recensione, Romanzo storico

“Il fermaglio di perla” di Antonio Forcellino

Il Fermaglio di perla” di Antonio Forcellino, edito da HarperCollins, è il terzo capitolo della saga “Il secolo dei giganti” ambientata nel Rinascimento. In questo volume, l’autore, basandosi sulle “Storie fiorentine” e sulla “Storia d’Italia” di Guicciardini, ripercorre gli avvenimenti che segnarono l’Europa tra il 1519 e il 1549.

E così, dalla morte di Raffaello, passando per il sacco di Roma e il succedersi di quattro papi, nonché lo scisma della chiesa inglese, Martin Lutero e il concilio di Trento, l’autore ci accompagna verso il tramonto di un’epoca straordinaria. L’Europa è al centro della guerra tra Farancesco I e Carlo V ed è nelle mire insistenti dell’imperatore ottomano Solimano. Un periodo di grande instabilità e forti incertezze, un periodo in cui la precarietà regna e la pace è solo un lontano ricordo. L’Europa è allo sbando, “in preda alle convulsioni e alle manovre più infami”, terreno fertile per il forte e determinato Solimano.
Tra i biechi giochi di potere, le traballanti alleanze, le forzature e gli albori di una nuova inquisizione romana, vediamo scorrere questi trent’anni del Cinquecento in cui l’Occidente è al centro della lotta tra Francia e Impero e la Chiesa di Roma è nel tritacarne della riforma. I luterani, gli spirituali, gli anglicani… Il mondo sembra volersi affrancare dell’immoralità della Chiesa, prestando il fianco ai turchi che mirano alla conversione di tutti i cristiani.
L’unica costante è l’occhio stanco di Michelangelo Buonarroti, l’artista che ha vissuto tutto questo e la cui presenza sembra volerci ricordare i fasti del Rinascimento.
E in questo mondo che cade a pezzi emergono, come lumi nella notte, donne potenti e audaci, come Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga e donne avide di potere come Roxane, l’amata moglie di Solimano. Donne che contrastano con uomini che hanno come unico scopo la difesa degli interessi dinastici, pronti a tutto pur di portare prestigio alla propria famiglia. Uomini incapaci di agire per il bene, ma abili solo a promuovere gli interessi di figli e nipoti, anche quando si dimostrano ignobili.

Con uno stile semplice, in un contesto storico ricreato con precisione e competenza, tra cardinali, principi, artisti, spie e nobildonne, Forcellino ci trasporta nel Rinascimento, presentandoci personaggi come Alessandro Farnese, Gian Pietro Carafa, Clemente VII, Eleonora Gonzaga e tantissimi altri, e facendoci vivere ogni avvenimento come se fossimo presenti in quel momento storico. In particolare, colpisce molto il modo in cui mostra la nascita delle opere, come la Sagrestia Nuova della chiesa di San Lorenzo a Firenze, a opera di Michelangelo. Sembra quasi di essere accanto all’artista mentre crea, pensa, dubita…

Il secolo dei giganti” è una delle migliori saghe ambientate nel Rinascimento, in cui la competenza storica e l’abilità narrativa si mescolano donandoci un mezzo efficace per un grandioso viaggio nel tempo.

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recensione, Romanzo storico

“La saga dei Borgia. Fine di una dinastia” di Alex Connor

Roma, 1497. L’ultimo capitolo della saga di Alex Connor dedicata ai Borgia, “La saga di Borgia. Fine di una dinastia”, edito da Newton Compton Editori, prende avvio dalla morte del primogenito di papa Alessandro VI, Juan Borgia. Il papa è distrutto dalla perdita e i suoi nemici sono pronti ad approfittare della situazione. Carlo VIII è morto e sul trono di Francia siede Luigi XII, che vuole Milano e Napoli. Gli equilibri politici sono cambiati, così come gli assetti e le mire della famiglia Borgia. E, soprattutto, di Cesare.

In questo ultimo atto della storia dei Borgia, infatti, assistiamo all’ascesa di Cesare, la sua definitiva evoluzione nel temibile condottiero che la Storia ricorda. Spogliato della veste cardinalizia e rivestito dell’armatura del comandante, il vero io di Cesare esplode, lasciando spazio soltanto alla sua sconfinata e pericolosa ambizione. Nel primo volume abbiamo assistito all’educazione del giovane Borgia a perseguire i fini della famiglia con ogni mezzo, nel secondo alla gelosia nei confronti del fratello maggiore investito della carica che egli voleva per sé, nonché all’estrema insofferenza per il suo ruolo all’interno della Chiesa. In questo ultimo volume, Cesare, finalmente libero dalle briglie che lo tenevano soggiogato e fomentato dall’educazione e dalle ingiustizie del passato, mostra la sua vera natura.

“«E io sono Cesare Borgia, destinato a diventare duca di Romagna», rispose egli con ferocia. «E, se per raggiungere i miei fini dovrò vendere Napoli ai francesi come una puttana, lo farò».”

Un’evoluzione che gli costa il deterioramento dell’unico rapporto umano costante, quello con la sorella Lucrezia, e la nascita dei sospetti e della paura di Rodrigo nei suoi confronti. Ed ecco allora, ora più che mai, il Cesare aggressivo, arrogante, determinato, dal coraggio sconsiderato, quasi diabolico, e dall’ambizione frenetica; selvaggio, lussurioso e crudele. “Io non ho mai creduto in niente, se non in me stesso…” Una deflagrazione che fa tremare e confondere i confini di potere tra lui e papa Alessandro VI.

“«Siamo noi che comandiamo qui!», ruggì il pontefice con voce stentorea. «Devi obbedirci. Devi obbedirci senza fare domande, Cesare. Noi non ci inchineremo di fronte a te, è la tua volontà che si piegherà a noi! noi siamo il papa!». Furibondo, Rodrigo prese un bicchiere di vino e lo scagliò dall’altra parte della stanza; il calice si infranse contro una parete lontana sotto gli occhi del Burcardo, che assisteva intimorito alla rabbia del pontefice. Le guance di Rodrigo erano livide, la fronte imperlata di sudore, le vene sulle tempie gli si erano gonfiate, e la sua collera era terrificante, quando si voltò verso suo figlio. «Vattene!». Indicò la porta. «Vattene, Cesare, o non risponderemo delle nostre azioni».”

Uno sviluppo della sua personalità che, tra le fetide segrete di Castel Sant’Angelo, le decorate stanze vaticane e i sanguinolenti campi di battaglia, lo conduce verso la sua parabola discendente. Tuttavia, la Connor ci mostra come il lato umano, che Cesare nasconde e che si esprime nei confronti di Taddea di Becco (personaggio di fantasia) e di Lucrezia, combatta contro l’animo distruttore. Infatti, uno dei pregi di questa trilogia risiede nel lavoro fatto dall’autrice per superare i pregiudizi esistenti nei confronti di questa famiglia per restituirci personaggi storici nella loro interezza. In questo intento riesce grazie alla perfetta gestione di due aspetti. Innanzitutto, la caratterizzazione a tutto tondo dei personaggi. Rimanendo fedele alla storiografia, interpreta e restituisce lo spirito di ognuno di loro, trasmettendo al lettore la sensazione di poter vedere queste persone.

“Il cardinale appoggiò la schiena al sedile della carrozza, con le mani infilate nelle maniche della veste cardinalizia; i palmi gli prudevano, e le dita desideravano stringere la tiara papale.”

E, tra questi personaggi, troviamo anche il diplomatico e scaltro Niccolò Macchiavelli, dalla memoria prodigiosa e dall’intelligenza eccezionale, il cardinale Giuliano della Rovere e l’indomita e temeraria Caterina Sforza. In secondo luogo, i dialoghi sublimi, con battute perfettamente centrate per ogni personaggio e un linguaggio “contemporaneo” riadattato al Rinascimento.

“«Vi sfido Borgia!», gli gridò. «Questa è la mia fortezza, e nessun bastardo me la porterà via». Il duca replicò con voce ammonitrice. «Sto camminando sui corpi dei vostri uomini morti, contessa di Forlì e signora di Imola. Ditemi, Caterina: volete che eriga un muro di cadaveri per raggiungervi? Perché, in tal caso, lo farò». Lei gli rivolse un debole sorriso, e in risposta urlò: «Innalzate pure il vostro muro, Borgia. Innalzatelo! Ma fate attenzione, perché i corpi su cui vi arrampicherete non saranno quelli dei miei uomini».”

“«Ti guardo e mi chiedo: dov’è finito? dov’è mio fratello, quel ragazzo smarrito che amavo? Mi manca… mi manca tanto». Cesare sentì una stretta al cuore. «È ancora qui». «No, è un fantasma. Come Alfonso, Juan e il principe Cem», rispose Lucrezia. «Tu cammini con gli spiriti, Cesare. Essi ti seguono ovunque. E ti aspettano».

A completare un quadro già eccellente, ci sono le scene forti, vive, pulsanti che, attraverso una ricostruzione precisa dell’ambientazione trasmettono al lettore l’impressione di trovarvisi all’interno. 

“Ed era proprio una tigre, quella che adesso Cesare doveva affrontare. Alla testa del suo esercito, in sella a un cavallo nero e con indosso un’armatura nera, egli aspettava e, al ritmo suonato dai tamburini alle sue spalle, i soldati riprendevano le armi. Alla sua destra cavalcava Michelotto, che reggeva il vessillo con lo stemma dei Borgia, e alla sua sinistra avanzava il vescovo di Trani, mentre le truppe addestrate sparavano colpi di cannone contro la fortezza di Forlì, e i mercenari cercavano di arrampicarsi sulla torre diroccata.”

Una narrazione avvincente, sorretta da un ritmo incalzante, serve questo romanzo in cui l’autrice è riuscita a far rivivere i rapporti e le vicende di quei primi anni del Rinascimento, mettendo ben in luce il modo di pensare dell’epoca e i pensieri di ogni personaggio in modo davvero ammirevole.

Insomma, “La saga dei Borgia. Fine di una dinastia” è un romanzo che rapisce e incanta. Ed è la degna conclusione di una trilogia spettacolare!

recensione, SAGGIO

“L’ingegno e le tenebre” di Roberto Mercadini

“Forse per un’artista c’è un unico onore più grande del ricevere un soprannome. Divenire noto con il proprio semplice nome di battesimo, eclissando le miriadi di omonimi. (…) Cosa serve per farsi un nome? Perché un artista si stagli sullo sfondo degli anonimi, diverso, inconfondibile? Serve una prospettiva nuova, serve uno sguardo diverso. Serve adottare un punto di vista sulle cose di cui nessuno prima si era curato.”

Premessa: il Rinascimento è il mio periodo storico preferito e Michelangelo e Leonardo sono due dei personaggi del passato che più amo, quindi ho letto un’infinità di romanzi, saggi, monografie e biografie dedicati a loro e al periodo in cui sono vissuti (tra i quali anche alcuni dei testi citati nella bibliografia de “L’ingegno e le tenebre”, compreso “Le vite” di Giorgio Vasari). Ho voluto fare questa breve precisazione per far meglio comprendere la meraviglia de “L’ingegno e le tenebre” di Roberto Mercadini, edito da Rizzoli. Infatti, nonostante conoscessi gli eventi e i personaggi che si ritrovano nel libro, nonché le biografie dei due protagonisti, ho trovato questo saggio estremamente meraviglioso.

Su una linea parallela, in brevi capitoli alternati che seguono la linea del tempo, Mercadini ci racconta le vite di due dei più grandi artisti della Storia, due titani: Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti. E la prima particolarità è che non si tratta di una biografia esaustiva, nella quale viene riportato ogni evento delle vite dei due. Lo scopo dell’autore è, infatti, quello di confrontare i due geni, per farne risaltare l’eccezionalità. E lo fa utilizzando gli episodi e i momenti più significativi delle loro esistenze. Così facendo, ci mostra le opposizioni dei loro caratteri e delle loro personalità, ma anche i punti in comune nelle loro vite, come alcuni progetti impossibili da realizzare sui quali entrambi si sono intestarditi. Inoltre, attraverso il confronto con altri importanti artisti coevi, ci mostra quanto il loro genio spiccasse su tutti.

Tra di loro ci sono ventitré anni di differenza, ma le diversità non si fermano soltanto all’anagrafe. Leonardo e Michelangelo sono, infatti, due personaggi agli antipodi, come il giorno e la notte.

Leonardo è un uomo bello, pacato e riflessivo, elegante nell’abbigliamento e nel portamento, vive da gran signore nonostante non possa permetterselo, è un uomo di corte, quindi è piacevole e amabile. Però non ha ricevuto un’istruzione e non conosce il latino; tutto ciò che ha appreso lo ha studiato da autodidatta. Inoltre, non ha alcun interesse per Dio e la religione. Ha l’abitudine di non portare quasi mai a termine le commissioni e i suoi tempi di lavoro sono immensamente dispersivi. La sua mente è un continuo groviglio di pensieri e studi: nonostante abbia davanti agli occhi un obiettivo, riesce sempre a trovare qualcosa che devia la sua attenzione. Leonardo vuole “fermare con l’arte ciò che è impossibile da fermare, evanescente, inafferrabile” e osserva il mondo come un bambino, studiando tutto perché vuole conoscere tutto.

“È come se camminasse nel buio, con la visione periferica al massimo dell’importanza. Vede un oggetto davanti a sé, lo guarda, ma fissandolo si accorge con la coda dell’occhio che c’è qualcos’altro lì vicino. Allora sposta lo sguardo per mettere a fuoco questo nuovo oggetto, ed ecco che, così facendo, un terzo elemento entra nel suo campo visivo, costringendolo a spostare nuovamente lo sguardo.”

Michelangelo, invece, è sgraziato e trasandato nell’abbigliamento, vive da povero, al limite del degrado, nonostante sia immensamente ricco. Odia le comodità, ma più in generale la civiltà, ed è scontroso, iracondo e non si fida di nessuno, insomma ha un caratteraccio, è un lupo solitario che vuole differenziarsi da tutti. È, però, un raffinato letterato, profondo conoscitore di Dante. È profondamente religioso. Onora tutte le commissioni (e quando non le porta a termine ha delle valide ragioni) e lo fa in tempi rapidi. Michelangelo non vede nient’altro che ciò che ha di fronte, il suo obiettivo, e non si ferma finché non lo ha raggiunto. Vuole superare i più importanti colleghi del tempo e diventare il più grande scultore della Storia.

“Michelangelo, artista sublime, amico dei papi, raffinato autore di sonetti, profondo conoscitore di Dante è anche questo: un uomo che definito barbarico, bestiale.”

Ecco, l’autore scava nel genio di questi due personaggi, nelle loro anime con un modo di raccontare incredibile. Avvincente come una leggenda, riesce a creare una magia che tiene incollato il lettore alle pagine.

Ora vi darò due motivi per cui consiglio questa lettura a quanti non abbiano confidenza con i saggi o con il Rinascimento. Innanzitutto, lo stile fresco, frizzante, accattivante; inoltre, il modo in cui Mercadini riesce a condensare fatti i fatti storici che fanno da sfondo alle biografie dei due protagonisti e le vite dei personaggi che con loro hanno interagito. Senza mai sminuire nulla, ma anzi, con grande competenza, riesce a riassumere eventi complessi in modo sublime. E nello stesso modo riesce a restituirci l’analisi di importanti opere d’arte, che immerge nel contesto nel quale hanno visto la luce e che utilizza per spiegare il periodo storico.

Ora, un motivo per cui, invece, lo consiglio agli appassionati come me di Rinascimento e di questi due grandissimi geni. Mettendo in risalto luci e ombre dei due artisti fiorentini, Mercadini ce li racconta come nessun altro ha saputo fare! Tra le pagine di questo libro, l’autore insinua dubbi, crea domande, azzarda risposte; mette a nudo Leonardo e Michelangelo, scavando in profondità. E, nonostante possa sembrare un obiettivo complesso, il risultato è assolutamente godibile e lineare. Ci accompagna tra le pieghe del tempo, mostrandoci la meraviglia del Rinascimento, mettendo insieme i tasselli di un puzzle che ci portano a comprendere meglio i due artisti e lo fa in un modo così appassionante da impedire al lettore di staccare gli occhi dalle pagine.

Insomma, “L’ingegno e le tenebre” è un libro meraviglioso, una lettura straordinaria, un viaggio infinitamente appassionante. A mio avviso, senza dubbio il miglior libro del 2022!

Segnalazione prossima uscita

#inarrivo. “Il tempo del giudizio” di Daniela Piazza

In arrivo martedì 8 febbraio, il nuovo romanzo di Daniela Piazza, “Il tempo del giudizio“, edito da Rizzoli, per la collana Historiae. Un romanzo storico incentrato sulla Cappella Sistina che si preannuncia molto avvincente.

Ecco la trama:

Roma, 1473. All’ombra degli alti palazzi e delle basiliche secolari, Papa Sisto IV ha una sola ossessione: riprodurre nella Città Eterna il Tempio di Salomone, per riportare la Chiesa di Roma all’antico splendore. Ecco allora prendere forma il progetto grandioso della Cappella Sistina, che del Tempio di Gerusalemme ha le stesse misure. Ma per completare il suo piano, serve un simbolo di potere le cui tracce si perdono nel tempo e nel mito: la misteriosa melagrana d’avorio che ornava lo scettro del Sommo Sacerdote. Così, mentre in Vaticano, tra intrighi di corte e brama di potere, una mano ignota compie atroci omicidi ai piedi della Sistina, il pontefice incarica il giovane monaco Moses di impadronirsi della preziosa reliquia. Le cose, però, non vanno come previsto. La ricerca si rivelerà sempre più insidiosa e condurrà Moses lontano da Roma, oltre i confini del bene e del male, in un viaggio che dal Palazzo degli Ospedalieri a Rodi passa alle locande di Cipro e arriva fin dentro le mura di Otranto assediata dai Turchi. Al ritorno da questo lungo viaggio, la sua vita sarà cambiata per sempre, e con essa anche la storia della Cappella più famosa di tutti i tempi.

DANIELA PIAZZA (1962), laureata in Storia dell’Arte e diplomata al Conservatorio, lavora come insegnante a Savona. Per Rizzoli ha pubblicato il bestseller Il tempio della luce (2012), disponibile in BUR, L’enigma Michelangelo (2014) e La musica del male (2019). 

recensione, Romanzo storico

“Il colosso di Marmo”. Il secondo capitolo della saga di Antonio Forcellino “Il secolo dei giganti”

Ho letto decine e decine di romanzi ambientati durante il Rinascimento, ma la trilogia de “Il secolo dei giganti” di Antonio Forcellino, edita da HarperCollins, li batte tutti.

Il colosso di marmo” è il secondo volume di questa saga, e prende le mosse dal momento in cui, nel 1501, la Repubblica di Firenze assegnò a Michelangelo l’incarico di scolpire il nuovo simbolo della città: il David. Da qui, Antonio Forcellino, che è uno dei maggiori studiosi europei di arte rinascimentale e che ha fatto di questo periodo storico materia di studio per oltre quarant’anni, ci accompagna attraverso i sedici anni successivi, riportando in vita i personaggi che hanno fatto la Storia. La famiglia Borgia, Michelangelo, Leonardo da Vinci, Raffello, Giulio II, Macchiavelli, il sultano Bajazet e suo figlio Selim, Isabella d’Este, Leone X, Giulia Farnese, il cardinal Bibbiena, Agostino Chigi, Marcantonio Colonna, Francesco Maria della Rovere, sono solo alcuni dei grandi protagonisti di questo romanzo incredibile. In poco più di cinquecento pagine, l’autore fa rivivere la Storia e l’Arte del Rinascimento, creando una magia difficile da spiegare. La caratterizzazione dei personaggi è il punto di forza di questo libro che ce li restituisce nella veste più concreta possibile, rendendo umani quei personaggi che, spesso, noi immaginiamo più come creature astratte che come persone realmente esistite. E, allora, ecco che Forcellino sonda la psiche di queste figure per riproporcele nei loro atteggiamenti e pensieri naturali, dando al lettore l’impressione di conoscerle personalmente. E così assistiamo alle schermaglie tra Leonardo e Michelangelo, alla bruta crudeltà di Cesare Borgia, alla forza di Giulio II, alla delusione di Leonardo per quella che lui considera una vita inconcludente, alla gelosia tra Lucrezia Borgia e Isabella d’Este e tanto, tanto altro ancora.

L’autore ci dona, pertanto, un affresco concreto, vivido e molto visivo del Rinascimento. Un romanzo eccezionale, che riesce davvero a trasportare il lettore in un’altra epoca. E, quando alzerete gli occhi dalle pagine di questo libro, vi sembrerà di scorgere la schiena curva di Michelangelo intento a scolpire i Prigioni per la tomba di Giulio II o la mano gentile di Raffaello che dipinge Galatea per la villa di Agostino Chigi. Vi sembrerà di sentire le urla di Giulio II e le risate del Salai, i respiri arrabbiati di Selim davanti alla saggezza di suo padre, il sultano Bajazet… Arriverete, perfino, a percepire l’odore dei fazzoletti profumati del cardinal Bibbiena o il lezzo degli abiti del rude Michelangelo, depresso per la morte del suo amato Giulio II; avrete l’impressione di sentire le narici solleticate dalla polvere del marmo… Di certo, vi rimarrà nel cuore e nella mente la certezza di aver varcato le porte del tempo e di esservi persi, per qualche ora, tra le vie dell’Italia del primo Cinquecento.

recensione

“L’inganno Macchiavelli”, il nuovo romanzo di Fabio Delizzos

È l’ottobre del 1503 e, a Firenze, la moglie del segretario Niccolò Macchiavelli sta per dare alla luce il loro secondo figlio. Ma la Repubblica, per Niccolò, viene prima di tutto e quando il dovere chiama, lui non può far altro che rispondere. Questa volta, però, la missione che gli viene affidata lo riguarda molto da vicino: una misteriosa lettera arrivata da Roma lo minaccia espressamente di morte. E, purtroppo, la minaccia non è vana e si concretizza ai danni del suo giovane coadiutore Gherardo Valori. Il gonfaloniere Soderini lo incarica, dunque, di raggiungere Roma e cercare il colpevole che firma le lettere con il nome di un diavolo: Belfagor. Nelle more del conclave seguito alla morte di papa Pio III (successore di Alessandro VI Borgia, ma il cui papato è durato soltanto dieci giorni), si svolgono le indagini di Niccolò, nell’arco temporale di sei giorni, dal 27 ottobre a 1° novembre 1503. Aiutato dall’impavido Isac Ventura, guardia del corpo fornita dal cardinale Soderini, e grazie alle conoscenze tra le personalità di Roma, Niccolò si muove tra le strade della città per scoprire l’identità del misterioso Belfagor che ha attentato alla sua vita e per spiegare la serie di misteriosi omicidi che sta terrorizzando il popolo romano, trovandosi ad avere a che fare con diavoli, assassini, veleni e congiure.

Questa è la trama di “L’inganno Macchiavelli”, il nuovo romanzo di Fabio Delizzos, edito da Newton Compton Editori.

Un thriller storico avvincente, nel quale l’autore miscela con precisione una trama investigativa ad un contesto storico accurato, nella quale troviamo, da una parte, il conclave con i suoi dubbi e le sue manipolazioni e dall’altra, l’indagine serrata condotta da Macchiavelli.

Risulta molto interessante la ricostruzione dell’ambientazione che mostra i problemi della Roma in sede vacante, nelle more dell’elezione papale: una città sfigurata dalla guerra e dalla miseria, dove regnano l’incertezza e l’anarchia; dove i mali e i difetti della città si moltiplicano generando violenza e povertà.

Personaggi storici e personaggi di fantasia sono amalgamati con competenza. Incontriamo, infatti, oltre al Macchiavelli, il temibile Cesare Borgia, ormai nella fase più buia della sua vita, il cardinale Giuliano della Rovere, che diverrà papa Giulio II, il cardinale Francesco Soderini, fratello del gonfaloniere di Firenze Pier Soderini, la famiglia Orsini e Gian Paolo Baglioni.

In questo giallo nella Roma rinascimentale, la trama di fantasia è perfettamente incastrata nella realtà storica ed è talmente verosimile da far pensare che sarebbe potuta accadere davvero. Infatti, pur nella fantasia narrativa, l’autore è riuscito a mantenere molti elementi della realtà storica, a partire dal viaggio a Roma di Macchiavelli nel quale si sviluppa la vicenda. A tal proposito, per comprendere appieno l’abilità dell’autore, suggerisco di non tralasciare la lettura della nota storica al termine del romanzo che permette di apprezzarlo ancor di più.

L’inganno Macchiavelli” è un romanzo trascinante, con una trama ben congeniata capace di fondere Storia e fantasia, che ci restituisce alcuni celebri personaggi storici in una veste inedita e graffiante, ma perfettamente verosimile.

recensione

Leonardo e la morte della Gioconda

Milano, 1496. Leonardo da Vinci e il suo discepolo Salaì si ritrovano ad indagare sul misterioso avvelenamento di Bianca Giovanna Sforza, la figlia del duca di Milano, Ludovico il Moro. Qualche anno più tardi, nel 1516, Leonardo e un altro suo allievo, Francesco Melzi, partono alla volta di Amboise, alla corte del re di Francia, Francesco I, dove troveranno un altro mistero da risolvere che affonda le radici nel passato soggiorno a Milano. Due vicende raccontate in due manoscritti; due storie legate tra loro. 

Questa è la trama di “Leonardo e la morte della Gioconda”, scritto da G.P. Rossi ed edito dalla casa editrice Diarkos. Con una trama interessante, l’autore unisce alcune teorie storiche alla sua immaginazione, creando una storia appassionante che si snoda tra Milano ed Amboise. Troviamo, infatti, il genio fiorentino in due diversi periodi della sua vita. Nella prima parte, assistiamo alla vicenda che si svolge alla corte del duca di Milano, dove Leonardo arrivò nel 1482, su commissione di Lorenzo de’ Medici, e dove restò fino al 1499, quando l’arrivo dell’esercito francese lo costrinse alla fuga. Nella seconda metà del romanzo, invece, ritroviamo un Leonardo più maturo, ormai sessantacinquenne, alla corte del re di Francia, Francesco I, dove terminerà la propria esistenza, nel 1519. 

La narrazione scorrevole, caratterizzata dal punto di vista soggettivo dei due allievi, Salaì e Melzi, fa di questo romanzo un libro di rapida lettura. La caratterizzazione dei personaggi è ben delineata, tanto da far emergere le principali caratteristiche dei protagonisti. Ad un Leonardo finemente intelligente, arguto, padrone di sé, capace di estraniarsi dal mondo per osservarne soltanto una parte, si contrappone il Salaì, disonesto, arrogante con tutti tranne che con il suo maestro, avido di denaro, ma poco scaltro. L’altro allievo Francesco Melzi, docile e dolce, si scontra, invece, con un Leonardo invecchiato, stanco, irascibile e schivo. 

Risulta, inoltre, apprezzabile l’approccio al rapporto tra Leonardo e i suoi allievi, grazie al quale pare di cogliere frammenti della quotidianità del grande genio; in questo romanzo, egli viene, infatti, mondato dall’aura dell’artista e reso più vicino al lettore e più umanizzato. Vi è da sottolineare come le tesi sottese alla vicenda non siano frutto esclusivo della fantasia dell’autore, ma abbiamo un fondamento storico. L’ambientazione è essenziale, ma sufficiente a far percepire al lettore l’atmosfera della Milano di fine Quattrocento, con i suoi sestieri e le sue tipicità. 

    “Leonardo e la morte della Gioconda” è un romanzo leggero, agile e appassionante che, nonostante la sua natura di fiction storica, permette di cogliere alcuni intriganti aspetti della vita del più grande genio di tutti i tempi, che si snoda tra verità e leggenda. 

Fatti storici, recensione

Vita di Pantasilea

Ora siamo arrivati sul Gianicolo, accaldati, stanchi, sporchi. Nessun esercito moderno ha mai attraversato una distanza così grande in così poco tempo. Ma non siamo un bello spettacolo. Le nostre divise di solito così brillanti e sgargianti, le nostre maniche a sbuffo, i nostri panhosen aderenti gialli e marrone sono lerci e strappati. Abbiamo le barbe lunghe e i capelli arruffati e aggrovigliati di sozzume. La fame continua a darci i crampi allo stomaco. Ma siamo arrivati. Roma si stende ai nostri piedi. Fra poco s’inchinerà alla nostra potenza!” 

Vita di Pantasilea”, scritto da Luca Romano ed edito da Neri Pozza, racconta due vicende che si intersecano nella Roma del primo Cinquecento. 

Da una parte, troviamo la cortigiana onesta Pantasilea, incinta e innamorata dell’artista Benvenuto Cellini, che viene incaricata dal cardinal Alessandro Farnese di “corrompere con i piaceri della carne” il giovane Marcello Cervino; dall’altra, c’è l’esercito imperiale, comandato da Carlo di Borbone, pronto a marciare su Firenze e Roma. Da due punti di vista differenti, quello del narratore esterno in terza persona nella vicenda di Pantiselea e quello in prima persona del comandante dei lanzichenecchi Sebastian Schertlin, assistiamo ad un momento storico fondamentale per la l’Italia, nel quale la vita della giovane cortigiana si intreccia alle vicende del Sacco di Roma del 1527. 

Infatti, la trama si muove sullo sfondo dell’imminente attacco alla città di Roma, da parte dell’esercito dell’imperatore Carlo V, formato da trentamila soldati lanzichenecchi, spagnoli e italiani; un assedio che durò diversi mesi e che mise a ferro e fuoco la capitale della cristianità, sulla quale governava papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici. Un papa che, come si intuisce già dalle prime pagine del romanzo, veniva additato come avaro e sanguisuga e verso il quale i romani mostravano un chiaro malcontento a causa del governo opprimente, della severa e irragionevole applicazione dei bandi, delle molte tasse che aveva introdotto, dei disordini provocati dai soldati in ozio che riempivano le strade di Roma. Nonostante le rimostranze nei confronti di Clemente VII e la consapevolezza di possibili venti di guerra, il popolo era convinto che gli eserciti cristiani non avrebbero mai osato invadere la capitale della cristianità. E questa convinzione, unite alle illusorie trattative di pace, favorì gli invasori che colsero Roma sorpresa e impreparata.  In questo romanzo l’autore è estremamente abile nel riprodurre ogni sfumatura di questo evento. 

La ricostruzione dell’ambientazione è minuziosa, con descrizioni accurate e suggestive dei luoghi, degli abiti, delle usanze, della condizione delle prostitute. Con grande maestria, l’autore riesce a far trasparire il modo di pensare dell’uomo del Cinquecento in molti ambiti. Il ricco utilizzo di dettagli, insieme alle chiare differenti voci di ogni personaggio, rende il racconto suggestivo, tanto che al lettore pare di partecipare in prima persona agli eventi narrati. Il linguaggio ricercato e adatto all’epoca nella quale si svolge la  trama aumenta la sensazione di coinvolgimento. Caratteristiche che denotano il grande studio e la profonda conoscenza, da parte dell’autore, del periodo raccontato. Inoltre, egli è abile nel mostrare il clima sociale nel quale si innesta il sacco di Roma; attraverso la vicenda della cortigiana riviviamo la quotidianità dell’epoca, le credenze, i problemi sociali, grazie ad un affresco divinamente dipinto delle condizione delle meretrici in epoca rinascimentale; invece, con il racconto del comandante dei Lanzi assistiamo ai retroscena del Sacco. 

Il racconto è perfettamente aderente alla verità storica e la narrazione fluida e coinvolgente permette al lettore di percepire tutte le emozioni e le sensazioni provate dai personaggi. Il ritmo dell’esposizione è incalzante e si sviluppa in un crescendo di tensione, che corre parallela allo stupore. 

La caratterizzazione dei personaggi è precisa ed efficace nel consentire al lettore di distinguere le differenti personalità di ognuno. 

La descrizione delle scene, come ad esempio quella relativa al procedimento penale e alla tortura o ai malati di mal francese, è accurata ed estremamente suggestiva, scandita da un tempo di narrazione perfetto per amplificare il coinvolgimento del lettore. Meticolosa è anche la rappresentazione della città di Roma che sembra di percorrere a piedi, tra i quartieri e i suoi abitanti. Per questo motivo, il romanzo si rivela adatto anche a chi voglia approfondire la conoscenza della vita quotidiana e cittadina in questo frangente storico, che qui traspare nettamente. E così apprendiamo, ad esempio, delle prigioni della Torre Annona, vediamo dove venivano esposti i corpi dei condannati a morte, come monito per i cittadini, quale erano i rimedi per curare le coliche, quali Santi venivano pregati, quali erano i prezzi delle merci.

Ma ciò che colpisce maggiormente il lettore è l’intenso e crudo racconto dell’inferno scatenato dall’esercito imperiale per le strade di Roma, che vennero invase dai cadaveri di migliaia di romani innocenti. “L’anarchia è peggio, infinitamente peggio, della tirannia”, dice il comandante dei Lanzi, e l’esercito senza disciplina fu, infatti, il peggior male dell’assedio. Luca Romano riesce a trasmettere tutto l’orrore e la disperazione di quei giorni, attraverso la pungente descrizione di ciò che accadde quel 6 maggio 1527 e per l’intero mese successivo, in cui l’esercito al soldo di Carlo V, saccheggiò, depredò, uccise e distrusse per sempre parte della storia precedente di Roma. 

Vita di Pantasilea” è un libro splendido, scritto con smisurata competenza e grande capacità, che chiunque ami la Storia non può non apprezzare; nel quale la Roma del Cinquecento si dischiude davanti agli occhi del lettore per farsi conoscere in ogni suo aspetto. Rappresenta un incredibile viaggio nel tempo, nel quale la realtà che circonda il lettore improvvisamente scompare per lasciare spazio a luoghi, personaggi ed eventi narrati che nel romanzo tornano a vivere, nonché un encomiabile connubio tra conoscenza storica ed esposizione narrativa. 

Un romanzo notevole, che trasuda Storia e che catapulta il lettore nella Roma del Sacco in modo nitido ed emozionante, dimostrando di essere un ottimo testo su questo importante evento del passato che ha spezzato la gloria del Rinascimento. 

INTERVISTA

Due chiacchiere con gli autori: INTERVISTA DOPPIA A CRISTINA S. FANTINI E ALESSANDRA SELMI

Durante questo anomalo 2020 ho letto due romanzi storici che ho amato molto, usciti nella prima metà dell’anno: “Nel nome della pietra” di Cristina S. Fantini, edito da Piemme, e “Le origini del potere. La saga di Giulio II, il Papa guerriero”, scritto da Alessandra Selmi ed edito da Editrice Nord. Il primo ambientato nella Milano medievale, mentre il secondo nella Roma di Papa Giulio II. Proprio questa differente ambientazione ha fatto nascere in me il desiderio di mettere a confronto queste due epoche storiche e, a raggiungere l’obiettivo, mi hanno aiutato le autrici, con questa intervista doppia, per la quale le ringrazio profondamente.

Attraverso le loro risposte, proviamo così a confrontare Medioevo e Rinascimento.

“Nel nome della pietra” di Cristina S. Fantini, “Le origini del potere” di Alessandra Selmi. Due romanzi storici grandiosi, che trasportano il lettore indietro nel tempo, regalando uno spaccato di vita nei secoli passati. Qual è stata la spinta che vi ha fatto scegliere di raccontare questa storia?

FANTINI: Esiste una vasta letteratura sul Duomo di Milano. Storici, romanzieri, saggisti, poeti ne hanno celebrato la bellezza, il glorioso tripudio di guglie e statue ma ben pochi ne conoscono la genesi, visto che la fondazione risale al mese di maggio del 1386. Un incontro casuale, la richiesta di un racconto che avesse come protagonista Milano, una passeggiata in piazza Duomo: così è nato il desiderio di approfondire i segreti, l’origine, la storia di questa cattedrale sorta nel cuore più antico della metropoli lombarda. Da autrice di romanzi storici non potevo sottrarmi alla “sfida” che mi aveva ha lanciato il Duomo e da quel momento, per conoscere più a fondo questo nuovo protagonista delle mie storie, ho fatto un salto temporale dalla Roma Imperiale al Medioevo, nell’affascinante XIV secolo.

SELMI: Il personaggio. Conoscevo poco di Giulio II oltre a quello che avevo studiato (e dimenticato) sui libri di scuola. Approfondendo mi sono trovata davanti un vero personaggio da romanzo, pieno di contraddizioni e con molto da raccontare. Da quel momento è stato impossibile resistergli.

Quali difficoltà avete riscontrato nella stesura di romanzi che raccontano vite così lontane nel tempo dai giorni nostri?

FANTINI: Le difficoltà per la stesura di un romanzo storico sono molteplici, prima fra tutte il reperimento e l’interpretazione delle fonti. Devo confessare che, abituata a fare ricerca in un periodo storico ancora più lontano da noi, quello del I secolo, mi sono trovata molto più a mio “agio” con il Medioevo, periodo di cui abbiamo un’importante quantità di  testimonianze scritte e fruibili. Visto che nel mio caso si tratta di un romanzo e non di un saggio, la maggiore difficoltà sta nel conciliare la realtà storica con la vicenda inventata senza stravolgere la prima o mal interpretarla. Prima ho studiato con metodo e critica confrontando fonti e documenti, poi ho elaborato il materiale acquisito e, infine, l’ho interpretato ai fini della trama.

SELMI: La vera difficoltà è stata trovare un equilibrio tra la necessità di essere fedele alla vera storia e il bisogno di non annoiare il lettore con un saggio storico, didascalico e cronachistico. Trovare, insomma, una via di mezzo tra la realtà storica e la finzione narrativa.

Medioevo e Rinascimento; due tra le più importanti città d’Europa: Milano e Roma. Com’erano la Milano medievale e la Roma a cavallo tra ‘400 e ‘500?

FANTINI: Per descrivere la Milano medievale ci vorrebbero pagine e pagine, mi limiterò a raccontarvi di una città cosmopolita densamente abitata con alle spalle un passato di conquiste, assedi e distruzioni, prima fra tutte quella dei Goti del 539, il più grande massacro nella storia di Milano, poi quella di Federico Barbarossa del 1161-1162; una città che non si è mai arresa, operosa di mercanti e artigiani che rivestiva un ruolo centrale già a partire dall’epoca imperiale romana, visto che fu capitale dell’Impero d’Occidente nel IV secolo. Durante i Comuni la spinta verso l’autonomia e l’indipendenza la portò più volte a scontrarsi con il potere imperiale germanico e, attraversata dai venti di cambiamento che investirono l’Europa, passò dall’esperienza comunale all’instaurazione dei regimi signorili e alle lotte intestine tra i Della Torre e i Visconti, fino alla trasformazione in ducato con questi ultimi e i loro discendenti, gli Sforza, che permisero a Milano di giocare un ruolo da protagonista nella politica europea del XIV e XV secolo. Una città sempre in movimento anche quella di oggi che ha affrontato guerre, stragi ed epidemie con la voglia di rialzare sempre la testa.

SELMI: I Della Rovere segnano il passaggio tra Medioevo e Rinascimento. Roma a quei tempi era una città piena di contraddizioni. Da un lato, era il centro del mondo culturale e finanziario, pregna di opportunità. Dall’altro era ancora una città pericolosa, ostaggio delle famiglie nobiliari che si contendevano il potere a colpi di spada. Il Tevere non aveva argini e periodicamente esondava portando morte, distruzione e malattia. Ma proprio in quegli anni, per intuito di alcuni uomini di grande sensibilità artistica, dal terreno venivano riportati alla luce tesori come il gruppo del Laocoonte. Una città incredibile, nel bene e nel male, scenario perfetto per un grande romanzo.

Al centro di entrambi i romanzi, si colloca la Chiesa. Ne “Nel nome della pietra”, infatti, la storia si svolge intorno alla costruzione del Duomo di Milano, la chiesa di Maria Nascente, che rappresenta un punto di svolta per la popolazione milanese della fine del ‘300. Allo stesso modo, ne “Le origini  del potere”, protagonista del racconto è l’ascesa al potere di uno dei papi più famosi e controversi della storia, Giulio II. Qual era il ruolo della Chiesa nel Medioevo e nel Rinascimento? Cosa rappresentava per il popolo e quale peso aveva nello scacchiere politico europeo?

FANTINI: La Chiesa ha sempre avuto un ruolo primario nello scenario storico europeo, potere temporale e spirituale erano concentrati nella figura dei pontefici, vescovi e arcivescovi. Più che soldati di Cristo a quei tempi erano ambiziosi politici che sfidavano il potere secolare con eserciti di mercenari e capitani di ventura. La religione cristiana divenne quella ufficiale con Teodosio e l’editto di Tessalonica del 380, quando tutti gli altri culti furono messi al bando; il cristianesimo poté quindi espandersi a dismisura e impero e religione vennero a coincidere, nell’ottica di creare un “impero universale cristiano” di cui il potere politico era fondamento imprescindibile. La caratteristica del primo cristianesimo fu l’eterogeneità del culto e delle stesse istituzioni; soprattutto nell’alto Medioevo il controllo centrale era più labile e frammentato, così come coesistevano e proliferavano diverse interpretazioni del Vangelo. Lo stesso papato non aveva alcuna supremazia effettiva sugli altri episcopati, solo a partire dal V secolo cominciò un processo di affermazione dei vescovi di Roma, che pretesero e ottennero di essere successori del primo apostolo, Pietro. La Chiesa si pose quindi al servizio della società in più ambiti, divenne tramite tra mondo materiale e spirituale con la fondazione di monasteri e ordini monastici, unico fulcro della cultura che diffondeva l’istruzione. Papa Gregorio I Magno (590-604) rinnovò la Chiesa a tal punto da renderla una vera forza di potere e nell’VIII secolo essa diverrà uno stato secolare a tutti gli effetti. Con queste premesse, possiamo dire che nel secolo che ci interessa, il XIV, la Chiesa fa parte della vita quotidiana di tutti, profondamente radicata nel tessuto sociale, negli usi, nell’arte e nella cultura. È il periodo delle grandi cattedrali della cristianità, di quell’anelito che porterà l’uomo a costruire “ponti” di marmo e pietra volti a unire Terra e Cielo, Dio e i mortali, anelito magistralmente concretizzato dagli edifici più maestosi costruiti in tutta Europa come la cattedrale di Colonia, di Reims, di Notre Dame, il duomo di Firenze e lo stesso duomo di Milano, connubio tra l’ultimo gotico e la più terrena arte lombarda.

SELMI: La Chiesa a quel tempo era cosa ben diversa da quella che abbiamo in mente oggi. Era, prima di tutto, uno Stato, con confini e interessi da difendere, e il Pontefice era un capo di Stato, che ambiva a preservare e allargare il proprio potere. Oltre a essere potentissima, la Chiesa era anche molto ricca e di questa ricchezza le alte cariche facevano grande sfoggio, con buona pace dei principi di uguaglianza e povertà ispirati al Cristianesimo. La Chiesa del tempo non si faceva scrupolo a fare la guerra per i propri interessi, nonostante predicasse la pace. Era dunque un coacervo di contraddizioni che oggi sarebbe difficile comprendere. Queste contraddizioni erano viste dai più e tollerate come mali necessari, specie nelle fasce più povere della popolazione, ma proprio in quei tempi iniziano a germogliare movimenti di protesta per la condotta scellerata degli uomini di Chiesa.

Protagonisti di questi romanzi sono, da una parte due gemelli separati alla nascita in quanto frutto di un amore illegittimo, e dall’altra il giovane Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II. Quali caratteristiche del Medioevo e quali del Rinascimento sono incarnate da questi personaggi?

FANTINI: Nei primi secoli dopo Cristo si affermò la dottrina dualistica, secondo la quale oltre al dio benevolo esisteva anche un dio contrapposto al primo, maligno. Il pensiero medievale ci tramanda una partizione dell’essere umano in due elementi ovvero l’anima e il corpo, duplicità che scopre e giustifica la somiglianza con Dio e, nello stesso tempo, la natura mortale e peccatrice. Intelletto, Fede, anima e mortalità per tutto il Medioevo saranno oggetto di studio, di valutazione, di discussione e nasceranno movimenti ed eresie che la Chiesa condannerà a più riprese. Per la creazione dei gemelli mi sono ispirata al concetto di bene e male, di chiaro e scuro, di luce e ombra anche se sono entrambi personaggi positivi.

SELMI: Giuliano della Rovere è un uomo tipicamente rinascimentale, che incarna la natura stessa del proprio tempo. Pieno di contraddizioni egli stesso, uomo di Chiesa che tuttavia non si fece scrupoli a scendere in guerra, frate che fece voto di povertà e detenne poi grandissime ricchezze. Ma anche grandioso mecenate artistico di gusto raffinato e, diremmo oggi, illuminato “talent scout”: grazie a lui oggi abbiamo il Vaticano che tutti conosciamo, i Musei Vaticani, la Cappella Sistina. Della Rovere scoprì e portò alla massima fama artisti come Michelangelo, Bramante, Raffaello. Metà della città di Roma che vediamo oggi e che attira turisti da tutto il mondo è merito di questo papa straordinario.

Mentre ne “Nel nome della pietra”, nel raccontare le vicende dei protagonisti risulta molto importante la ricostruzione del contesto storico nel quale si svolge la trama, ne “Le origini del potere”, fondamentale è l’attinenza del racconto alla biografia del protagonista. Quale metodo avete utilizzato per la ricostruzione del contesto, da un parte, e della biografia e del carattere di un grande personaggio, dall’altra?

FANTINI: La trama del mio romanzo non poteva prescindere da una ricostruzione storica fedele del contesto storico e sociale della Milano del tempo. Strade, contrade, porte, uno studio urbanistico e artistico della città trecentesca sono stati punto di partenza essenziale. Il protagonista del romanzo è in realtà il Duomo, costruzione architettonica che andò a occupare gran parte della zona centrale della città, il “cuore” antichissimo, quindi dovevo dare ai lettori la sensazione di “vivere” e muoversi insieme ai protagonisti in quello scenario così diverso e lontano nel tempo. Piantine della città, racconti dei contemporanei, descrizioni delle vie milanesi consultate sono state parte essenziale di questo studio e, oserei dire, di scoperta.

SELMI: Ho letto moltissimo e fatto ricerca, senza escludere nessun mezzo, incluse le più recenti serie tv. È stato un lavoro di ricerca durato circa due anni, molto impegnativo per me soprattutto che non sono uno Storico di professione. Una piccola parte, poi, l’ho lasciata libera di divagare e divertirsi, assumendomi il rischio – tutto sommato limitato – di sbagliare: in fondo, un papa di cinquecento anni fa era comunque un uomo, mosso dagli stessi sentimenti che muovono anche noi oggi. Non dobbiamo pensare alla gente di allora come a degli extraterrestri: le ricerche che ho svolto mi hanno dato conferma che in mezzo millennio non siamo cambiati poi molto.

In entrambi i romanzi, anche l’amore trova la sua giusta collocazione, sia per i due fratelli Pietro e Alberto, sia per l’irascibile Giuliano della Rovere, amante della bella Lucrezia dei Normanni. Com’era l’amore nel Medioevo e, invece, quale ruolo aveva nella vita di uomo importante come Giuliano della Rovere?

FANTINI: Amore e piacere erano strettamente connessi ma demonizzati. Al primo si dava un significato spirituale, al secondo si attribuiva un significato carnale legato al sesso. I piaceri sensuali però erano condannati dalla Chiesa, secondo quest’ultima artifici escogitati dal demonio per allontanare gli uomini dalla salvezza e precipitarli nella dannazione. Un celebre trattato del XII secolo, il De amore di Andrea Cappellano, dava dell’amore una lettura intellettuale: nasceva dalla vista perché l’occhio era lo “specchio del cuore”, vedere e innamorarsi era tutt’uno. Infine ci si dichiarava con lo scopo di ottenere carezze, baci, sospiri e veri e propri poemi cantati dai menestrelli. Nella realtà, si corteggiava la fanciulla oggetto del proprio amore anche se il matrimonio vero e proprio, soprattutto tra le classi più abbienti, sanciva un vero e proprio “affare” regolato da contratti firmati dalle rispettive famiglie. Si spiega così la grande quantità di relazioni extraconiugali e il gran numero di figli illegittimi. Un Medioevo moralista, sessuofobo ma solo in apparenza visto che non è possibile etichettare un periodo di mille anni come omogeneo. L’amore e l’innamoramento però esistevano e, senza dubbio, nelle classi meno abbienti dove legami politici o economici, ambizioni e alleanze non erano essenziali per tramandare una dinastia, mi piace pensare che uomini e donne vivessero un amore più terreno e vicino al nostro, sempre regolato però dal rispetto delle regole che la Chiesa imponeva.

SELMI: Anche in questo ambito Giuliano della Rovere era un uomo pieno di contraddizioni: era un frate, tanto per cominciare, e aveva fatto voto di castità. Sappiamo però per certo che ebbe una figlia da Lucrezia Normanni, che riconobbe e a cui diede il proprio cognome: non ne fece dunque un mistero. Qualcuno diceva però che fosse omosessuale e che avesse relazioni con lo stesso Michelangelo. Altri sostengono che queste voci fossero state messe in circolazione al solo scopo di danneggiarlo. Quale sia la verità non è dato sapere, ma una certezza l’abbiamo: l’amore è sempre l’amore, da oltre quattromila anni e forse da ancor prima!

Un’ultima domanda. Quale aspetto dei periodi storici che avete raccontato vi affascina di più e quale, invece, rifiutate? Per Alessandra Selmi, quale lato del carattere e della vita di Giuliano della Rovere ti ha colpito maggiormente?

FANTINI: Non ho mai guardato da questo punto di vista il periodo storico affrontato nel romanzo, anzi sono rimasta affascinata dai suoi molteplici aspetti. La vita quotidiana, molto diversa dalla nostra, era una lotta per sopravvivere sia in campagna che in città e l’approccio alla morte era visto come la naturale conclusione di un periodo che portava all’immortalità dell’anima e quindi all’incontro con Dio. Direi piuttosto che ne sono rimasta completamente affascinata, visto che mi ha trasportato in una dimensione sociale e religiosa che conoscevo poco. Nessun rifiuto quindi, bensì una nuova consapevolezza. L’uomo, tutto sommato, non ha mai cambiato la sua natura più profonda anche se epoche ed eventi hanno imperversato sull’umanità in ogni epoca e nei più svariati contesti.

SELMI: La tempra straordinaria. Il coraggio. Il fatto che non fosse un codardo, che si assumesse la responsabilità delle proprie scelte, anche quando erano difficili e sbagliate. Il carattere fumantino, le collere improvvise e dirompenti, le sue ire terribili e la generosità con gli artisti. Un uomo dal carattere forte e dall’ambizione smodata.

Fatti storici

La Congiura dei Pazzi. Parte 1

Nella storia di Firenze c’è un avvenimento che attira molto la mia curiosità, la Congiura dei Pazzi. Ho così deciso di dedicarmi alla lettura di tre saggi che affrontano questo argomento: il volume “Giuliano de’ Medici” della collana del Corriere della Sera “Grandi delitti nella Storia”, “La congiura. Potere e vendetta nella Firenze dei Medici” di Franco Cardini e Barbara Frale e “L’enigma Montefeltro” di Marcello Simonetta. Dopo la lettura di ognuno di questi testi, vi racconterò un aspetto diverso legato alla vicenda, partendo dal racconto del fatto, passando dal ruolo di Federico di Montefeltro nel complotto, per arrivare al cambiamento della personalità di Lorenzo de’ Medici in seguito alla morte del fratello. Ho iniziato dal volume “Giuliano de’ Medici”, un piccolo saggio che ripercorre motivazioni ed esecuzione della congiura e dà una panoramica sulla famiglia Medici. Da questa lettura, vi racconto il fatto.


Il complotto passato alla Storia come Congiura dei Pazzi nacque da un gruppo di personaggi i quali avevano, ognuno, una motivazione differente per desiderare la fine del dominio della famiglia Medici su Firenze. Era indubbio, infatti, il grande potere del Magnifico, che, nonostante fosse amato e acclamato dal popolo, stava stretto a molte persone, dentro e fuori la città.
Vi era, in primis, una fazione fiorentina anti Lorenzo capitanata dalla famiglia Pazzi; poi Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, a cui era stato negato l’ingresso nella città; Papa Sisto IV che, fin dai contrasti sorti con Lorenzo sulla questione di Città di Castello, aveva creato una spaccatura nei rapporti con il Magnifico; e, infine, Girolamo Riario, nipote del Papa, che vedeva Firenze come una possibile conquista per allargare i propri domini. Ad essi, si aggiunsero una serie di personaggi minori, che furono anche autori materiali dell’omicidio. Inoltre, pare abbia avuto un ruolo in questa vicenda anche il padrino di battesimo di Lorenzo, Federico da Montefeltro.
Questo complotto culminò nell’assassinio del fratello minore di Lorenzo, Giuliano, appena venticinquenne, perpetrato nella basilica di Santa Maria del Fiore, a Firenze, al termine della messa pasquale, il 26 aprile 1478. Un delitto terribile sfociato nella blasfemia, consumato in un luogo sacro e durante la più importante funzione cattolica, al cospetto di Dio.
Tuttavia, questo aspetto sacrilego fu la salvezza di Lorenzo. Infatti, il primo obiettivo dei congiurati, che mirava al rovesciamento della fazione medicea e all’annientamento della cripto signoria che si era formata,  era proprio il Signore de facto di Firenze. Incaricato del suo omicidio era il condottiero marchigiano Giovanni Battista Conte di Montesecco, il quale, una volta appreso che, in ultimo, l’agguato si sarebbe tenuto in una chiesa, si rifiutò, lasciando il compito a due inesperti.
I congiurati, infatti, avevano una sola certezza: entrambi i fratelli dovevano essere eliminati fisicamente, altrimenti, alla morte del solo Lorenzo, Giuliano, anch’egli molto amato dal popolo e capace forse più del fratello, avrebbe assunto le redini della Signoria.
Così, in principio, l’omicidio fu previsto in occasione di un viaggio di Lorenzo a Roma, che però venne rimandato; successivamente si decise per due banchetti, ai quali però Giuliano non presenziò. Infatti, in quel periodo, difficilmente i due fratelli si presentavano insieme in pubblico, forse proprio perché doveva essere trapelata qualche notizia di un’intesa segreta ai loro danni. Fin dall’inizio dell’organizzazione, quindi, circa un anno prima dell’esecuzione, si rivelò un piano approssimativo, continuamente rimaneggiato a causa dei continui impedimenti.
Anche la decisione di agire durante la messa rischiò di risultare vana, in quanto Giuliano non si presentò nemmeno quella volta. Ma Francesco de Pazzi decise di andare a prenderlo a casa e accompagnarlo in chiesa a funzione iniziata, trascinato tra motti scherzosi e infidi abbracci (volti a verificare l’eventuale utilizzo di protezioni) proprio dai suoi sicari.
I due fratelli ascoltarono la messa a ridosso dell’ottagono che corre intorno all’altare maggiore, uno sul lato destro e uno sul lato sinistro, come erano soliti fare proprio per ridurre il rischio di attentati.
Al termine della liturgia, proprio nel momento in cui l’officiante, che quel giorno era il sedicenne neo cardinale Raffaele Riario, nipote del Papa, pronunciò l’Ite missa est, Bernardo Bandini Baroncelli e Francesco de Pazzi estrassero il pugnale e colpirono il povero Giuliano. Contemporaneamente, Antonio Maffei da Volterra e Stefano da Bagnone si avventarono contro Lorenzo, che riuscì a salvarsi proprio grazie all’inesperienza dei due, che lo colpirono soltanto di striscio, permettendogli, così, di nascondersi nella sagrestia insieme ad alcuni amici e sostenitori.
Giuliano, invece, fu massacrato dalle 19 coltellate inferte con estrema ferocia da Francesco de Pazzi, il quale, nella foga, si ferì ad una gamba. Fu lasciato a terra, in una pozza di sangue, mentre i presenti scappavano e scortavano Lorenzo, ancora ignaro della sorte dell’amato fratello, nel palazzo di famiglia in quella che era Via Larga, oggi via Cavour.
Questo evento ebbe l’effetto opposto a quello perseguito dai congiurati: il popolo di Firenze si strinse intorno al suo Signore, scagliandosi contro gli esecutori del delitto e accrescendo così il potere di Lorenzo che, in quel momento decisivo, venne sancito e ribadito con la forza di un patto di sangue.
Mandanti ed esecutori materiali subirono la violenta e spietata vendetta del Magnifico. Vennero catturati, torturati e condannati alla pena capitale; i ritratti dei loro corpi impiccati vennero commissionati a Sandro Botticelli e dipinti secondo il canone delle pitture infamanti.
In questo modo, Lorenzo aprì anche una vendetta contro Papa Sisto IV, che sfociò in una guerra che si concluse con una pace siglata dal pontefice il 13 marzo 1479.
Da quel momento, però, nonostante fosse riuscito a vendicare la morte di Giuliano, Lorenzo cambiò per sempre. Ma di questo vi parlerò nei prossimi articoli.

A cura di Deborah Fantinato

Giuliano de’ Medici in un ritratto di Sandro Botticelli