerra dei Cent’anni portò all’insolvenza del re inglese Edoardo III, a cui le compagnie avevano concesso ingenti prestiti, e molte di esse fallirono, prostrando la città. La situazione era difficilissima. Per un breve periodo, la signoria fu affidata a un nobile francese (che venne poi abbattuto con una serie di congiure), nella speranza di rimediare alla situazione di emergenza. Dopo la sua cacciata, la signoria tornò nelle mani del Popolo Grasso e i suoi organi fondamentali furono il gonfaloniere, gli otto priori, il consiglio dei Buoniuomini (degli anziani) e quello dei sedici, i gonfalonieri di compagnia. Tuttavia, le difficoltà politiche ed economiche avevano determinato una fase di rallentamento in tutti gli aspetti della vita cittadina, aggravati anche dall’epidemia di peste del 1348. La città fu flagellata, poi, da annate di grave carestia e da frequenti passaggi delle Compagnie di Ventura e questo stato di cose provocò agitazioni dei ceti subalterni, che vivevano in condizioni miserabili, come il tumulto dei Ciompi del 1378. I ciompi, ossia i sottoposti all’Arte della Lana, si rivoltarono per ottenere salari e condizioni di vita migliori, nonché il riconoscimento giuridico e istituzionale del loro stato. Questa rivolta portò alla creazione di tre nuove Arti, dei ciompi, dei farsettai e dei tintori.

Tuttavia, pochi anni dopo, il Popolo Grasso ristabilì un ordine oligarchico, in cui i protagonisti erano gli Albizzi, i quali smantellarono gli schieramenti famigliari opposti, finché la lotta si radicalizzò tra gli Albizzi, che rappresentavano la vecchia oligarchia, e i Medici, capi della compagnia della Calimala, a cui guardavano i nuovi cittadini e gli esponenti di Arti mediane e minori. A questa lotta si legò l’istituzione del catasto, ossia il sistema organico di tassazione basato sui capitali e sui redditi mobili e immobili. Esso sovvertiva il precedente sistema basato su imposte indirette e tasse sul patrimonio, in cui la finanza pubblica si reggeva sui dazi alle merci e ai comuni. Con il catasto, si andò ad attingere ai forzieri delle grandi famiglie e il primo sostenitore del nuovo sistema fu Giovanni de’ Medici. Egli si inimicò, così, ancor di più gli Albizzi che, a quel punto, erano obbligati a pagare.

Quando Giovanni morì, la guida della compagnia e della fazione medicea passò al figlio Cosimo, con il quale iniziò la fortuna politica della casata. Egli, infatti, nonostante l’avversione di Rinaldo degli Albizzi che riuscì a farlo incolpare di fallimento e a farlo esiliare, godeva del pieno favore della signoria. Fu un grande mecenate e un abile banchiere e politico. Alla sua morte, gli succedette il figlio Piero, anch’egli abile in affari e politica, ma di salute cagionevole. Dopo cinque anni, morì lasciando il comando ai giovani figli Lorenzo e Giuliano. Se Giuliano restò un po’ nell’ombra, Lorenzo il Magnifico fu un grande statista e diplomatico, un cultore delle lettere e ottimo mecenate, ma purtroppo non era abile negli affari e, sotto la sua guida, fallirono alcune filiali del banco mediceo. In questo periodo, Firenze non crebbe né in popolazione né in perimetro urbano, ma si arricchì di magnifiche opere d’arte e visse in un’atmosfera allegra e giocosa, grazie all’incoraggiamento del Medici alle feste.

Due anni dopo la morte di Lorenzo, nel 1494, il banco dei Medici fallì e suo figlio Piero, che ne aveva preso il posto, fu cacciato dalla città per non essersi opposto alla discesa delle truppe del re francese Carlo VIII. Firenze visse, così, quattro anni di lotte tra i seguaci del frate domenicano Girolamo Savonarola (i “piagnoni”) e i suoi avversari (gli “arrabbiati”, sostenitori di una repubblica oligarchica, e i “palleschi”, sostenitori del ritorno dei Medici). Savonarola voleva una città purificata dal peccato, con un regime popolare guidato dal Consiglio Maggiore, predicava la penitenza, fomentando roghi degli oggetti di lusso. Ma il suo predicare non piaceva a papa Alessandro VI Borgia che lo scomunicò e lo condannò a morte per eresia.

Caduto il domenicano, la Repubblica resuscitò con la creazione del gonfaloniere a vita, nella persona di Pier Soderini. Ma la repubblica (celebrata dal David che Michelangelo scolpì in questi anni) si appoggiava alla corona di Francia e, nel clima europeo caratterizzato dalle guerre tra Francia e Spagna, non durò a lungo. Infatti, nel 1512 un esercito spagnolo riportò in città i Medici e Firenze cadde in mano a un altro figlio del Magnifico, il cardinale Giovanni de’ Medici, e l’anno successivo passò al fratello Giuliano, duca di Nemours, quando il primo fu eletto papa Leone X. Nel 1516, alla morte di Giuliano, il governo passò al figlio di Piero (che era stato cacciato), Lorenzo duca d’Urbino, il quale però morì due anni dopo. Il governo allora toccò a suo figlio Alessandro e al cugino, il cardinale Ippolito (figlio di Giuliano di Nemours). Grazie ai posti occupati nello stato pontificio da Leone X prima e da Clemente VII poi (al secolo, Giulio de’ Medici, figlio del fratello del Magnifico, Giuliano), l’economia di Firenze rifiorì. Ma nel 1527, quando Clemente VII si alleò con la Francia contro Carlo V che saccheggiò Roma, Firenze insorse e cacciò nuovamente i Medici: il popolo non avrebbe più tollerato un sovrano. Il papa, però, non era felice di questo nuovo esilio, così, dopo la riappacificazione con Carlo V, gli chiese di riportare l’ordine nella sua città. I fiorentini resistettero per undici mesi agli assalti dell’esercito spagnolo, con Michelangelo in prima fila a dirigere i lavori di fortificazione. Tuttavia, dovette arrendersi, ma l’ardore popolare dimostrato dalla città fece capire al papa che serviva qualcosa di più forte dei meccanismi politici con cui avevano governato in precedenza. Così, nel 1532, Firenze fu trasformato dall’imperatore in ducato e la corona fu affidata ad Alessandro figlio di Lorenzo di Urbino. Cinque anni dopo, egli fu assassinato, estinguendo la discendenza diretta di Cosimo. Il ducato, allora, passò a un esponente del ramo cadetto della famiglia, Cosimo I, figlio di Giovanni dalla Bande Nere. Cosimo governò con saggezza e creò uno stato toscano uniforme, con fortezze e regge in tutta la Toscana di cui divenne granduca, grazie alla nomina pontificia a granducato. Avviò grandi lavori di bonifica, sviluppò l’urbanistica, favorì il porto di Livorno, fondò l’Ordine di Santo Stefano per combattere i pirati, trasferì la corte a Palazzo Pitti, creò l’Accademia fiorentina e quella della Crusca. Furono gli anni del Giambologna e di Benvenuto Cellini, dell’Ammanati e di Vasari. Anni che chiusero i secoli d’oro di Firenze, quelli in cui fu costruito e realizzato tutto ciò che, oggi, migliaia di turisti da tutto il mondo vengono a vedere con i propri occhi.

D’ora in avanti, quando passeggerete per le strade di Firenze, fermatevi un secondo e provate a tendere l’orecchio. Vi sembrerà di sentire le urla del popolo durante gli scontri tra i guelfi e i ghibellini, il tintinnare dei fiorini sui banchi delle famiglie di banchieri, le prediche di Savonarola, il rumore degli scalpelli sul marmo. Vi sembrerà di scorgere Michelangelo davanti a Palazzo Vecchio, intento a controllare il suo David (che oggi è custodito alla Galleria dell’Accademia), o Lorenzo il Magnifico che varca il portone del suo palazzo in via Larga (oggi è via Cavour).

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Fatti storici

La battaglia di Lepanto

È il 7 ottobre 1571 e, nel Mediterraneo, sta per svolgersi la più grande battaglia navale che le sue acque abbiamo mai ospitato.

Due flotte gigantesche, da duecento galere ciascuna, stanno per scontrarsi; a bordo ci sono cinquanta mila uomini per ogni flotta: da una parte, le navi musulmane dell’Impero ottomano, dominatore dei mari, dall’altra quelle cristiane della neonata Lega Santa, voluta da papa Pio V (al secolo Antonio Ghisleri) e stretta con la Repubblica di Venezia e l’impero spagnolo, governato da Filippo II, che riunisce sotto lo stesso comando anche la repubblica di Genova, i cavalieri di Malta, i ducati di Savoia, Urbino e Lucca e il granducato di Toscana.

È il momento che Pio V aspettava da anni: è la grande occasione per coalizzare le potenze cristiane per sconfiggere i turchi; “È la volta che spezzeremo le corna a quell’indomita bestia”, disse, riferendosi al Sultano. E l’appiglio per realizzare l’impresa venne dalla presa di Famagosta, la città veneziana sull’isola di Cipro assediata dai turchi e strenuamente difesa dalla guarnigione locale comandata da Marcantonio Bragadin e Astorre II Baglioni. Cipro è, infatti, l’estrema punta del dominio veneziano e i turchi la rivendicano, anche perché divenuta ormai base per i pirati cristiani che attaccano le navi turche. L’impero ottomano è all’apice del suo splendore e vuole riprendere il dominio dell’isola e si sente legittimato a farlo anche dal favore della popolazione locale che percepisce un’eccessiva ingerenza da parte dei veneziani.

Occorre, quindi, soccorrere materialmente Famagosta. Ma questo è soltanto il pretesto; in gioco c’è il controllo del Mediterraneo. Il dominio ottomano, infatti, è in crescente espansione e minaccia i governi dell’occidente, soprattutto i possedimenti veneziani del Mare Nostrum; inoltre, la pirateria turca lede gli interessi spagnoli. E queste preoccupazioni sono ciò che il papa aspettava per la sua nuova Crociata.

Nel settembre del 1571, la flotta della Lega si raduna, così, a Messina e prende il largo verso il Levante. Qui, vengono raggiunti dalla notizia che Famagosta è caduta in mano ai musulmani, i quali hanno riservato una fine orribile al senatore Bragadin: lo hanno mutilato al viso, mozzandogli naso e orecchie, poi lo hanno rinchiuso per dodici giorni in una minuscola gabbia lasciata al sole, con pochissima acqua e cibo; al quarto giorno, gli hanno proposto la libertà in cambio della conversione all’Islam, ma lui ha rifiutato, quindi lo hanno appeso all’albero della nave e lo hanno massacrato con cento frustate, poi lo hanno costretto a portare in spalla per le strade di Famagosta una cesta piena di sabbia e pietre finché non ha avuto un collasso; allora, lo hanno incatenato a una colonna nella piazza principale e lo hanno scuoiato vivo, partendo dalla testa e poi lo hanno decapitato. La sua pelle è stata poi riempita di paglia, innalzata sulla galea del Pascià e portata a Costantinopoli come trofeo.

Il 6 ottobre le navi cristiane giungono davanti al golfo di Lepanto. Gli ammiragli sanno che la flotta turca è in difficoltà, provata dalla campagna appena conclusa nel Mediterraneo per la conquista dei porti veneziani: il malcontento serpeggia nelle navi, la flotta è logora, sono stremati dal tifo, hanno consumato molte munizioni. La Lega Santa invece è intatta, le galere non hanno ancora sparato un solo colpo. All’alba del 7 ottobre, i turchi eseguono l’ordine di Costantinopoli di affrontare i miscredenti ed escono dal porto. Al mattino, entrambe le flotte si vedono avanzare l’una contro l’altra.

La battaglia ha inizio!

I cristiani portano avanti le sei galeazze veneziane, ossia galere più grandi ma pesantemente armate con quaranta cannoni ciascuna, allo scopo di rompere la formazione nemica. Centrano l’obiettivo mandando a picco alcune galere turche. Quando, a mezzogiorno, le navi si avvicinano e si speronano, inizia la battaglia tra le fanterie: i giannizzeri turchi si scontrano, a bordo delle galere, con la fanteria cristiana più potente e corazzata. Ora, si combatte su galere lunghe quaranta metri e larghe cinque. I soldati cristiani sparano con gli archibugi, mentre i giannizzeri rispondono soprattutto con le frecce. L’obiettivo è riuscire ad abbordare il nemico e combattere sul suo ponte a colpi di spada fino a uccidere o gettare in mare tutti gli avversari. In questo modo, i cristiani hanno la meglio e, progressivamente, conquistano e catturano le galere del nemico.

All’ora di sera, la flotta ottomana è distrutta (ad eccezione della squadra dei pirati algerini, che prende il largo portando con sé qualche galera cristiana), mentre la flotta della Lega Santa ha perso pochissime galere. Delle cinquanta mila persone a bordo delle navi turche, solo qualche migliaio di schiavi cristiani viene salvato, mentre il resto muore nella battaglia.

La Lega Santa ha riportato un’importantissima vittoria sull’Impero ottomano! Tuttavia, la battaglia di Lepanto non riuscì a segnare una svolta importante nel contenimento dell’espansionismo turco. Ebbe, però, un importante valenza psicologica in quanto fu la prima grande vittoria di una flotta cristiana occidentale contro l’Impero ottomano.

Consigli di lettura: se volete leggere un romanzo relativo a questa battaglia, vi consiglio “Leoni da Mar” di Andrea Zanetti, edito da Piazza Editore; se preferite un saggio, è perfetto per voi “Lepanto. la battaglia dei tre imperi” di Alessandro Barbero, edito da Laterza Edizioni.

Segnalazione prossima uscita

#inarrivo. “Il tempo del giudizio” di Daniela Piazza

In arrivo martedì 8 febbraio, il nuovo romanzo di Daniela Piazza, “Il tempo del giudizio“, edito da Rizzoli, per la collana Historiae. Un romanzo storico incentrato sulla Cappella Sistina che si preannuncia molto avvincente.

Ecco la trama:

Roma, 1473. All’ombra degli alti palazzi e delle basiliche secolari, Papa Sisto IV ha una sola ossessione: riprodurre nella Città Eterna il Tempio di Salomone, per riportare la Chiesa di Roma all’antico splendore. Ecco allora prendere forma il progetto grandioso della Cappella Sistina, che del Tempio di Gerusalemme ha le stesse misure. Ma per completare il suo piano, serve un simbolo di potere le cui tracce si perdono nel tempo e nel mito: la misteriosa melagrana d’avorio che ornava lo scettro del Sommo Sacerdote. Così, mentre in Vaticano, tra intrighi di corte e brama di potere, una mano ignota compie atroci omicidi ai piedi della Sistina, il pontefice incarica il giovane monaco Moses di impadronirsi della preziosa reliquia. Le cose, però, non vanno come previsto. La ricerca si rivelerà sempre più insidiosa e condurrà Moses lontano da Roma, oltre i confini del bene e del male, in un viaggio che dal Palazzo degli Ospedalieri a Rodi passa alle locande di Cipro e arriva fin dentro le mura di Otranto assediata dai Turchi. Al ritorno da questo lungo viaggio, la sua vita sarà cambiata per sempre, e con essa anche la storia della Cappella più famosa di tutti i tempi.

DANIELA PIAZZA (1962), laureata in Storia dell’Arte e diplomata al Conservatorio, lavora come insegnante a Savona. Per Rizzoli ha pubblicato il bestseller Il tempio della luce (2012), disponibile in BUR, L’enigma Michelangelo (2014) e La musica del male (2019). 

le fondamenta del romanzo storico

Le fondamenta del romanzo storico. Sesto appuntamento: il linguaggio.

Siamo arrivati all’ultima tappa di questo viaggio all’interno del romanzo storico. Oggi affrontiamo un altro aspetto peculiare di questo genere: il linguaggio.

Un linguaggio che deve essere semplice e chiaro, mai ampolloso, ma deve anche dare l’impressione di trovarsi in un’epoca lontana. Per questo motivo, è necessario usare i termini corretti, come ad esempio, quelli degli abiti e degli oggetti, oppure il nome delle ore del giorno che devono essere quelli utilizzati nell’epoca narrata. Anche in questo caso, tutto è frutto di una ricerca accurata. Quindi, ad esempio, in un romanzo ambientato nel Quattrocento, non sarebbe corretto dire “incontriamoci alle tre”, ma “incontriamoci alla nona”, perché la misurazione del tempo nel Medioevo era differente. Questo processo di scelta dei termini corretti deve essere poi approfondito per evitare di scadere in luoghi comuni e parole/frasi superficiali, che rischiano di irritare il lettore per la loro banalità.

È necessario poi, evitare, tutte quelle espressioni che sono tipiche del linguaggio contemporaneo e che non avrebbero potuto essere pronunciate nell’epoca narrata, anche se ciò non significa, ovviamente, che il romanzo debba essere scritto nel modo in cui si parlava nel periodo storico in cui è ambientata la vicenda. L’autore, quindi, dovrebbe cercare di adeguare il tono e lo stile del linguaggio ai protagonisti, in particolare nei dialoghi. Questi, soprattutto nel romanzo storico, hanno il compito di caratterizzare i personaggi, rendendoli quasi vivi agli occhi del lettore, pertanto devono risultare credibili e coerenti con il contesto.

Ora, per l’ultima volta, lascio la parola ad Andrea Zanetti.

Un tasto dolente di alcuni romanzi storici è il linguaggio utilizzato nella narrazione che, in alcuni casi, non sembra essere appropriato all’epoca storica in cui si svolge la trama. In quale modo l’autore può adattare il tono e lo stile del linguaggio ai personaggi e al periodo narrato?
Ritengo sia una questione di scelta narrativa, primariamente, e talento in via accessoria. Ci sono romanzi molto “barocchi”, per così dire, intensi e complessi. Altri invece, tipicamente britannici o statunitensi, che narrano con assoluta precisione ma senza fronzoli evocativi. Entrambi possono diventare best seller. Io, che pur ho vissuto un’evoluzione dettata anche dall’esperienza via via conquistata, sono propenso a premiare il ritmo. E il ritmo si ottiene con semplicità ed efficacia. Ma lo stile è una cosa, l’oggetto narrativo è un’altra. I dettagli storici, ad esempio, possono compensare uno stile più contemporaneo.

Questo aspetto risulta centrale, poi, nei dialoghi. Capita, a volte, di imbattersi in romanzi storici basati su dialoghi nei quali l’autore/autrice si è limitato/a ad utilizzare ripetutamente alcuni vocaboli (come, ad esempio, i classici messere/madonna) nell’erronea convinzione di aver dato, così, credibilità alle battute. Quale lavoro ulteriore comporta la costruzione di dialoghi di un romanzo storico rispetto a quelli di altri generi?
Questo è un vero grattacapo. Una scelta stilistica pura. E che richiede solo una cosa: coerenza. Se si vuole scendere ad un livello molto attento e profondo nelle peculiarità del dialogo, va fatto in modo coerente e totale. A me le forme semplicistiche e ibride non piacciono perché si rischia di scadere, come dicevi tu, nella frivola ripetizione di luoghi comuni. Si può optare invece per un taglio più contemporaneo, pur facendo molta attenzione. Alcuni termini di uso comune oggi sono proprio impossibili da far pronunciare ad un personaggio vissuto trecento anni fa. Pur mantenendo un vocabolario moderno, va dato un senso del dialogo d’altri tempi, ad esempio con l’ausilio di più subordinate, e calibrato anche sull’estrazione sociale di chi parla. Nobili e popolani parlavano in modo notevolmente diverso.

Sempre parlando di dialoghi, nel romanzo storico, assolvono alla duplice funzione di caratterizzare il personaggio e far calare maggiormente il lettore nell’epoca narrata. Come si costruisce questo connubio? Quali difficoltà comporta?
Si deve essere consci che un uso desueto di una lingua appesantisce un po’ il ritmo. A volte, al lettore, servirebbe un dizionario a portata di mano. Andrebbe anche studiata molto la lingua teoricamente parlata dal personaggio (la lingua tedesca dell’Ottocento è molto diversa dal Latino dell’Impero Romano). Tutto il romanzo, a mio modo di vedere, deve avere una certa omogeneità, ma è d’effetto che un nobiluomo in Maggior Consiglio parli in modo sensibilmente più costruito di un brigante di campagna, ma nel complesso non debbono sembrare appartenere a due libri diversi.

Giunti al termine di questa avventura, ringrazio moltissimo Andrea Zanetti per aver dedicato del tempo a questo progetto e tutti voi per averci seguiti fin qui!

le fondamenta del romanzo storico

Le fondamenta del romanzo storico. Quinto appuntamento: il contesto, tra Storia e fantasia.

Per scrivere un romanzo storico è necessario partire dalle fonti per ricostruire il contesto, ossia i fatti che fanno da sfondo alla vicenda. L’autore deve recuperare tutte le informazioni utili e collegarle per ricostruire il quadro completo del periodo, come se fosse un puzzle.

Ma è possibile inventare in un romanzo storico? La risposta è certamente sì, ma la parola d’ordine per l’intervento della fantasia dell’autore è verosimiglianza. I fatti storici più importanti del contesto scelto, però, dovrebbero essere rispettati e non dovrebbero essere snaturati, altrimenti la credibilità del romanzo salterebbe irrimediabilmente, sia che si tratti di un romanzo storico che di uno dei suoi sottogeneri. Ad esempio, se si racconta la battaglia di Lepanto non è possibile sovvertirne l’esito, dichiarando la vittoria degli Ottomani soltanto perché necessario alla trama, a meno che non si tratti di un romanzo ucronico (la fantastoria).

In un romanzo storico, quindi, non sono presenti soltanto eventi realmente accaduti, soprattutto perché la Storia è piena di lacune a cui si supplisce con la fantasia. Più si torna indietro nel tempo, infatti, più scarse sono le informazioni e, quindi, maggiore sarà l’intervento dell’immaginazione dell’autore. Ma ciò deve essere fatto con criterio: può succedere di tutto in un romanzo, purché sia verosimile e contestualizzato. Il contesto, infatti, deve sempre essere rispettato.

Inoltre, la fantasia è molto importante perché, quasi sempre, il dato storico è scarno e freddo. Tutto ciò che ruota intorno al dato storico deve essere ricostruito dall’autore con la fantasia. Vi riporto l’esempio che mi fece Carla Maria Russo nell’intervista di qualche mese fa: “Costanza d’Altavilla, fu costretta ad abbandonare il convento e sposare Enrico VI di Svevia. Questo è il dato. Ma poi questi fatti devono tradursi in scene, dialoghi, comportamenti, passioni, reazioni, sentimenti…Come sarà stato comunicato a Costanza che doveva abbandonare il convento? Chi glielo ha comunicato? E lei, come avrà reagito? Cosa avrà provato?”

Da lettrice, inoltre, posso aggiungere che è sempre utile, al termine del romanzo, inserire una nota storica che spieghi gli eventi, distinguendo ciò che è realmente accaduto da ciò che è stato inventato dall’autore.

Ora, però, lascio la parola ad Andrea Zanetti.

Quanto in profondità è necessario raccontare le vicende storiche che fanno da sfondo alla trama del romanzo?
Questa credo sia una scelta molto individuale e “stilistica”. Io ho voluto raccontare un periodo storico e “politico” utilizzando storie di avventura, la dimensione storica è importante per me. Poi si incontrano i gusti. Chiaramente più è dettagliato e sviluppato il contesto e più il testo assomiglierà ad un saggio. Meno viene descritto l’ambiente, e più si perderà la connotazione storica al romanzo. Trovare un equilibrio è compito dell’autore, ma ognuno ha una sua sensibilità e un proprio gusto personale.

Quanto deve essere fedele alla verità storica l’autore che si accinge a romanzare eventi storici?
Io mi sento di dire molto. Ci sono altri generi letterari che possono raccontare un passato diverso da quello che è stato (estremizzando si può pensare al fantasy storico). Chi legge un romanzo storico accetta una componente di fantasia e alcune libertà poetiche, ma la credibilità di un autore sta nel saper dipingere abbastanza fedelmente un’epoca. 

E quanto, invece, può spingersi con la fantasia, senza alterare la Storia?
Nella fiction, sia chiaro, non ci sono limiti o regole precise. Nessuno vieta di scrivere un romanzo in cui la flotta cristiana è stata sconfitta a Lepanto e i turchi hanno conquistato l’Europa per altri quattro secoli, ma a questo punto non lo definirei più un romanzo storico… Vale anche per i personaggi: nessuno vieta di raccontare un Doge arabo, un sultano donna, una popolazione vichinga nel cuore dell’Africa all’epoca della tratta degli schiavi… Ma così si trascende verso la fantascienza. 

Restando nell’ambito di ciò che può essere introdotto dalla fantasia dell’autore, è possibile inventare un fatto storico? Facciamo un esempio. Partendo da un assedio via mare storicamente documentato, per fini narrativi, è possibile inventarne uno precedente allo scopo, ad esempio, di aumentare il grado di paura della popolazione assediata?

Rimane sempre il fatto che il romanzo non è un saggio… Se si distorce la storia anche quando non serve, direi che non si fa un buon lavoro. Ci sono altre strategie per aumentare il pathos. Non serve mentire sulla storia reale. Ad esempio: si potrebbe far vedere un personaggio che predica in una piazza le atrocità di un assedio che ha vissuto e da cui è miracolosamente scampato, gettando così nel terrore gli spettatori. La voce si sparge e la storia viene amplificata a dismisura, così da gettare la popolazione intera nel panico. Si crea in questo modo la “scena” e il pathos, ma non si distorce la storia che rimane ad ogni modo un elemento fondamentale nel romanzo storico. È una strategia più elegante secondo me e alla fine paga.

Come si affrontano le lacune storiche relative alle vicende che si raccontano nel romanzo?
Sicuramente la parola “romanzo” ci salva. Nessuno ha la pretesa di scrivere un saggio che sia l’opera omnia di una determinata civiltà o epoca. Il romanziere fa altro. Fa interpolazione, anche. Immagina, pensa, ragiona, crea con la fantasia. Anzi, questo genere mette le radici nei libri di storia, ma è proprio nelle lacune che può espandersi. Si diventa improvvisamente liberi da vincoli, e tutto (o quasi) diventa possibile. Io cerco proprio le lacune per poter trasformare un dubbio, una curiosità in una storia possibile.

Vi aspettiamo il 29 dicembre per l’ultimo appuntamento di questa rubrica. Affronteremo il tema del linguaggio di questo genere letterario.

le fondamenta del romanzo storico, rubrica

Le fondamenta del romanzo storico. Quarto appuntamento: i personaggi storici.

Una della particolarità del genere storico è rappresentata dalla presenza di personaggi realmente esistiti, dalla cui biografia e personalità l’autore non può prescindere, sia che si tratti di protagonisti che di semplici comparse. Le aspettative del lettore relative alla caratterizzazione dei personaggi, infatti, sono molto più alte in questo genere rispetto ad altri, proprio perché egli ha la possibilità di conoscere la realtà di un personaggio storico. Quindi, attraverso lo studio della biografia del personaggio, l’autore deve ricavarne la psicologia e ricostruirne la personalità, il temperamento e l’indole, in modo da riportarlo al lettore nel modo più vivo e fedele possibile.

Da questi, poi, si distinguono i personaggi di fantasia che devono essere calati nella realtà storica in cui si muovono e che devono risultare credibili. Ma qui è necessario fare attenzione a non farli ricadere in schemi troppo netti e stereotipi e, soprattutto, ad evitare gli anacronismi. Ad esempio, creare un personaggio femminile medievale che compie imprese da eroina moderna non giova alla credibilità della storia. Per questo, è necessario tenere sempre a mente la cultura, la mentalità e la società del periodo storico in cui si ambienta il romanzo. E ciò non significa che non si possano costruire personaggi che lottano contro i difetti del loro tempo, ma sarà necessario farlo rimanendo nei limiti delle regole del periodo in cui vivono. Questo perché il modo in cui si sviluppano e si manifestano le dinamiche tra le persone è influenzato dalla società.

Ma ora lascio la parola ad Andrea Zanetti!

In un romanzo storico, risultano centrali i personaggi del passato, realmente esistiti, dei quali, si dice, l’autore debba saper rievocare gli spiriti. Quale tipo di studio sul personaggio deve compiere l’autore per riportarlo in vita? Come ci sei riuscito, ad esempio, con la regina di Cipro Caterina Cornaro?
Questo è sempre l’aspetto più delicato. Un conto è usare personaggi di fantasia o rievocare personalità illustri pur lasciandole nello sfondo, un conto è invece renderli protagonisti. Già questo, ovviamente, crea un problema nella storia, che rischia di scadere quasi nella fantascienza. Gli aspetti caratteriali poi sono sempre difficili da ottenere da fonti attendibili. Nel mio caso ho acquistato molte monografie sulla sua vita, sulla sua persona (Caterina Corner è stata senza dubbio una delle grandi donne del Rinascimento, e nel 2010 ricorreva il cinquecentenario della sua morte, occasione colta da molti storici per celebrarne il ricordo). Da queste ho cercato di trovare tratti comuni, in cui tutti gli autori erano concordi, usando quindi questa linea come base. Poi ho iniziato a ragionare di mio, deducendo aspetti psicologici dai fatti conclamati.

Fondamentale, e delicata allo stesso tempo, è poi la loro caratterizzazione. Come riesce lo scrittore a dare la giusta voce ad un personaggio realmente esistito?
Quello che ho fatto io è contestualizzare le opere che Ella ha fatto in vita (nel caso di Caterina), usando intuito, psicologia e immaginazione per poter capire che tipo di personalità possa aver mosso certe gesta. Caterina è stata sposata per procura appena diciassettenne, affidata ad un marito che regnava un’isola distante duemila chilometri da casa, lontana dalla famiglia e da tutto il suo mondo. Dopo essere stata lasciata vedova e aver visto morire il figlio, con il sospetto dell’avvelenamento per mano veneziana, ha cercato di regnare per quattordici anni, prima che Venezia esigesse dalla sua stirpe la fedeltà e il suo regno. Una donna che si isola quindi ad Asolo, lontana dalla politica e che si circonda di arte e musica, natura e amori, non può non essere stata una donna forte e sensibile. Io questo ho cercato di ritrasmettere.

Attorno ai personaggi storici, inoltre, ruotano anche personaggi di fantasia che servono la trama a più livelli, ma che devono essere creati in modo da risultare credibili in quel contesto storico. Come si costruisce questa credibilità? A quali aspetti deve prestare attenzione lo scrittore affinché i personaggi da lui inventati siano calati a tuttotondo nel contesto?
Anche qui, c’è qualche difficoltà in più. I personaggi di fantasia, sia protagonisti che comparse, hanno uno scopo narrativo, scelto dall’autore. Le vicende umane, come ho già detto, sono piuttosto universali, comuni in ogni epoca, perché di fatto, pur cambiando mentalità e morale all’evolvere delle società, i sentimenti di partenza rimangono gli stessi. Ci saranno sempre persone altruiste, invidiose, arriviste, sentimentali, abnegate, integerrime, traditrici, sognatrici. Bisogna però utilizzare queste sfumature caratteriali per giungere a scopi contestualizzati nel periodo storico. Il modo di pensare, sviluppato sulla base di queste pulsioni, cambia nel Trecento o nel Settecento, a Venezia o a Costantinopoli. 

Vi aspettiamo mercoledì 22 dicembre per parlare della ricostruzione del contesto tra fedeltà alla realtà storica e fantasia dell’autore.

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Le fondamenta del romanzo storico. Terzo appuntamento: l’importanza dell’ambientazione.

Per permettere al lettore di calarsi in un’epoca lontana da quella contemporanea è indispensabile che l’autore ricostruisca le atmosfere di quel periodo. Egli deve conferire tridimensionalità alla trama, prepararne il tessuto, inserendo elementi della vita quotidiana e le caratteristiche sociali e culturali, come le usanze, le condizioni sociali, i costumi. Per questo motivo, partendo dalla vicenda e tenendo ben presente i personaggi (e in particolar modo i loro ceti sociali, che influiscono sull’ambientazione), l’autore deve ricostruire il mondo intorno a loro. Per fare ciò, deve tenere conto di quelli che potremmo definire i tre aspetti dell’ambientazione:

  • Aspetto temporale: l’autore deve tenere conto, innanzitutto, del periodo in cui è ambientata la sua vicenda. Una volta scelto, dovrà ricostruire le norme, le abitudini, gli usi, le consuetudini e il modo di vivere tipici di quel momento storico. Ad esempio, il modo di vestire o quello di mangiare è stato molto diverso nella Roma Imperiale rispetto alla Roma del Quattrocento.
  • Aspetto spaziale: poi deve considerare il luogo in cui si svolge (sempre contestualizzato nel periodo scelto). Pertanto, l’autore deve ricreare nella mente del lettore l’immagine della città o del paesaggio per com’era in quel preciso momento. Inoltre, deve tenere presente che, in uno stesso periodo storico, ma in luoghi diversi gli aspetti della vita possono essere molto differenti.  
  • Aspetto sociale: il ceto sociale dei personaggi caratterizza anche l’ambientazione che, pertanto, sarà differente alla corte del Re Sole rispetto a quella delle strade di Parigi durante la Rivoluzione. Ad esempio, una vicenda in cui i personaggi appartengono alla nobiltà, questi avranno abitudini e comportamenti che saranno diversi rispetto a quelli delle persone dei ceti sociali più bassi dello stesso periodo storico. E tutto questo influisce sull’ambientazione a livello dei luoghi in cui vivono, di cosa mangiano, di come vestono, ecc.

E quello dell’ambientazione, dal punto di vista del lettore, può essere un aspetto fondamentale, un aspetto che l’autore non può trascurare. Infatti, la percezione del romanzo storico e il suo gradimento passano molto attraverso il grado di immersione che lo stesso permette. E più l’autore riesce a scendere nei dettagli, più il lettore può calarsi nella storia. Ma è proprio in questo aspetto che è facile commettere errori, che possono inficiare la considerazione del lettore sull’intero romanzo. Facciamo un esempio macroscopico: trovare una scena in cui un personaggio sta mangiando delle patate in un romanzo ambientato nella Milano del Trecento fa perdere alla storia la sua credibilità. Pertanto, lo scrittore deve essere abile nel destreggiare la conoscenze acquisite, deve studiare a fondo il periodo e le sue peculiarità e non addentrarsi in dettagli che ignora.

Ma adesso, lascio la parola ad Andrea Zanetti.

Proviamo ad entrare nel dettaglio: da cosa è formata l’ambientazione?

L’ambientazione è la parte caratterizzante del romanzo storico. Ma non è solo un orologio a cui abbiamo portato indietro le lancette. Ci sono mille accortezze da usare per ricreare l’ambientazione. Oltre ad una classica “decostruzione” degli edifici, delle città, delle strade e dei ponti, cambiano i mezzi di trasporto, cambiano i tessuti con cui ci si vestiva, cambiano le abitudini, dal lavoro alla cucina. Oggi da Venezia a Padova ci si impiega circa mezz’ora, ma una volta si andava a piedi! E quando si andava per mare si dormiva sopra i ponti di voga, per mesi, e si mangiava biscotto di farina cotto in acqua di mare e aceto. Ve lo immaginate? Ecco che l’ambientazione risulta tanto più accurata e coinvolgente quanto il narratore tiene in considerazione anche le conseguenze pratiche di tempi diversi e difficili (che è forse quello che manca maggiormente nei libri di storia, e che invece il romanzo può raccontare meglio). Quindi oltre la parte prettamente “visiva” dell’ambientazione, aggiungerei tutte quelle sfumature pratiche che caratterizzano il vivere in un’altra epoca.

Quali sono le difficoltà che lo scrittore incontra in questa ricostruzione?

La cosa più complessa è proprio l’approvvigionamento delle fonti. Fonti di qualità ben s’intende. Più ci si allontana dall’attuale e più queste scarseggiano, cambiano gli usi e le consuetudini, cambiano le tradizioni e cambiano i pensieri. Queste notazioni più si va lontano nel tempo e meno vengono trascritte. La storia cambia a seconda di chi la racconta. Per fare un esempio, se oggi il mondo venisse raccontato solo ed esclusivamente dai miliardari, fra cinquecento anni i nostri discendenti avranno un’immagine molto diversa e parziale di quella che è la realtà nel quotidiano. E ancora, ci mancano esperienze dirette rispetto a quello che vogliamo raccontare: non siamo più abituati a certi sapori, a certi profumi e odori, non conosciamo le sensazioni della fame nera, del gelo nelle case, il rumore di una vecchia bottega per la produzione di spade e picche. Bisogna lavorare molto di immaginazione affidandosi, se possibile, a chi si dedica alla rievocazione storica.

Quali sono, a tuo avviso, gli elementi fondamentali per proiettare nel lettore un’immagine nitida dell’ambientazione, come la Venezia del Cinquecento della tua trilogia?

Come in ogni buon romanzo, bisogna cercare di narrare attraverso tutti e cinque i sensi. Visivamente i dettagli di abiti, utensili dell’epoca, gli arredi dei palazzi possono dare una buona “prima impressione”. Ma credo si debbano raccontare anche le sonorità di una città laboriosa piena di botteghe di artigiani, ma anche il silenzio assoluto dei boschi o dei pascoli, un ambiente molto diverso da oggi. Così come gli odori che potevano intasare vie e calli di rioni popolari estremamente affollati, senza le comodità e le strutture igieniche di oggi. I disagi fisici di allora, poi, come vestiti troppo pesanti per le temperature estive o indumenti troppo leggeri per i lunghi inverni… e ancora i morsi di pulci, zecche e gli insetti… fa tutto parte di un quotidiano molto diverso e che merita una sua parte.

Quali errori deve evitare un autore a livello di ambientazione?

Mi preme fare una premessa: chi non fa non sbaglia mai. Qualcosa scappa sempre, è difficile essere dei veri tuttologi. Bisogna però cercare di non ricreare dei personaggi in tutto e per tutto simili a oggi. Quando si ricostruisce l’ambientazione porsi sempre il maggior numero di domande possibili, senza mai dare mai nulla per scontato. Un consiglio è di non entrare troppo nel dettaglio, in caso di dubbio. Fate lavorare la mente dei lettori. (E se ve lo dico io che inizialmente sono stato quasi didascalico…

Vi aspettiamo mercoledì 15 dicembre per affrontare il tema dei personaggi storici.

le fondamenta del romanzo storico, rubrica

Le fondamenta del romanzo storico. Secondo appuntamento: la ricerca e lo studio delle fonti.

Il punto di partenza per la stesura di un romanzo storico è la ricerca delle informazioni necessarie alla ricostruzione delle vicende, del contesto e dell’ambientazione. A tal fine lo studio delle fonti è, quindi, imprescindibile. Questa fase, però, è anche la più lunga e complessa, perché orientarsi tra la miriade di fonti storiche e storiografiche può essere dispersivo e spiazzante. Prima di poter iniziare la stesura, infatti, l’autore deve ricavare moltissimi dati e nozioni sulle vicende che vuole affrontare e sui personaggi che la popoleranno e questo risultato richiede una ricerca di mesi o, in alcuni casi, anche anni. Prima di poter trascinare i lettori all’interno della sua storia, deve egli stesso fare un salto nel tempo e raccogliere quanto più materiale possibile, fino quasi ad arrivare a conoscere periodo, eventi e personaggi, come se li avesse vissuti in prima persona. In questa fase, quindi, dovrà ricostruire le fonti utili al suo scopo e successivamente studiarle, ricavandone tutti gli elementi necessari. Ma ciò non è sempre agevole. Infatti, per alcune vicende o periodi la storiografia è carente o, addirittura, assente e l’autore si ritrova così a poter consultare soltanto fonti primarie, dilatando il tempo necessario allo studio. Pertanto, la consultazione di archivi, biblioteche e musei è fondamentale per la ricerca delle fonti primarie, ossia gli scritti degli storici e dei cronachisti coevi dei protagonisti e degli eventi che si vuole narrare, che comprendono anche le lettere private, i documenti, le testimonianze. Queste fonti, pur essendo di più difficile consultazione (anche in relazione ai tempi necessari per ottenerne l’accesso), possono però risultare molto utili per riportare alla luce episodi e particolari che la storia ufficiale ignora e che invece sono preziosi per il romanziere, perché aprono squarci sulla vita privata dei personaggi storici. Le biblioteche, insieme alle librerie, poi, permettono di reperire le fonti storiografiche, ossia i libri scritti dagli storici sull’argomento oggetto delle vicende. Inoltre, a seconda di ciò che si vuole raccontare, musei, palazzi, chiese sono importanti anche per lo studio delle fonti iconografiche, come dipinti, affreschi, ritratti, che possono essere molto utili, ad esempio, nella ricostruzione dell’abbigliamento tipico di un’epoca e di un ceto sociale. Un altro strumento, a mio avviso, valido è rappresentato dai romanzi di autori di indiscussa competenza, che risultano preziose miniere di informazioni. Ne sono un esempio i romanzi di Maria Bellonci (tra i quali “Rinascimento privato” e “Lucrezia Borgia. La sua vita e i suoi tempi”), che sono basati su una ricca e minuziosa ricerca storica e che ebbero grande valore divulgativo. Insomma, esiste una selva di luoghi e fonti in cui cercare. Ora, però, lascio la parola ad Andrea Zanetti

Da dove si parte per una buona ricerca?

È questo il caso di dire che i libri nascono dai libri. È importante documentarsi attentamente, partendo dal macro e procedendo verso il micro. Ed è proprio sul dettaglio, quello che si ritrova nella vita quotidiana dei protagonisti, che serve molta cura. Dai manuali credo sia importante passare in un secondo tempo ai musei, alle fiere, ai gruppi di rievocazione storica via via che si approfondisce.

Quindi come si può organizzare la ricerca delle informazioni, “partendo dal macro e procedendo verso il micro”?

Si può partire da un manuale di storia che dia un’ottica generale di cosa stava succedendo nel periodo in cui è ambientato il romanzo. Poi si passa a testi conclamati (ad esempio, nel mio caso, “Storia di Venezia” di Frederic Lane) che forniscano una bella visione della realtà locale.
Poi ci si occupa dei personaggi, attraverso la consultazione di monografie. Una volta delineati i personaggi e costruito la trama si scende nei dettagli pratici.
Come ci si spostava da A a B? Cosa si mangiava? Tizio vuole uccidere Caio. Nel 1378 c’erano le spade? Gli archibugi? Le pistole? Queste informazioni si possono reperire, inizialmente online, per poi passare a saggi specifici. Tizio e Caio entrano in un palazzo. Esisteva già? Quando è stato costruito? Era già vecchio di duecento anni? Ci sarà stato odore di muffa allora! E così via.

Quali fonti si utilizzano?

Oltre ad un buon manuale di storia, servono sicuramente opere monografiche che ci raccontino nel dettaglio le vicende che formeranno il contorno alla nostra storia di fantasia. Che sia una biografia di un personaggio da rievocare o un testo sull’arte culinaria di un particolare contesto storico di riferimento, è il dettaglio che fa la differenza in questo genere.

Come si orienta lo scrittore tra la moltitudine di fonti?

Il web, a mio modo di vedere, è una grande fonte di approvvigionamento di informazioni, ma di cui bisogna essere attenti conoscitori e scafati navigatori. È facilissimo incappare in false informazioni passate da siti folcloristici senza alcun fondamento. È pertanto necessario scegliere bene. La carta stampata credo rappresenti ancora il punto di riferimento. Vuol dire che un editore, soprattutto se è serio e consolidato, ha vagliato l’opera e l’ha ritenuta valida. Nei bookshop dei musei, poi, si trovano un sacco di testi utili ai nostri scopi. Chi ha la possibilità di farlo, è consigliabile rivolgersi a docenti universitari la cui conoscenza è davvero preziosa e che sapranno di certo indirizzare verso testi qualitativamente significativi.

Esiste una gerarchia? Documenti d’archivio, saggi, manuali, testi universitari, romanzi… in quale ordine vanno consultati?

Sulla gerarchia credo si debba prima specificare cosa si cerca. Parlando molto in generale, sicuramente la ricerca d’archivio è al primo posto. È il documento con meno filtri in assoluto. Ma è anche il più scomodo e complesso da ottenere. I testi universitari a mio modo di vedere sono al secondo posto. Il fatto che si rivolgano spesso ai “peer” già di per sé dà una certa garanzia sull’attendibilità del testo. A seguire manuali, saggi e le monografie. Io non escluderei comunque i gruppi di rievocazione storica che per un romanziere sono una miniera d’oro. Quello che di “pratico” sanno loro è difficile trovarlo in testi diffusi. Altri romanzi storici direi proprio di no, il confine tra storia e romanzo a volte è troppo labile per farci conto.

Invece, cosa pensi dei dipinti come fonti di informazioni?

Mi sono affidato moltissimo ai dipinti. Nel rinascimento e ancora oltre vi è stata proprio un’esplosione di arte pittorica con soggetti non necessariamente religiosi. Le fonti visive bastano e avanzano per essere tradotte in parole.

Quali difficoltà si riscontrano nella selezione e nello studio delle fonti storiche?

Senza una guida o una conoscenza già strutturata è difficile scegliere con cura tra le molte fonti a disposizione. Cosa rende più autorevole un saggio piuttosto che un altro su un determinato argomento, se non si conoscono né gli autori, né gli editori? È questo il caso di affidarsi a chi è già un pezzo avanti nel nostro cammino di conoscenza, facendosi consigliare i testi migliori da cui partire.

Tu hai scritto una trilogia dedicata a Venezia, “Sulle ali del leone”, ambientata nel Cinquecento. Quanto tempo hai dovuto dedicare alla preparazione storica prima di iniziare la stesura del romanzo?

Molto e, probabilmente, mai abbastanza. La mia trilogia nasce da una tesi di laurea, pertanto molta ricerca l’avevo già compiuta nel mio percorso universitario, ciò nonostante, ho speso davvero notti interminabili per trovare i dettagli opportuni così da ricostruire un’intera civiltà che oggi non c’è più. E poi visitare di persona i luoghi che si intendono raccontare dev’essere un passaggio fondamentale per chi scrive. Solo così l’autore può trasmettere le sensazioni e le emozioni che egli per primo ha provato nell’essere “al centro della scena”, per così dire.

Vi aspettiamo mercoledì 8 dicembre per il terzo tema di questa rubrica: l’importanza dell’ambientazione nel romanzo storico. Nel frattempo, se avete perso il primo appuntamento, lo trovate a questo link: https://bit.ly/3d4za5Z

recensione

“L’inganno Macchiavelli”, il nuovo romanzo di Fabio Delizzos

È l’ottobre del 1503 e, a Firenze, la moglie del segretario Niccolò Macchiavelli sta per dare alla luce il loro secondo figlio. Ma la Repubblica, per Niccolò, viene prima di tutto e quando il dovere chiama, lui non può far altro che rispondere. Questa volta, però, la missione che gli viene affidata lo riguarda molto da vicino: una misteriosa lettera arrivata da Roma lo minaccia espressamente di morte. E, purtroppo, la minaccia non è vana e si concretizza ai danni del suo giovane coadiutore Gherardo Valori. Il gonfaloniere Soderini lo incarica, dunque, di raggiungere Roma e cercare il colpevole che firma le lettere con il nome di un diavolo: Belfagor. Nelle more del conclave seguito alla morte di papa Pio III (successore di Alessandro VI Borgia, ma il cui papato è durato soltanto dieci giorni), si svolgono le indagini di Niccolò, nell’arco temporale di sei giorni, dal 27 ottobre a 1° novembre 1503. Aiutato dall’impavido Isac Ventura, guardia del corpo fornita dal cardinale Soderini, e grazie alle conoscenze tra le personalità di Roma, Niccolò si muove tra le strade della città per scoprire l’identità del misterioso Belfagor che ha attentato alla sua vita e per spiegare la serie di misteriosi omicidi che sta terrorizzando il popolo romano, trovandosi ad avere a che fare con diavoli, assassini, veleni e congiure.

Questa è la trama di “L’inganno Macchiavelli”, il nuovo romanzo di Fabio Delizzos, edito da Newton Compton Editori.

Un thriller storico avvincente, nel quale l’autore miscela con precisione una trama investigativa ad un contesto storico accurato, nella quale troviamo, da una parte, il conclave con i suoi dubbi e le sue manipolazioni e dall’altra, l’indagine serrata condotta da Macchiavelli.

Risulta molto interessante la ricostruzione dell’ambientazione che mostra i problemi della Roma in sede vacante, nelle more dell’elezione papale: una città sfigurata dalla guerra e dalla miseria, dove regnano l’incertezza e l’anarchia; dove i mali e i difetti della città si moltiplicano generando violenza e povertà.

Personaggi storici e personaggi di fantasia sono amalgamati con competenza. Incontriamo, infatti, oltre al Macchiavelli, il temibile Cesare Borgia, ormai nella fase più buia della sua vita, il cardinale Giuliano della Rovere, che diverrà papa Giulio II, il cardinale Francesco Soderini, fratello del gonfaloniere di Firenze Pier Soderini, la famiglia Orsini e Gian Paolo Baglioni.

In questo giallo nella Roma rinascimentale, la trama di fantasia è perfettamente incastrata nella realtà storica ed è talmente verosimile da far pensare che sarebbe potuta accadere davvero. Infatti, pur nella fantasia narrativa, l’autore è riuscito a mantenere molti elementi della realtà storica, a partire dal viaggio a Roma di Macchiavelli nel quale si sviluppa la vicenda. A tal proposito, per comprendere appieno l’abilità dell’autore, suggerisco di non tralasciare la lettura della nota storica al termine del romanzo che permette di apprezzarlo ancor di più.

L’inganno Macchiavelli” è un romanzo trascinante, con una trama ben congeniata capace di fondere Storia e fantasia, che ci restituisce alcuni celebri personaggi storici in una veste inedita e graffiante, ma perfettamente verosimile.

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I Longobardi raccontati da Elena Percivaldi e Diego Giulietti

Nel 568, guidato da re Alboino, in Italia arrivò un popolo germanico che rimase nella penisola per due secoli, fin quando i Franchi di Carlo Magno decretarono la caduta del regno che questo popolo aveva creato: erano i Longobardi.

Ma come fecero i Longobardi, in soli due secoli di permanenza in Italia, a influenzare così profondamente la Storia del nostro Paese?

A questa e ad altre domande sul popolo longobardo, ha risposto la dottoressa Elena Percivaldi, autrice (tra gli altri) di “I Longobardi. Un popolo alle radici del nostro Paese”, edito da Diarkos Editore, in questa lunga video intervista.

Insieme a lei, a raccontarci di questa popolazione, è stato anche Diego Giulietti, Magister della Scuola di Scherma Storica “Fortebraccio Veregrense”, che si è soffermato sull’aspetto guerriero della loro società.

Li ho incontrati ed intervistati in occasione del festival interceltico “BustoFolk” di Busto Arsizio (Va), dove hanno tenuto il convegno “I Longobardi. Un popolo guerriero”.  

Ringrazio nuovamente Elena Percivaldi e Diego Giulietti per la loro disponibilità.

Potete trovare l’intera intervista sul mio canale Youtube, qui https://www.youtube.com/channel/UC6zzE8Mp6kb_RCNNcBZdxaQ

Buona visione!

Diego Giulietti, Deborah Fantinato e Elena Percivaldi