Un libro è un amico, un compagno di viaggio e di avventura, un forziere di emozioni; dona la possibilità di vivere la realtà che preferiamo, di conoscere e viaggiare nel tempo e nello spazio.
“Gli uomini sono a volte simili a caproni violenti e ostinati, o arieti irragionevoli che si scagliano selvaggiamente contro un muro… È il diavolo che li rende così irriducibili per condurli alla rovina. Alle donne, allora, che notoriamente ne sanno una più del diavolo, spetta il dovere di salvarli.”
In un rimbalzo di situazioni, tra Parigi e Roma a inizio Trecento, si sviluppa la trama di “Maledizione Notre Dame”, il nuovo romanzo di Barbara Frale, edito da Newton Compton Editori, quarto capitolo della saga dedicata allo scontro tra Filippo IV e il papato. Una trama, ricca e intrigante, che nasce dal contrasto tra il re di Francia, Filippo il Bello, e papa Bonifacio VIII e che si dipana come una partita a scacchi, in un clima di costante tensione a causa dei ferri corti che corrono tra la Francia e la Santa Sede.
Non racconterò null’altro della trama perché rischierei di cadere in spoiler, ma posso dire che l’autrice ha tessuto un intreccio davvero avvincente, ricco di omicidi, congiure, alleanze, tradimenti, rapimenti e complotti. Posso dire, inoltre, che un ruolo importante è giocato da tre donne e, in particolare, dalla regina di Francia, Giovanna di Navarra, moglie di re Filippo, e dal nipote del papa, Crescenzio Caetani. Con uno stile degno dei migliori romanzi storici, che rende questo romanzo oltremodo piacevole, Barbara Frale ci conduce tra le spire del potere medievale. La sua grande competenza storica e l’indiscussa abilità narrativa pongono questa autrice nell’Olimpo del romanzo storico e questa nuova opera ne è una prova. Una narrazione impeccabile, che tiene sempre alta l’attenzione del lettore e lo trasporta indietro nel tempo, grazie anche a personaggi storici tridimensionali.
“Maledizione Notre Dame” è un romanzo davvero entusiasmante, di cui è impossibile capire anzitempo il finale. Una lettura appassionante, che vi farà divorare pagine e capitoli.
Come si radunava un esercito in previsione di una battaglia nei Comuni di metà Duecento? Possiamo farci un’idea esaminando la mobilitazione di Firenze alle soglie della battaglia di Montaperti.
La mobilitazione veniva decisa da un consiglio di guerra che affiancava il podestà in periodo bellico e che era formato da dodici capitani, che si occupavano dell’organizzazione, e ventiquattro consiglieri. Il consiglio era coadiuvato da una serie di notai che controllavano e annotavano ogni passaggio. La coscrizione era obbligatoria per ogni maschio tra quindici e i settant’anni, ad eccezione di coloro che avevano palesi disabilità fisiche e di un uomo per famiglia titolare di un mulino. Ogni parrocchia compilava il registro degli arruolabili e chi non si faceva iscrivere rischiava multe salate: cinquanta lire per i cavalieri (ed era una somma molto ingente dato che ci si poteva comprare una casa modesta) e venticinque per i fanti. Anche per renitenti e i disertori era prevista una multa, anche se inferiore (dieci lire per cavalieri e cinque per fanti) e le parrocchie erano obbligate a denunciarli, a pena di pesanti multe collettive. La mobilitazione non comprendeva mai tutte le forze disponibili, ma era il capitano della guerra a decidere, volta per volta e a rotazione, quale Sesti cittadini armare (da tre a cinque), perché una parte delle milizie doveva rimanere sempre a guardia della città e di riserva. Ogni Sesto ripartiva gli uomini in vexilla che organizzavano le venticinquine fornite da ogni parrocchia. Erano parte integrante dell’esercito anche i medici e i notai.
Veniamo ora all’equipaggiamento dei soldati, che era tutto a loro carico. I fanti dovevano essere protetti da cervelliera d’acciaio, gorgiera per la gola, corazza di ferro o di cuoio ben imbottito per il busto, maniche di ferro per le braccia, lancia e scudo di legno e cuoio. La mancanza di uno qualsiasi degli elementi comportava una multa di dieci soldi, pari a cinque giornate di salario. I cavalieri, invece, dovevano anzitutto avere il cavallo (di cui era stabilito anche il valore minimo, pari a 45 lire) accessoriato di sella e coperta. Gli uomini dovevano avere elmo di ferro, usbergo di maglia di ferro, corazza, lancia, spada e scudo. In caso di elementi mancanti o non a norma, il cavaliere veniva sanzionato. La multa venti soldi (ossia la paga di una giornata) se mancava la sella, sessanta se il cavallo non aveva la coperta di protezione, cento soldi se mancava l’elmo e venti per ogni altra parte di armamentario mancante. Erano, inoltre, previste multe relative alla vendita dei cavalli. Se qualcuno vendeva un cavallo senza licenza del podestà a un acquirente che non era di Firenze o del contado rischiava cinquanta lire di multa se era un cavallo da guerra. Peggio ancora se vendeva un cavallo che aveva in affidamento, ma la cui proprietà era del Comune. In questo caso la multa ammontava ad almeno cento lire.
L’esercito era composto, innanzitutto da fanti e cavalieri. Questi ultimi erano organizzati in sei o sette squadre, composte da un capitano e da venticinque cavalieri e ogni venticinquina era strutturata in cinque poste da cinque uomini; e il loro schieramento era controllato da dodici ufficiali detti distringitores. Poi, vi erano i berrovieri, ossia soldati stranieri ingaggiati dal Comune con ferma di tre mesi. Le clausole di ingaggio prevedevano che venissero, rimanessero prestassero servizio e tornassero a casa a loro rischio e pericolo quanto alla loro persona, cavalli, armi e oggetti di loro proprietà. Il Comune avrebbe indennizzato solo i cavalli uccisi o danneggiati durante il servizio reso a Firenze. Il bottino fatto in guerra era riconosciuto interamente a loro, così come il guadagno tratto dal mercato dei prigionieri. Inoltre, per ogni nemico consegnato al Comune, questi avrebbe pagato dieci lire; se il Comune non avesse voluto pagare, il prigioniero sarebbe rimasto nelle mani di chi lo aveva catturato, il quale poteva liberarlo dietro riscatto o venderlo a un altro soldato. L’esercito era poi composto da arcieri, balestrieri e pavesari, ossia i soldati che portavano i grandi scudi dietro a cui si riparavano i tiratori in battaglia. Vi erano, poi, quarantotto soldati (guidati da un gonfaloniere e due distringitores) incaricati di scortare il carroccio con lo stendardo del Comun, che comprendevano i popolani migliori e più forti. Erano presenti anche i guastatori (comandati da sei ufficiali) e i marraioli, ossia coloro che spianavano il terreno davanti all’esercito in marcia con una sorta di zappa, chiamata marra.
Oltre a concentrare gli armati in città, si provvedeva anche alla mobilitazione del territorio. Si adottavano, pertanto, misure affinché il contado non restasse sguarnito di uomini e si costruiva una rete di difesa territoriale di armati, sia per rinforzare le milizie cittadine, ma soprattutto lasciati in loco come presidi locali. Inoltre, si formalizzava un sistema di segnalazioni con fuoco e fumo per far capire alle sentinelle sulle mura e sulle torri ciò che accadeva al confine della loro terra.
Nei pressi di Montaperti, località a una decina di chilometri da Siena, il 4 settembre 1260, l’esercito ghibellino senese, appoggiato dai cavalieri di Manfredi di Svevia, sbaragliò i fiorentini e i loro alleati guelfi. Una battaglia molto importante nel contesto toscano, che ebbe una lunghissima incubazione. Proviamo a ricostruirne gli antefatti e le cause.
Partiamo dalla situazione tra le due città interessate e, per farlo, dobbiamo tornare indietro di una decina d’anni. Iniziamo da Firenze. Nel 1251, Federico II è morto da circa un anno e la sua dipartita ha galvanizzato i guelfi, che hanno rialzato la testa e preso il governo di Firenze. Già da qualche tempo, la resistenza guelfa si era acuita, tanto che, nei due anni precedenti, i filopapali fiorentini erano insorti prima contro il rappresentante imperiale in città, Federico d’Antiochia, costringendolo a fuggire, poi contro i nobili ghibellini che controllavano la città. Il governo è quindi passato alla fazione guelfa, che costituisce ora il “Primo Popolo”, con al vertice il capitano del popolo (con potere esecutivo e legislativo) e il podestà (con potere giudiziario e di comando dell’esercito). I fuoriusciti ghibellini non sono però rimasti con le mani in mano, anzi. Hanno stretto un patto con le città toscane filoimperiali, Siena, Pisa e Pistoia, per muovere guerra a Firenze. Tuttavia, i successi bellici di Firenze dell’anno successivo, convincono i ghibellini fiorentini a tornare in patria, pacificati.
Il 1251 è un anno importante anche per la ghibellina Siena. Ha, infatti, siglato una pace che permette la stabilizzazione sotto la sua guida e la sua egemonia del quadrante sud della Toscana, grazie al controllo di una serie di castelli concesso da Grosseto e dai nobili della Maremma.
Nel 1254, mentre Firenze conquista mezza Toscana, il popolo di Siena sembra voler cambiare direzione politica e, l’anno successivo, le due città stipulano un trattato di pace, in teoria perpetuo e irrevocabile, con cui si stabilisce la libertà per Firenze di muoversi nei confronti dei castelli della Val d’Elsa, di Empoli, Montevarchi, Poggibonsi, Volterra e San Giminiano, e per Siena di perfezionare il controllo del sud della Toscana su cui già aveva l’egemonia, rinunciando però a Montalcino e Montepulciano. L’accordo prevede, inoltre, per entrambe l’impegno a non accogliere ribelli o banditi dell’altra città. Sembra si sia siglata la pace nella regione. Tuttavia, nessuno ci crede davvero.
E a ragione. Tre anni più tardi, infatti, tutto precipita. A Firenze, i ghibellini, capitanati da Farinata degli Uberti, tentano un colpo di Stato che, però, fallisce, costringendoli a lasciare la città e a rifugiarsi a Siena, che li accoglie violando gli accordi. Della pace del 1255 non è rimasto niente. Firenze e Siena tornano a essere nemiche. E l’obiettivo di Firenze è di nuovo quello di bloccare l’espansione della rivale, che sta vantando diritti su Montalcino (ai quali aveva rinunciato in virtù del trattato del 1255). Il suo territorio è, infatti, ricco di minerali e di ampi spazi per la coltivazione di cereali. La cittadina, però, resiste alle pressioni senesi, rivendicando la propria autonomia di appoggiarsi a Firenze, la quale si mobilita in suo soccorso. Ma è solo una scusa. Firenze sta muovendo guerra alla sua nemica Siena, radunando un esercito pronto a combattere.
Alla fine dell’estate del 1260, Firenze ha schierato trentacinquemila soldati e con loro marcia fino alla porta Camollia di Siena. I senesi sapevano che Firenze si stava preparando alla guerra e lo hanno fatto anche loro, ma gli uomini a disposizioni sono in numero inferiore a quello fiorentino (probabilmente diecimila o diciottomila soldati, a seconda della fonte). Sullo svolgimento della battaglia, sappiamo poco, in quanto fonti storiche che la raccontano, sia senesi che fiorentine, sono state scritte a metà Trecento.
Secondo fonti senesi, i guelfi fiorentini accampati fuori Siena, inviano due ambasciatori in città con un ultimatum: si arrenda entro tre giorni o apra tre varchi nelle mura per far passare l’esercito guelfo. Siena si mobilita, raduna i soldati, tra i quali primeggiano gli ottocento cavalieri tedeschi inviati da Manfredi di Svevia (ultimo figlio dell’imperatore Federico II, ormai passato a miglior vita da dieci anni), il quale si è da poco fatto incoronare sovrano di quel regno con l’inganno, attirando su di sé e ire di papa Alessandro IV. Questo papa ha, infatti, proseguito nella stessa linea del suo predecessore Innocenzo IV che, alla morte di Federico II, aveva rivendicato il regno di Sicilia come proprio territorio e che, pertanto, non aveva mai legittimato il testamento dell’imperatore circa la Sicilia. Manfredi, però, vuole riappacificarsi con il pontefice e, per questo, la sua città di riferimento in Toscana è proprio Siena che, pur essendo da sempre filoimperiale, non è ostile al papa. Ed è questo il motivo per il quale, nei mesi precedenti alla battaglia, egli aveva accettato di prestare l’aiuto richiesto da Farinata degli Uberti, il capitano ghibellino fiorentino che aveva trovato rifugio in Siena all’indomani del mancato colpo di Stato a Firenze del 1258.
Prima dello scadere dei tre giorni, all’alba del 4 settembre, i cavalieri ghibellini scatenano l’assalto contro le schiere guelfe che prendono posizione con difficoltà e che iniziano a ritirarsi cadendo subito nelle mani dei senesi. Al tramonto, i fiorentini, provati, vedono sorpresi da un fresco contingente di cavalleria tedesca (gli abilissimi cavalieri mandati da Manfredi) che li abbatte in modo definitivo, attaccando anche carroccio di Firenze, dal quale strappano lo stendardo. L’esercito guelfo si sbanda e i soldati fuggono cercando di sottrarsi alla mattanza che ne segue. Alla fine della battaglia, il corteo dei vincitori sfila per le strade della città, meditando la punizione di Montalcino, colpevole di aver causato quel disastro, sulla quale marceranno il 22 settembre e che metteranno al sacco dopo otto giorni di assedio.
Le fonti fiorentine sono, invece, tese a giustificare la disfatta attribuendone le cause a fattori esterni e, in particolare, a due: la buonafede dei fiorentini vittime della furbizia di Farinata degli Uberti e un tradimento interno. Farinata, infatti, dopo aver ottenuto i cavalieri da Manfredi invia a Firenze due frati che recano con loro alcune lettere segrete. I religiosi vengono convinti che a Siena si è stanchi del governo attuale e che, in cambio di diecimila fiorini d’oro, consegnerebbero la città a Firenze. I governanti fiorentini abboccano e la trappola scatta. In un secondo momento, Farinata invia altre lettere nella sua città, destinate ai ghibellini rimasti a Firenze: durante lo scontro, dovranno assalire i loro concittadini. Ed è quello che fanno al momento indicato, dando un forte contributo all’esercito nemico che già aveva agito di sorpresa, prendendo alla sprovvista i fiorentini.
Dopo la sconfitta in questa battaglia e in seguito alla presa da Montalcino da parte di Siena, Firenze rinuncia, in favore della rivale, ai diritti acquisiti anche su altre città come Montepulciano, sui castelli di Maremma e Valdorcia. In sostanza, sui territori nei quali avrebbe voluto fermare l’espansione senese. I guelfi sono sconfitti e tutta la Toscana, con l’unica eccezione di Lucca, è in mano alla fazione ghibellina. Ora, Siena e le altre città ghibelline vorrebbero la distruzione di Firenze, ma la città del giglio viene difesa dai fuoriusciti ghibellini, in particolare Farinata degli Uberti, i quali vogliono il rovesciamento del regime guelfo e non la distruzione della città. Intanto, a Firenze i guelfi scappano, rifugiandosi a Lucca. Tra loro ci sono importanti famiglie come i Pazzi, i Cavalcanti, i Soderini, i Bardi. La minoranza che resta in città, perché ancora non ha ben compreso la portata della sconfitta di Firenze, subisce rappresaglie. Quando i filosvevi fuoriusciti rientrano in città, iniziano i sei anni di governo ghibellino. Guido Novello diventa podestà come vicario di Manfredi e le istituzioni cittadine subiscono significativi cambiamenti, che però non operano un’occupazione totale del partito ghibellino, in quanto non pochi guelfi rimasti in città si accordano con i nuovi governanti.
Le fonti fiorentine riportano anche il modo in cui la città ha mobilitato la popolazione per la formazione dell’esercito in vista della battaglia contro Siena. Ve lo racconterò martedì 14 marzo in un appuntamento bonus di questa rubrica. Stay tuned!
Per i figli cadetti nati nell’Inghilterra di inizio Trecento, in un’epoca che non era più quella della cavalleria di Guglielmo il Maresciallo, la strada più comune era quella delle armi. Dovevano imparare il mestiere del soldato, iniziando come scudieri, paggi o soldati di condottieri e aspettando di mettersi in mostra in qualche occasione per diventare uomini d’arme. Da questo momento potevano mettersi sul mercato, arruolare soldati e mettere la loro spada al servizio del miglior offerente.
Ed è ciò che fece John Hawkwood, ribattezzato Giovanni Acuto dai fiorentini, colui che divenne uno straordinario condottiero per moltissimo tempo al soldo della Signoria di Firenze. Quando iniziò la sua carriera, era in corso la Guerra dei Cent’anni, tra Inghilterra e Francia. È proprio in Francia, dai primi anni Quaranta del Trecento, che Giovanni combatté, terminando il suo apprendistato. Ma nel 1360 finì la prima parte della guerra e iniziò un periodo di pace, in cui i soldati dovettero riorganizzarsi per sopravvivere.
Nel frattempo, la struttura dell’esercito basato sulla fedeltà vassallatica e incentrato sulla cavalleria era entrato in crisi. Già nel Duecento, in Inghilterra i vassalli rifiutavano la dignità cavalleresca per non essere tenuti agli obblighi militari. In Francia, invece, i vassalli seguivano il signore solo entro in confini del feudo; oltre questo limite esigevano si essere rimborsati di tutte le spese. In Italia, soprattutto nelle zone in cui i Comuni crescono più velocemente, le compagnie cittadine (formate in prevalenza da cittadini che avevano più confidenza con gli strumenti dei loro mestieri che con le armi) non erano sufficienti a condurre guerre di conquista. Per questo, le milizie vennero integrate con soldati di professione. E questa professione poteva essere una soluzione per tanti, soprattutto durante la crisi economica di fine Duecento. Fu in questo contesto sociale che i soldati come Giovanni facevano fortuna, formando bande di soldati-avventurieri (mercenari), pronti a offrire il proprio lavoro a quanti avessero bisogno di soldati. Quella a cui Hawkwood si unì era la Compagnia Bianca.
I soldati di professione erano presenti negli eserciti già in pieno Medioevo, dove venivano ingaggiati con contratti a termine che si concludevano nel momento in cui finiva la guerra per cui erano stati assunti. In Italia, a loro ricorrevano i Comuni e il podestà, che aveva bisogno di una forza di polizia stabile. Un’accelerazione al fenomeno lo diedero le vicende dei guelfi e dei ghibellini nella seconda metà del XIII secolo. Ovviamente, ciò non significa che gli eserciti erano formati solo da mercenari, però erano loro a fare la differenza. Ad essi ricorrevano anche i sovrani d’Europa che, fino al Duecento, assoldavano il singolo uomo con i suoi collaboratori, mentre dalla metà del secolo si avvalsero di un tecnico, il conestabile, per trovare le truppe. Egli reclutava contingenti che oscillavano tra i venticinque e i cento soldati, per poi passare a intere compagnie di centinaia di uomini nel Trecento. Un altro fattore che contribuì a professionalizzare i soldati fu l’introduzione di nuove armi, l’arco e la balestra, che richiedevano una specializzazione nel loro uso e che trasformarono le tecniche di combattimento. Infatti, fino a quel momento i cavalieri (che costituivano la maggioranza degli eserciti) avevano dovuto difendersi solo dai colpi ravvicinati di spada, mazza e lancia, mentre ora dovevano riorganizzare le armi di difesa per le frecce che arrivavano da lontano e avevano una diversa capacità di perforazione. Questo comportò l’inspessimento di scudi e corazze, la formazione di una leva più robusta e una forma di combattimento più lenta.
La figura centrale della compagnia era il condottiero, ossia il comandante, al quale i soldati erano legati da vincoli di dipendenza, ma anche di fiducia e fedeltà. Era il condottiero (che, nella maggior parte, proveniva da famiglie aristocratiche) a reclutare i guerrieri, ognuno con il proprio reparto di armati. Sul loro operato, vigilava colui che li aveva ingaggiati, ossia il signore o un organismo apposito, come gli Ufficiali della Condotta a Firenze o i Savi della Terraferma a Venezia. Spesso il soldato mercenario è ricondotto a stereotipi, che però sono da rivedere. Primo fra questi, l’immagine dei soldati che, nelle città in cui passano, lasciano solo tracce sgradevoli. Ciò non era sempre vero, in quanto molti di loro si legavano alle città nelle quali passavano più tempo, ad esempio sposando ragazze del posto o facendo erigere chiese. Un altro stereotipo è quello del rapporto tra soldati e popolazione locale, le cui testimonianze sono sempre negative, come i soldati di Francesco Sforza che avevano l’abitudine di mangiare e bere senza pagare nelle osterie. Ma la presenza di un esercito significava anche circolazione di denaro e, soprattutto, guadagno sicuro per chi prestava loro soldi. Spesso i soldati finivano nel giro dell’usura oppure impegnavano armi e cavalli per avere contante. Inoltre, alcuni di loro investivano i guadagni presso uomini d’affari locali. Pertanto, nonostante sia indubbio che tra le file degli eserciti ci fossero uomini di bassa moralità e delinquenti abituali, la figura del soldato di professione non può essere ricondotta a stereotipi assoluti.
Ma come era strutturata una compagnia? Iniziamo col precisare che, nel momento in cui il condottiero accettava la condotta, non sempre aveva a disposizione gli uomini necessari. Doveva quindi procedere con l’arruolamento che poteva avvenire contattando soldati con cui aveva già combattuto, con l’unione a compagnie più piccole guidate da altri condottieri, con l’arruolamento per strada oppure ancora convincendo mercenari prigionieri di altre compagnie o sottraendo soldati al nemico in difficoltà economica. Detto ciò, la compagnia era formata da un insieme di piccole cellule. Un esempio utile è quello della compagnia di Michelotto degli Attendoli, della prima metà del Quattrocento. Vi erano 561 lance, che corrispondevano a 1129 combattenti e 561 paggi, e 104 cavalli (ossia singoli combattenti), per un totale di 1229 cavalieri, integrati da 177 fanti. Questo contingente era diviso in 87 squadre eterogenee e ognuna di esse era divisa in gruppi di lance, per un totale di almeno 167 uomini di comando (quindi un comandante ogni 6 uomini). Oltre agli uomini d’arme, la compagnia era formata anche da amministratori e contabili, necessari per amministrare le spese anticipate che il condottiero si accollava per l’equipaggiamento dei suoi uomini. Inoltre, vi era la casa, formata dai più stretti commilitoni e dai famigli del comandante, i quali, però, non seguivano gli spostamenti della compagnia, ma operavano in una sede fissa. Invece, si spostavano con i soldati tutte quelle figure che servivano a garantire un livello di quotidianità accettabile alle truppe: servi, cuochi, buffoni, medici, religiosi, prostitute, barbieri, sellai, mulattieri, corrieri, garzoni di stalla, fornai, ecc. Il comandante aveva, inoltre, giurisdizione piena sui suoi uomini (legibus soluti), sui quali amministrava la giustizia, con premi e punizioni. Quindi, ad eccezione di qualche rara occasione, non erano le magistrature della signoria committente a far valere la legge tra i soldati.
Uno dei problemi più fastidiosi per chi ingaggiava le compagnie era il loro costo, molto ingente, che spesso veniva sostenuto grazie all’introduzione di nuove tasse. Infatti, chi si rivolgeva ai mercenari, in genere, si impegnava a corrispondere la paga in denaro e gli anticipi per cavalli, armi e armature, a indennizzare i cavalli morti o feriti e a riscattare eventuali prigionieri. Ma in Europa del Duecento Trecento e Quattrocento, i mercenari erano indispensabili. È interessante osservare, ad esempio, i patti del 1390 tra Giovanni Acuto e Firenze per capire come funzionasse il loro ingaggio. Essi prevedevano una ferma annuale, con diritto di opzione per un altro anno; il condottiero si impegnava a svolgere le operazioni di guerra e una serie di servizi di guardia e sicurezza in città. Alla fine della condotta, il comandante prometteva di non combattere contro Firenze per due anni in proprio o per sei mesi al servizio di un altro capitano (clausola comune, ma spesso non rispettata). Una forma di ingaggio che si sviluppò nel Trecento, è il soldo d’attesa: in tempo di pace, i soldati ricevevano una paga ridotta ma si tenevano a disposizione in caso di necessità. Durante l’attesa, il condottiero era libero di far combattere i suoi soldati per altri committenti fino a che non fossero richiesti dal primo. Quanto alla durata dell’ingaggio, inizialmente era prevista per qualche mese, per poi allungarsi a un anno di ferma con un anno di rinnovo, sviluppando il fenomeno per il quale, molto spesso, i condottieri si legavano allo Stato che li aveva ingaggiati. Il soldo era ovviamente integrato dal bottino, dato che i soldati avevano libertà di commettere ruberie, estorsioni e chiedere riscatti. Alle paghe (che poteva essere sostituita, in caso di difficoltà del committente, da altri generi, come stoffa, sale, gioielli…), inoltre, si univano spesso privilegi, come esenzioni fiscali o lasciapassare.
Come combattevano le compagnie? Tra Duecento e metà Trecento in Italia, si usavano i corpi di cavalleria, fanti e balestrieri. Fanti e balestrieri formavano il reparto d’appoggio per la cavalleria, decisiva per lo scontro, che in genere consisteva in una serie di urti successivi di cavalieri. Nel Trecento, però, le modalità di battaglia si modificarono, dando sempre più spazio alla fanteria, che smise di essere carne da macello per diventare un reparto decisivo. Ma, durante le battaglie, mercenari erano davvero spietati? La risposta è no. Erano feroci e spietati con le popolazioni che subivano i loro soprusi, ma contro i nemici si dimostravano coraggiosi e determinati, mai spietati. E ciò perché quei professionisti nemici sarebbero potuti diventare loro alleati o parte della stessa compagnia. Pertanto, il nemico doveva essere sconfitto ma non distrutto, perché i soldati erano una risorsa da gestire nel migliore dei modi.
Come detto in precedenza, alla fine del Trecento le compagnie iniziarono a cambiare, in quanto si legarono sempre più agli Stati. Ma anche la figura del condottiero cambiò, che da avventuriero si trasformò in gentiluomo. Questo avvenne anche perché spesso i condottieri ricevevano come pagamento la concessione di terre su cui, in alcuni casi, esercitavano una signoria. Un bel modo per trasformare i condottieri in fedeli sudditi del signore che li aveva ingaggiati.
Giovanni Acuto proprio il prototipo di questo cambiamento.
Il contesto italiano nel quale approdò a Firenze era caratterizzato da un’estrema dinamicità politica, soprattutto al centro-nord, dove le protagoniste erano Verona, Milano e Venezia. La politica aggressiva del signore di Verona, Mastino della Scala, preoccupava Venezia che nel 1363 stipulò un’alleanza con Firenze. Ma quando Giovanni Visconti, signore di Milano, conquistò Bologna, Firenze iniziò a consolidare la sua posizione in Toscana. Ma la minaccia del pericolo derivante da Milano non fece passare in secondo piano le rivalità tra le città toscane e quando Pisa, nel 1365, chiuse il porto ai fiorentini si aprì una ghiotta occasione per i soldati in cerca di ingaggio. Quando la Compagnia Bianca arrivò in Toscana, fu contesa tra Pisa e Firenze. Il comandante scelse i quaranta mila fiorini offerti dalla prima, nella guerra contro Firenze. A un certo punto dell’ingaggio, però, buona parte della Compagnia abbandonò Pisa per passare dalla parte di Firenze che aveva fatto un’ulteriore ghiotta offerta. Giovanni Acuto non seguì i suoi compagni e rimase con Pisa, decretando così il distacco dalla Compagnia Bianca. Dopo Pisa, combatté al soldo di Bernabò Visconti, di papa Urano V e di Padova. Nel 1387, approdò a Firenze e vi restò in modo definitivo, fino alla sua morte, attuando quel cambiamento che vide i condottieri legarsi sempre più spesso a una sola città.
“Ciascuno pensi alla sua anima, consegnatevi a noi e potrete andarvene incolumi, se invece non accetterete e sarete presi con la forza sarete tutti impiccati senza misericordia.”
Le battaglie e le vicende belliche medievali risultano così affascinanti ai nostri occhi da stimolare la fantasia di molti scrittori. E nei romanzi troviamo cavalieri in armatura che si scontrano brandendo spade, decapitando poveri fanti appiedati. Sangue a flotti, cavalli che si impennano, spade luccicanti, usberghi lucenti… sicuramente tutto molto affascinante. Ma com’era davvero la guerra nel Medioevo europeo? Proviamo a ricostruirne i punti principali.
Iniziamo col precisare che, nell’80% degli episodi militari attestati dalle fonti, il modo di guerreggiare è consistito in scorrerie devastatrici limitate nel tempo e nello spazio, volte a sottrarre al nemico i mezzi di sussistenza. E ciò accedeva indipendentemente dalla motivazione della battaglia, perché quello che più incitava i soldati a combattere era la prospettiva dell’arricchimento derivante dal bottino. Le scorrerie erano, infatti, composte da razzie e raid, ossia incursioni rapide e limitate nello spazio con lo scopo di recuperare bottino e distruggere le risorse del nemico; il raid si inseriva in schemi strategici più elaborati ed erano volti a indurre il nemico alla resa. E questo modo di guerreggiare non differenziava i soldati regolari dagli sbandati che derubavano i viandanti. L’unica differenza tra ruberia e prelievo di prede come azione di guerra era il titolo giustificativo della violenza. Insomma, la guerra medievale era tale solo nel 20% dei casi.
Proprio l’incapacità degli eserciti di astenersi dalle razzie rendeva i loro passaggi una maledizione per i luoghi attraversati, senza distinzione tra amici e nemici. Anche perché con queste incursioni i soldati provvedevano alle proprie esigenze alimentari (non soddisfatte dalla carente organizzazione logistica militare), che giustificavano tutti gli eccessi di una sorta di licenza militare, che si poteva ben trasformare in pura rapina. Ma oltre alle razzie, vi erano altri problemi dei luoghi attraversati dagli eserciti: problemi di controllo di uomini in movimento, danneggiamento di strade e abbattimento di case e alberi per l’agevolazione del passaggio di mezzi pesanti, danni provocati dallo stazionamento delle truppe che esaurivano le risorse di regioni intere. Solo alcuni grandi comandanti, come Guglielmo il Conquistatore o Clodoveo, riuscivano a mantenere e condurre gli eserciti senza provocare troppi danni.
La stessa tendenza predatoria degli eserciti medievali era tipica dei soldati di mestiere, i cosiddetti mercenari. Apparsi verso la fine del XII secolo e divenuti presenza abituale nella seconda metà del Trecento, questi soldati di professione erano dediti alla ricerca del bottino e al sequestro di persona a scopo di estorsione. Erano radunati in compagnie di ventura, ossia gruppi organizzati come veri e propri eserciti permanenti e itineranti, sempre pronti alla preda, per conto dei propri datori di lavoro, ma soprattutto per il proprio tornaconto, specie quando rimanevano senza occupazione e il grado di violenza aumentava. Il loro obiettivo non era superare l’avversario, ma arricchirsi con ogni mezzo possibile, facendo prevalere i moventi economici sulle intenzioni politiche. In origine, erano semplici ladruncoli, poi divenuti veri fuorilegge a cui si associarono ribelli, delinquenti comuni e monaci rinnegati, e infine veri e propri professionisti della guerra. Nella seconda metà del XIV secolo le compagnie diventarono formazioni militari abbastanza stabili stipendiate dalle signorie italiane, anche se continuarono comunque a integrare le paghe con bottini e riscatti.
Nell’Italia comunale, la scorreria era diffusa anche come sfida e provocazione contro l’avversario, per indurlo a uscire dalle mura della sua città e ad accettare la battaglia, così come per umiliarlo e ridicolizzarlo. Inoltre, era usata per punire che aveva mancato a una fedeltà politica. Vi era poi l’uso della scorreria tattica, che contava sulla reazione del nemico per farlo cadere in trappola.
I saccheggi erano, comunque, sempre accurati: ogni cosa veniva asportata dalle case, che poi venivano incendiate, e le fortificazioni in muratura venivano abbattute. La tecnica distruttiva principale era, infatti, il fuoco, efficace sia in campagna che in città. Dietro ai soldati saccheggiatori, vi erano poi i guastatori che, muniti di appositi attrezzi come scuri, operavano il guasto del territorio nemico. Inoltre, insieme ai soldati impegnati nelle azioni della gualdana (saccheggio), vi erano i cosiddetti saccomanni, ossia singoli predoni, non combattenti, muniti di sacchi nei quali si accumulavano le prede. I saccomanni erano proprio coloro che seguivano l’esercito tenendo il sacco pronto per raccogliere il bottino. Una volta raccolte le prede, queste venivano radunate in un luogo adatto e ripartite in modo eguale tra tutti i combattenti, al fine di evitare il rischio che nessuno volesse più battersi nella prima schiera in cui era più difficile fare bottino.
Nonostante quanto si è detto finora, gli uomini di guerra medievali non possono essere visti solo come sadici distruttori in cerca di bottino. Il bottino, infatti, era legittimo perché derivato dalla guerra, anche se vi erano limiti generali: i danni dovevano essere commisurati al rischio e agli scopi, i non combattenti e i prigionieri dovevano essere rispettati, tutto era permesso purché non facesse soffrire la disciplina dell’esercito, le chiese dovevano essere risparmiate per evitare l’ira divina e bisogna evitare la distruzione totale dei territori di cui di voleva entrare in possesso.
A livello quantitativo, subito dopo i saccheggi venivano gli assedi dei luoghi fortificati, come conseguenza del fenomeno dell’incastellamento del X e XI secolo. La fortificazione veniva avvicinata con i plutei, ossia grandi scudi su ruote che proteggevano i tiratori, i quali spianavano il terreno e colmavano il fossato difensivo per permettere ai mezzi pesanti di agire sulle mura. Il primo mezzo pesante era la testuggine, un capannone blindato con un tetto inclinato che faceva scivolare i proiettili e le materie incendiarie lanciate dall’alto dal nemico. Sotto la testuggine, i minatori arrivavano alle mura per aprire brecce con l’ariete, cioè una grossa trave con la testa ferrata. Poi vi era la torre mobile più alta delle mura, montata su ruote, spinta da uomini al suo interno e munita di ponti volanti che permettevano di superare le mura dall’alto. Anche le scale d’assalto avevano le ruote ed erano più difficili da rovesciare per il nemico. Tutti questi mezzi erano di legno, pertanto venivano ricoperti di pelle di bovino, strati di terra e materiali imbevuti d’aceto per essere protetti contro il fuoco. Erano poi accompagnati dal tiro delle artiglierie, ossia mezzi che facevano piovere proiettili di pietra sulle difese nemiche, come il mangano e, successivamente, il trabucco. Sottoterra, invece, si potevano aprire gallerie per far crollare le mura ed entrare all’interno di sorpresa. Tutti i componenti dell’attacco dovevano agire nello stesso momento.
Oltre che per battaglia, le fortezze venivano prese anche per sete e per fame. Il primo compito durante un assedio era, quindi, privare di acqua e cibo gli assetati. Per questo, si privilegiava l’estate, quando era più facile esaurire l’acqua e i nuovi raccolti non avevano ancora integrato le scorte precedenti. La privazione dell’acqua avrebbe così fatto desistere anche gli assediati più agguerriti. In questi casi, ciò che portava gli assediati a resistere era la speranza di ricevere soccorso esterno, almeno per il rifornimento di acqua e viveri, che avveniva solitamente di notte. In questi assedi, erano importanti le cosiddette bocche inutili, ossia persone rinchiuse nella fortezza che consumavano vivere senza però fornire validi aiuti alla resistenza, come donne e bambini. Per questo, spesso, gli assedianti se catturavano alcuni assediati, anziché ucciderli, li mutilavano e li rimandavano indietro in modo che consumassero più in fretta le scorte senza essere di aiuto alla difesa.
La conquista di una fortezza per battaglia, invece, imponeva l’uso di macchine da lancio e da assalto, come detto. Ma i mezzi da lancio avevano anche un forte effetto psicologico sugli assediati. Infatti, erano usati anche per lanci non convenzionali allo scopo di esercitare pressione psicologica, come ad esempio le teste di nemici uccisi o corpi di alcuni animali, in particolare asini, con intento di insulto e derisione. Per lo stesso scopo intimidatorio, si usavano anche il fuoco e rumori improvvisi, soprattutto di notte, e si faceva credere agli assediati che loro mura fossero sul punto di cadere perché minata.
Il modo più comune di impadronirsi di una fortezza per battaglia era la scalata, ossia l’avvicinamento di scale alle mura, con attacco protetto dal tiro di balestrieri, arcieri e frombolieri. Ma era un modo pericoloso e difficile se non attuato di sorpresa, pertanto questo tipo di attacco avveniva soprattutto di notte e nei luoghi più accessibili e meno sorvegliati. Si trattava di scale mobili smontabili: ogni uomo, in silenzio, ne portava un pezzo fin sotto il punto scelto nelle mura, dove ogni parte veniva assemblata. Spesso, in questo modo alcuni uomini potevano penetrare nella fortezza e aprire le porte al resto dell’esercito. L’attacco per scalata, però, poteva avvenire anche in presenza del nemico, con cui si dava vita ad audaci imprese. Nei casi, invece, in cui l’attaccante era in stato di inferiorità, si cercava complicità all’interno per penetrare con l’inganno e il tradimento. In particolare, l’inganno era molto usato nei casi di luoghi fortificati imprendibili senza un lunghissimo assedio che avrebbe richiesto un impiego sproporzionato di tempo, uomini e mezzi. Un esempio di inganno è quello usato da Roberto il Guiscardo, alla fine dell’XI secolo: si finse morto, chiedendo di essere sepolto in un monastero all’interno delle mura; il desiderio fu accolto ed egli durante il funerale si alzò, estrasse le armi e diede il segnale di attacco.
Ma gli assedi comportavano problemi anche per gli assedianti. Innanzitutto, era difficile assediare grandi città. Se poi l’assedio si prolungava più del previsto, il primo nemico dell’esercito era la noia che stancava i soldati, inducendoli a desistere dal loro intento. Inoltre, vi era la necessità di vettovagliare l’esercito per tutto il periodo dell’assedio e questa difficoltà costituiva spesso una speranza per gli assediati.
Dal canto loro, gli assediati rispondevano alle macchine da lancio con il tiro delle proprie artiglierie, utilizzavano fossati molto profondi e pieni d’acqua per prevenire lo scavo di gallerie e lanciavano o portavano fuori il fuoco contro i mezzi bellici nemici. Per lanciare il fuoco si usavano sifoni, frecce incendiarie; con le macchine da getto e le olle di terracotta, veniva lanciato materiale incendiario, come blocchi di metallo incandescente o miscele incendiarie. Esistevano tre tipi di fuoco per la guerra. Il fuoco semplice era costituito soltanto da legna, il fuoco artificiato comprendeva legna trattata con sostanze idonee ad agevolare o potenziare la combustione, come resina, pece bollente, grassi, zolfo, ecc. Poi vi era il cosiddetto fuoco greco, una speciale miscela incendiaria di difficile definizione che produceva un fuoco inestinguibile, poiché resistente all’acqua. In ultimo, gli assediati alle strette che però non intendevano arrendersi, ricorrevano alla fuga nella notte, che avveniva calandosi dall’alto delle mura o aprendo brecce alla loro base.
La presenza di numerose fortezze portò gli eserciti a evitare il più possibile (ma non sempre) le battaglie in campo aperto, dagli esiti più incerti. I comandanti preferivano operare di nascosto per cercare di sconfiggere i nemici lasciando incolumi i propri uomini, come fecero i comuni lombardi contro Federico II. Essi impedirono un combattimento libero in campo aperto chiudendo il passo all’esercito nemico in strettoie e ai passaggi dei fiumi. Una delle tecniche usate per ritardare la battaglia campale era il temporeggiamento. L’esercito, pur dichiarandosi pronto a combattere, in realtà si limitava ad aspettare che fosse l’altro a fare il primo passo. In questo modo, esibiva la propria forza con lo scopo di intimorire l’avversario: se lo scontro non avveniva era solo per la codardia dell’altro. Il tergiversare era poi dovuto anche alla divinazione astrologica, che serviva a scegliere il giorno e l’ora più favorevoli alla battaglia. Finché la battaglia si poteva evitare, veniva sostituita dalla parata in campo aperto, ossia dallo spiegamento delle proprie forze per intimorire il nemico, come fecero i Faentini nel 1207, i quali si disposero in una pianura, riuniti sotto le bandiere, invitando con gesti il nemico al combattimento. E la parata era usata anche davanti alle mura di città nemiche con lo scopo di provocare gli abitanti a uscire. Era quindi possibile affrontarsi senza battaglia, dimostrando la capacità di resistere di fronte al nemico e di operare davanti a esso senza che reagisse. Se quest’ultimo rifiutava apertamente di combattere o, dopo aver tergiversato, lasciava il campo, ammetteva la sconfitta. Spesso, quindi, l’ordinamento delle schiere era più importante del loro impiego sul campo, perché l’ordine, la compattezza e la disciplina potevano indurre il nemico a ritirarsi: l’esercito otteneva il risultato senza compromettere uomini e armi. Nella prima crociata, ad esempio, i guerrieri di Tancredi emersero da una valle davanti ai Turchi armati e inquadrati in modo perfetto: prima le punte delle lance, poi le aste, gli elmi, gli scudi e i torsi corazzati, finché non apparvero le sagome minacciose dei guerrieri a cavallo. Solo l’apparizione indusse i Turchi alla fuga. È quindi immaginabile la pressione psicologica che potevano avere sul nemico lo scintillare di armi e armature, i colori, la ricchezza dell’esercito, il numero di bandiere, le voci, il suono degli strumenti.
Ma come erano disposte le schiere? Innanzitutto, davanti, cavalieri e fanti non potevano superare i vessilli, che dovevano seguire rimanendone vicini; sul retro, invece, il limite era dato dalle insegne degli ufficiali guardaschiera. Poi, la posizione di ogni combattente corrispondeva a un ordine stabilito. Durante la marcia, dovevano procedere serrati, appena dietro alle bandiere, mentre in combattimento cavalieri e fanti erano disposti in righe, distanziate le une dalle altre, secondo quattro forme diverse. La forma quadrangolare giudicata la meno utile, quelle triangolari e a forbice, utili per attaccare un nemico numeroso, e quella rotonda, indispensabile per difendersi da un avversario più forte. Nelle prime righe di questi schieramenti, erano posti i combattenti meglio armati e più valorosi. Quanto all’addestramento delle reclute, avveniva direttamente sul campo di battaglia e durante le battagliole, in cui erano usate armi di legno e fitto lancio di pietre.
Bisogna ricordare, però, che cavalieri e fanti medievali non erano combattenti professionisti, ma uomini del popolo che venivano periodicamente sottratti (per qualche giorno o settimana) al lavoro quotidiano per affrontare una battaglia. Ciò rendeva molto problematico il mantenimento delle schiere davanti al nemico. Per questo gli statuti cittadini prevedevano disposizioni precisi in merito: nessuno poteva separarsi dalla schiera in vista del nemico, né poteva allontanarsi dalla battaglia, a pena di severe punizioni. In particolare, erano previste disposizioni severe per gli alfieri, ossia coloro che portavano le insegne, i quali non potevano mai ritirarsi dal combattimento, fuggire, né abbassare il vessillo. I disertori venivano puniti sul campo di battaglia, dovevano pagare multe salate, i loro nomi erano scritti (e le fattezze dipinte) nel palazzo comunale, con conseguente infamia ed esclusione perpetua dai pubblici uffici; in alcuni casi, si arriva fino all’amputazione del piede. Oltre che con le minacce di queste punizioni, l’esercito era mantenuto in riga anche con le percosse.
Un altro problema che angustiava i comandanti era il tempo migliore per muovere una campagna militare. Infatti, la temperatura doveva permettere di vivere all’esterno, le strade dovevano essere sgombre da fango e neve, gli animali dovevano trasportare foraggio fresco, mari e fiumi dovevano essere navigabili con sicurezza e le giornate dovevano essere lunghe a sufficienza. Pertanto, il momento migliore per iniziare una campagna era sicuramente la primavera e l’attività bellica si concentrava, solitamente, tra aprile e settembre. Ma l’estate poteva essere nociva, non meno dell’inverno, a causa di insolazioni, della polvere, della sete, della calura eccessiva, soprattutto sotto le armature, e degli insetti. Durante l’inverno, l’attività bellica era ridotta al minimo. Quanto al momento della giornata più propizio all’attacco, era l’alba perché vi era più possibilità di sorprendere un nemico non ancora pronto a difendersi. Di notte, invece, il combattimento era sospeso, sia per la stanchezza dei combattenti, sia per via del buio che impediva di riconoscere gli amici dai nemici. Tuttavia, durante la notte venivano svolte altre attività: la raccolta di informazioni negli accampamenti avversari, il sabotaggio di impianti nemici, la discussione di piani d’azione, la veglia in armi senza interruzione, lo spostamento di truppe, l’evasione di prigionieri e di guarnigioni assediate e, in generale, ogni genere di azione di sorpresa.
Molto di ciò che conosciamo a proposito della cavalleria medievale è dovuto a una canzone, un poema, scritto dopo la morte di uno dei più grandi e importanti cavalieri della Storia: Guglielmo il Maresciallo. Il maresciallo, conte di Pembroke, era considerato già dai suoi contemporanei il migliore cavaliere del mondo, emblema della cavalleria stessa, uomo che si è creato da solo la propria fortuna, cavaliere dalla carriera esemplare: da scudiero di Guglielmo signore di Tancarville, in Normandia, a tutore del re Enrico il Giovane, per finire reggente del Regno d’Inghilterra per conto del novenne Enrico III, che lo portò ad essere uno degli uomini più potenti dell’Occidente all’inizio del XIII secolo.
Ripercorriamo questa carriera sfolgorante.
Personaggio dalla genealogia pressocché sconosciuta, probabilmente nipote di uno degli avventurieri che seguirono Guglielmo il Conquistatore, da bambino, il Maresciallo fu mandato dal padre in Normandia, dal signore di Tancarville, feudatario del re d’Inghilterra, per essere educato da guerriero. Era, infatti, figlio cadetto a cui non sarebbe spettata alcuna eredità: la scelta era tra la strada del mondo o la carriera ecclesiastica. Divenuto cavaliere, dimostrò grande valore bellico, sia per audacia che per tecnica, e iniziò a partecipare ai tornei, in cui perfezionò il suo apprendistato e nei quali si distinse sempre più. Una volta affermato, tornò in Inghilterra, ma non nella famiglia d’origine, bensì in quello dello zio materno, Patrizio conte di Salisbury, intimo di re Enrico II. E questa fu la sua prima fortuna. Infatti, la consorte di Enrico, la regina Eleonora d’Aquitania, colpita dal rispetto e dalla capacità di sacrificio che Guglielmo aveva dimostrato in un’occasione, lo inserì tra i cavalieri del suo seguito. Il giovane divenne così membro di una corte reale. Due anni dopo, nel 1170, poi, un altro grande passo per la sua carriera. Enrico II, infatti, incoronò re il figlio quindicenne, Enrico il Giovane. Ma questi, maggiorenne solo da un anno, non ancora cavaliere, aveva bisogno di una guida, un istruttore d’armi. Il padre scelse proprio Guglielmo come mentore del figlio, mettendolo al vertice dei cavalieri della casa reale. Diventò così maestro del suo signore. Aveva il giovane re nelle sue mani. Per tenere il figlio occupato, Enrico II ne sostenne le imprese cavalleresche, che si tradussero nel continuo vagabondare per tornei. L’esperienza e la bravura di Guglielmo furono qui fondamentali, tanto che gli valsero l’amore del giovane re. Addirittura, Enrico il Giovane gli chiese di armarlo cavaliere. Un compito importantissimo che sarebbe spettato, in teoria, a un altro re, probabilmente Luigi VII di Francia, suo signore feudale. La posizione di Guglielmo si elevò ulteriormente, grazie anche all’intimità con il re, che però gli procurò molte invidie tra gli altri cavalieri, i quali ordirono una congiura ai suoi danni. Le voci di un suo rapporto adulterino con la moglie del re, Margherita, gli fecero perdere l’affetto del sovrano, così abbandonò la corte per riprendere i tornei, nei quali era ambito e conteso. Quando, però, Enrico il Giovane entrò in guerra contro il padre, lo richiamò a corte. Tuttavia, poco tempo dopo, il re morì e Guglielmo ne eseguì l’ultima volontà, partendo per la Crociata al suo posto. Quando tornò, entrò nel seguito di Enrico II per fronteggiarne l’altro figlio, Riccardo, che gli muoveva guerra. Durante uno scontro, coprì la ritirata del suo re (che poco dopo morì), umiliando Riccardo abbattendone il cavallo, il quale lo accusò di avere tentato di ucciderlo. Tuttavia, il nuovo re, Riccardo Cuor di Leone, lo perdonò, gli concesse in sposa una ricchissima nobile e lo inserì nel suo seguito. Grazie al matrimonio con Isabella di Clare, Guglielmo divenne signore potentissimo e vassallo del re. Quando Riccardo partì per la Crociata, il Maresciallo rimase in Inghilterra a sorvegliare il fratello del re, Giovanni Senza Terra, che divenne re a sua volta alla morte di Riccardo nel 1199. Ma fu nel 1216 che Guglielmo raggiunse l’apoteosi. Prima di morire, Giovanni gli affidò la tutela del figlio Enrico di nove anni, salito al trono come Enrico III d’Inghilterra. Guglielmo il Maresciallo, diventò così uno degli uomini più importanti dell’Occidente. Tre anni dopo, morì.
Come dicevamo all’inizio, alla sua morte, nel maggio del 1219, il suo primogenito commissionò a un troviero, tal Giovanni, la realizzazione di una canzone che narrasse la vita e le gesta del genitore. Giovanni il Troviero impiegò sette anni per raggiungere il suo scopo. In centoventisette fogli di pergamena e in quasi ventimila versi, egli restituì il Maresciallo alla memoria, basandosi su fonti precise e, in particolar modo, sulla testimonianza diretta di Giovanni d’Early, persona molto vicina al defunto signore di Pembroke. Giovanni era stato, infatti, il suo fido scudiero che, anche una volta divenuto cavaliere, mai si era separato dal Maresciallo e lo aveva servito per trentun anni, divenendone quasi l’alter ego. Nella canzone del troviero, intitolata “Storia di Guglielmo il Maresciallo, conte di Striguil e Pembroke, reggente di Inghilterra” Giovanni d’Early racconta ciò che ha visto con i propri occhi e ciò che il suo signore gli raccontava, facendo risplendere i ricordi personali di un cavaliere contemporaneo di Eleonora d’Aquitania. E, grazie a questi ricordi, la canzone diviene preziosa testimonianza dell’epoca cavalleresca, nonché la più antica biografia scritta in lingua anglonormanna. Questo testo è fondamentale per la comprensione della cavalleria medievale, perché in esso ne emergono i principi, i tabù, le liturgie, le aspirazioni. Attraverso gli episodi della vita del Maresciallo, infatti, gli storici hanno potuto ricostruire i principi, il costume e l’ideologia di quella società guerriera.
Dalla scarsissima presenza di donne all’interno del poema (solo tre accenni), si intuisce come fosse un mondo maschile, in cui solo gli uomini contavano. Un episodio ci racconta come erano considerate le donne nella mentalità cavalleresca. Guglielmo, seduto nell’erba a riposare, viene svegliato dalla voce di una dama, verso la quale si precipita. Scopre che è accompagnata da un bel monaco, con cui la fanciulla sta scappando. Il nostro cavaliere si preoccupa che abbiano denaro sufficiente e il monaco gli mostra una borsa piena di monete che metterà in rendita in una grande città. Vivranno di usura, dunque! Nel peccato. Guglielmo fa sequestrare i denari e manda al diavolo i due amanti. La morale del cavaliere imponeva di correre al soccorso delle donne nobili di nascita quando erano in pericolo, ma al pari gli vietava di obbligare una donna con la forza; in amore, doveva rispettarne la volontà. Tuttavia, la cavalleria voleva tenere per sé tutte le donne del suo sangue, vietando ai maschi di ogni altra condizione di prenderle. Pertanto, le donne che non rifiutavano l’amore di chiunque non fosse cavaliere, meritavano il rogo, ma il cavaliere non si sentiva in diritto di alzare la mano su di lei o sul suo amante. Questo episodio mostra anche come il cavaliere disprezzasse l’usura (che era bandita dalla Chiesa): l’uomo di qualità guadagnava con la sua audacia, impadronendosi del bottino a rischio della vita e non approfittandosi delle difficoltà altrui.
Il modo in cui Guglielmo reagisce alla calunnia dei congiurati, che lo additavano come amante della regina Margherita, ci mostra come la verità e l’onore fossero più importanti della vita stessa. Egli, infatti, si offrì di andare a duello, di prestarsi all’ordalia, in cui Dio avrebbe distinto il colpevole dall’innocente. Pronto a sfidare i tre campioni più valorosi, avrebbe accettato la pena di morte in caso non li avesse sconfitti tutti. Anche gli uomini, però, non sono tutti uguali. Per il cavaliere contano solo i cavalieri e solo i nobili, soltanto i combattenti designati da Dio.
E i figli dei cavalieri? Contava solo il primogenito, e nemmeno poi molto. Lo capiamo quando il Torniero racconta dei tempi in cui il padre di Guglielmo, Giovanni, osteggiava re Stefano. Durante un assedio, il re chiese una garanzia alle trattative: voleva in ostaggio un figlio di Giovanni. Questi, scelse proprio Guglielmo, il quartogenito, ma ciò non gli impedì di rafforzare le difese, mettendo il figlio in pericolo, che venne minacciato di impiccagione. Come rispose il padre? “Possiedo ancora incudine e martello per farne uno più bello”. Inoltre, i figli dei cavalieri lasciavano presto la casa paterna, per iniziare l’apprendistato, per non farvi più ritorno, ad eccezione dei primogeniti. Intorno agli otto, dieci anni venivano separati dalla madre e da tutte le donne del loro sangue, per essere catapultati in un mondo fatto di cavalcate, scuderie, armi e divertimenti da uomini, in cui il signore diventava il nuovo padre, fino a cancellare la memoria di quello vero. Un padre fittizio che rimarrà tale soltanto fino al termine dell’apprendistato, ossia all’investitura a cavaliere, quando i novelli cavalieri non venivano più mantenuti dal signore, ma dovevano partire alla ricerca del proprio destino. Con la vestizione, il cavaliere diventava uomo e in quel momento iniziavano la libertà e il pericolo. Soprattutto, per i figli cadetti, i quali partivano senza nulla, senza quell’equipaggiamento che il padre forniva al primogenito per far risplendere la casata.
Così, il neocavaliere partiva alla volta del mondo e ciò voleva dire anche andare per tornei. Non tanto per prestigio, come facevano i primogeniti, quanto per guadagnare, per crearsi una possibilità di vita. Vincere. Questo era l’obiettivo di ogni cavaliere, per migliorare l’equipaggiamento, per partire in posizione migliore nei tornei successivi. E ognuno doveva avere il proprio seguito, perché colui che cavalcava senza compagnia faceva la figura del povero o dell’esiliato, in quanto la solitudine, nel Medioevo, era vissuta con dolore, come una penitenza.
E Guglielmo il Maresciallo fu molto abile a diventare, in poco tempo, l’idolo dei tornei, ma fu un episodio di vera battaglia che gli portò la prima grande fortuna. Quando, tornato in Inghilterra, si aggregò alla famiglia dello zio materno, il conte di Salisbury, lo seguì a Poitou, nella scorta della regina Eleonora d’Aquitania. Qui, lo zio fu colpito a morte alle spalle da uno dei baroni ribelli. Tradimento! Il barone aveva infranto due morali: quella del cavaliere, che vietava di non uccidere i cavalieri e, soprattutto, non di spalle, e quella feudale che condannava il vassallo che colpiva il suo signore. L’eroico Guglielmo vendicò il delitto, anche seguendo la morale del lignaggio, che prevedeva di lavare l’offesa arrecata alla sua famiglia nel sangue del nemico. Si lanciò a capo scoperto, contro sessantotto guerrieri armati di spiedi; uccise sei dei loro cavalli, ma fu colpito alla coscia e portato via gravemente ferito. Fu qui che si vide il valore del cavaliere! Non stava giostrando, non aveva agito per la gloria o per il bottino, ma aveva affrontato il male, rischiando davvero la vita. Aveva vendicato lo zio, ma anche il re, di cui il conte era luogotenente. E la regina lo inserì tra i suoi cavalieri.
Ma quali erano le virtù del cavaliere? Erano di tre tipi. La fedeltà. Tenere fede alla parola data, non tradire i giuramenti e porre, davanti a esigenze contrastanti, la fedeltà al diretto signore. La prodezza. Combattere e vincere, conformandosi alle leggi, perché il cavaliere non combatteva come i villici. “Il prode non cerca altra protezione oltre la bravura del suo cavallo, la qualità della sua armatura e la devozione dei compagni del suo rango, la cui amicizia lo protegge. L’onore lo obbliga a mostrarsi impavido, fino alla follia.” La liberalità. Tutto ciò che arrivava nelle mani del cavaliere, lui lo regalava; non teneva nulla per sé, doveva essere generoso. Anche se quest’ultima virtù si scontrava con la realtà che vedeva indispensabile il denaro per l’equipaggiamento che si logorava velocemente, soprattutto per i cavalli che si perdevano nei tornei, che si rovinavano nelle cariche o morivano, così come era necessario al mantenimento del rango. E il cavaliere era logorato, ogni giorno, dall’eterno dilemma: il denaro è indispensabile all’onore, ma l’onore esige di disprezzarlo.
Ma torniamo ai tornei. Guglielmo visse in un periodo in cui il fanatismo per questo sport era al culmine, uno sport che non si praticava ovunque, ma soprattutto in Francia. Il torneo più riuscito fu quello di Lagny, a cui parteciparono tremila cavalieri, ognuno con il proprio seguito, oltre ad alcune compagnie di mercenari di umili origini che, nonostante fossero disprezzati, erano molto usati perché abile nel maneggio di armi ignobili (picche e ganci). I tornei, ai quali non partecipavano i re (a eccezione di Enrico il Giovane), ma che erano organizzati dai baroni, erano annunciati con quindici giorni di anticipo e si svolgevano durante tutto l’anno, con alcune interruzioni dovute alla pioggia (che rovinava usberghi e cotte di maglia) e per la Pasqua, Pentecoste e Ognissanti. Per la diffusione della pubblicità erano fondamentali gli araldi, ossia quei professionisti dell’identificazione dei cavalieri attraverso le insegne araldiche, capaci anche di comporre canzoni con le quali esaltavano i cavalieri e le casate. I giocatori arrivavano al campo di battaglia raggruppati in bande (per i cavalieri erranti) e in corpi (per le grosse casate). I baroni, poi, formavano le due grandi squadre dell’incontro, il quale era preceduto da un mercanteggiare per il reclutamento dei grandi campioni. La partita si giocava in una giornata, in due campi, in campagna. Il campo non aveva limiti precisi, oltre alle lizze, ossia barriere che delimitavano dei rifugi in cui i combattenti potevano riprendere fiato per qualche momento. Vi erano degli ostacoli accidentali, come boschetti, monticelli di terra o granai, che rendevano il gioco più interessante perché utili per tendere imboscate o scappare. Il torneo iniziava quando un gruppo avanzava verso l’altro, cercando di restare il più compatti possibile, perché l’obiettivo era quello di sfiancare e sfondare l’altra squadra. La vittoria, quindi, dipendeva dalla disciplina e dall’autocontrollo, più che dall’impeto. Si giocava solo per l’onore. Ci si andava come in guerra per impadronirsi di armi, cavalli e uomini. Il gioco nel torneo consisteva nel fare prigionieri e il modo migliore era quello di disarcionare l’avversario con un colpo di lancia. Ed era necessario colpirlo alla testa, in quanto ogni cavaliere sapeva tenersi saldamente in sella. Una volta a terra, l’avversario veniva trascinato in spalla (schivando i suoi compagni di squadra che lo difendevano) al margine del campo e la cavalcatura era conquistata. Il torneo terminava quando una delle due squadre era sparpagliata o quando si decideva di smettere e si attribuiva la vittoria ai punti. A questo punto, il torneo diventava una festa: si commentava il gioco, ci si medicava le ferite, si redigeva l’albo d’oro dei giocatori e si distribuiva il bottino; gli araldi sarebbe spettata la pubblicità.
Ma non era il denaro a contare davvero in quella società. Era il potere ad avere importanza. E il potere, quello vero, era esercitato dagli uomini sposati. Dopo la vestizione, ossia la consegna della spada, la nomina a cavaliere (che avveniva dopo i vent’anni), il giorno delle nozze era il secondo vero spartiacque della vita del cavaliere. Se è vero, infatti, che l’uomo valeva molto più della donna, è altrettanto vero che l’uomo non valeva quasi nulla se non aveva una legittima moglie. L’ordine del potere nella società feudale era basato sulla disuguaglianza, sul servizio e sulla lealtà. I gentiluomini erano al di sopra di tutti i laici, ma tra di loro vi erano delle differenze di potere: il capofamiglia dominava sulla casata, il primogenito era favorito rispetto ai cadetti, il signore stava al di sopra di chi gli aveva reso omaggio e i rapporti politici erano basati sulla gerarchia degli omaggi. Questi rapporti, a volte, interferivano gli uni sugli altri e i conflitti erano risolti con l’amicizia reciproca che obbligava a rendersi servigi e ad aiutarsi. In questo modo si manteneva la pace tra pari e impegnava chi stava al di sotto alla reverenza e chi stava al di sopra alla benevolenza. Il matrimonio poteva cambiare le posizioni di potere, proprio come accadde a Guglielmo che, sposando Isabella (che portò in dote ben sessantotto feudi!), passò da semplice cavaliere a barone reale. Questo significò farsi amicizie estese, guadagnare appoggi e mettere le spalle al sicuro da gelosie e rivalità, anche grazie ai matrimoni che combinò per i suoi figli.
Molto probabilmente tutto ciò non lo avremmo conosciuto se Guglielmo il Maresciallo non fosse esistito e suo figlio non avesse deciso di renderlo eterno facendo comporre un poema in suo onore.
“Stanotte sarò io a uccidere il diavolo. Oppure sarà lui a strapparmi l’anima.”
Bari, metà dicembre 1199. Il cavaliere templare Kaspar Trevi arriva a Bari. Il reggente del Regno di Sicilia, Marcovaldo di Annweiler, lo fa convocare per affidargli un’importante missione. Insieme al vescovo di Troia, Gualtiero di Palearia, chiede al monaco guerriero di trovare una donna e consegnarla alla giustizia. Filomena Monforte, fervida sostenitrice di Costanza d’Altavilla, la precedente reggente, è accusata di stregoneria e dell’omicidio del nobile Giuseppe Filangeri. Kaspar non può rifiutare l’incarico, così parte per una lunga e sanguinosa ricerca che lo porterà ad attraversare Bari, Roma e Venezia. Riuscirà nell’impresa?
Questa è la trama del nuovo romanzo di Matteo Stukul, “Tre insoliti delitti”, edito da Newton Compton Editori, un thriller storico cupo che ci porta nei meandri del Medioevo.
Siamo alle fine del XII secolo e il regno di Sicilia è guidato da Marcovaldo di Annweiler. La vedova di Enrico IV di Svevia, Costanza d’Altavilla, è morta da un anno e il nuovo re, Federico II di Hohenstaufen, è solo un bambino. Marcovaldo ne è il reggente, il curatore degli interessi del re infante. Eppure, si comporta come se fosse il legittimo sovrano. E proprio per questo, insieme a Gualtiero di Palearia, vescovo di Troia e Gran Cancelliere del Regno di Sicilia, suo braccio destro, vuole assicurarsi che la legge venga rispettata. In questo contesto storico, l’autore fa partire l’avventura del protagonista, un personaggio di fantasia dalle splendide tinte gotiche.
Mescolando, così, con maestria personaggi realmente esistiti e personaggi inventati, in un contesto preciso e fedele, l’autore ci porta dentro a un’avventura avvincente. Una lotta contro il tempo, intrisa di sangue e mistero, in cui un ruolo primario è dato alla figura di San Nicola, e che racconta il Natale in chiave medievale. Una storia in cui Strukul non manca di sottolineare la condizione della donna nel Medioevo, l’alone di sospetto che le circondava, la debolezza della loro posizione, facilmente attaccabile con qualsiasi pretesto. Un romanzo che intreccia il genere cavalleresco, la religione, la mitologia e la demonologia; in cui la fantasia si fonde in modo perfetto con la Storia, con un protagonista forte e impavido, giusto e leale, che incarna l’archetipo dell’eroe. Pregevole è, poi, il modo in cui l’autore ricrea le atmosfere delle città. In particolare, l’affresco della Roma medievale di papa Innocenzo III è stupefacente.
“Tre insoliti delitti” è una cupa novella in cui ritroviamo tutti gli elementi del mondo medievale. Cavalieri, streghe, castelli, duelli, delitti e intrighi prendono vita in un’atmosfera lugubre che si fonde con quella del Natale. Una lettura perfetta per tutti gli amanti del Medioevo e dell’avventura. Un romanzo in cui ritroverete il Natale come nessuno lo ha mai raccontato.
“Perché Francesca, ne era certo, rappresentava per lui un pericolo. E con la sua avvenenza, l’avrebbe portato all’Inferno.”
Ravenna, seconda metà del Duecento. Il guelfo Guido da Polenta, finalmente, riesce a sconfiggere i suoi acerrimi rivali, i Traversari e, con un colpo di mano, conquista Ravenna, divenendone podestà. Determinante nella vittoria, è l’aiuto della cavalleria di Giovanni Malatesta, figlio di Malatesta da Verucchio, signore di Rimini. E Giovanni, il suo ruolo in quella vittoria, vuole farlo valere. Non vuole terre né denari. Solo una cosa ha in mente: la bella figlia del da Polenta, la giovane Francesca. Come può Guido rifiutare un tale partito per la sua terzogenita? Ben disposta ad assecondare il volere di quel padre al quale è così tanto legata, Francesca sposa Giovanni per procura. Al suo posto, alla celebrazione presenzia il bellissimo fratello dello sposo, Paolo Malatesta.
Ha inizio così la vicenda di uno dei più celebri amori della Storia, la cui memoria è arrivata fino a noi grazie a Dante Alighieri. L’amore imperituro tra Paolo e Francesca, celebrato nel nuovo romanzo di Matteo Strukul, edito da Nord Sud Edizioni.
Una fanciulla forte e fiera, istruita, coraggiosa eppure avveduta. Un amore traditore, nato per caso ed esploso per passione. Due anime impegnate, ma incapaci di sottrarsi l’una all’altra; due cuori incatenati da un beffardo incantesimo d’amore. Francesca è indipendente, intelligente e lungimirante, colta e coraggiosa, consapevole del suo ruolo nel mondo degli uomini, vive il suo matrimonio cercando di rinnegare il sentimento che prova per Paolo. Paolo, cavaliere senza macchia, è pronto a difendere a fil di spada la donna che ama oltre ogni ragionevole convenienza, brama di una passione malcelata, che lo divora fin nel profondo. Due giovani che hanno creduto di poter ingannare la mentalità del loro tempo e le insidie di una corte. Due giovani, però, che hanno avuto l’audacia e la sfrontatezza di avventarsi contro il destino avverso. Due anime affini e complementari, due corpi e un solo, unico cuore. Eppure, ogni corte, grande o piccola che sia, pullula di pericoli, invidie, gelosie, spie. Soprattutto per una donna forte e indipendente, con un grado di istruzione che fa paura ha chi quell’istruzione non ce l’ha. E che segna, in modo ineluttabile, la vita della giovane Francesca.
Nel narrare questo amore, Strukul ci porta a comprendere la mentalità dell’uomo medievale, i suoi valori e le sue consuetudini. Un viaggio che permette al lettore di provare un briciolo di empatia con Giovanni Malatesta. Quello che brucia in lui non è tanto il tradimento della moglie, quanto quello dell’amato fratello, la ferita nell’orgoglio e nella dignità, il legame di sangue reciso. Giovanni dall’animo brutale e guerriero, provato dalla vita, che lo ha menomato nel fisico inasprendone il cuore. Roso da un amore non corrisposto, che colma con l’ira e con il distacco il suo senso di inferiorità nei confronti di una moglie che troppo è per lui.
Paolo e Francesca tornano a vivere tra le pagine di questo romanzo emozionante e struggente, denso di sentimenti e di Storia. La prosa fluida è così romantica da dare l’impressione di leggere uno dei manoscritti cavallereschi che tanto amava la protagonista. Il modo in cui Strukul dipinge le scene è poetico, delicato e potente allo stesso tempo e, a ogni pagina, sorprende come riesca a creare immagini sublimi e precise. Il modo in cui gioca con le parole è magistrale.
“Nei suoi occhi, sospettosi per natura, albergava anche la cupidigia più fine, depositata sul fondo acquoso delle iridi come sabbia, pronta a intorbidire lo sguardo non appena qualcuno l’avesse agitata.”
“Amor, c’ha nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’abbandona” diceva Dante nel V canto dell’Inferno. Un amore che non abbandona Francesca nemmeno tra le spire della dannazione. È proprio quello che Matteo Strukul ci regala in questo romanzo. Un sentimento così forte da vincere la morte e la paura, che non abbandona mai, nemmeno per un solo istante, e resta vivo fino alla fine i due giovani amanti.
“Per un’ultima volta voleva abbandonarsi a lui e lasciarsi amare in quel modo tutto suo, come se si fosse trattato della fine del mondo. Come se non esistesse un domani. Come se quel momento fosse l’ultimo rimasto al genere umano e loro rappresentassero due anime sopravvissute troppo a lungo, due creature che avevano rubato il filo delle parche.”
“Paolo e Francesca” è un romanzo che celebra l’amore, quello che divora il cuore, che brucia l’anima. Quello rinnegato, osteggiato, ma impossibile da estinguere. E, pur conoscendo a fondo la storia di Paolo e Francesca, è un libro che si divora.
Milano è una delle più importanti città del mondo; per secoli, è stata uno dei ducati maggiori d’Italia. Tutti conosciamo la sua celebre e bellissima Piazza del Duomo, il Castello Sforzesco o piazza dei Mercanti. Ma com’erano questi luoghi in epoca medievale?
Per raccontare l’aspetto del centro di Milano nel Basso Medioevo e capirne lo sviluppo, dobbiamo fare un lungo viaggio nel tempo, fino all’XI secolo, quando la città era sotto il dominio dell’Imperatore Federico I, detto il Barbarossa. In quel momento storico, il comune di Milano non esisteva ancora. Infatti, il governo del territorio spettava all’Imperatore. Ciò nonostante, l’Arcivescovo, seppur sprovvisto dei diritti comitali (ossia dei diritti di governo derivanti dalla nomina, da parte dell’imperatore, a capo di un territorio), godeva di fatto di una grande autorità che gli permetteva di reggere la città e di esserne riconosciuto come unico signore. L’Arcivescovo, però, si occupava soltanto delle questioni di grande importanza, lasciando gli affari di ordinaria amministrazione ai suoi vassalli, i capitanei, che appartenevano all’aristocrazia feudale. Pertanto, il governo della città era affidato anche a un consiglio di cittadini (i consoli) del quale, con il passare del tempo, entrarono a far parte anche i valvassori e i cives, ossia gli appartenenti alle ricche famiglie di origine non feudale, dediti alle libere professioni, come notai, mercanti o giudici. Questi cittadini, grazie alla copertura giuridica dell’Arcivescovo, iniziarono a governare, seppur in modo provvisorio e illegale, e lo facevano dal “consolato dei cittadini”, ossia il luogo dove si riunivano questi rappresentanti del nuovo regime comunale, ormai pratichi delle competenze di governo civico apprese nella curia.
Dove si trovava questo luogo? Ovviamente, nei pressi dell’Arcivescovado, ossia in quella che oggi è Piazza del Duomo. All’epoca, in quell’area si trovavano due cattedrali, ognuna con il proprio battistero: quella di Santa Maria Maggiore (la cattedrale invernale), posta all’incirca nel punto in cui oggi sorge il Duomo, anche se era molto più piccola, e quella di Santa Tecla (la cattedrale estiva), che sorgeva sul lato opposto della piazza (il lato che, oggi, dà verso Piazza dei Mercanti) ed era molto più grande dell’altra. Ecco, il “consolato”, si trovava proprio presso Santa Maria Maggiore. Ma perché in questo luogo? Il motivo è semplice: questo era il centro della vita cittadina. Qui si trovavano banchi e botteghe di mercanti e artigiani e, a ridosso delle due chiese e della curia, vi erano la pescheria, il macello e il mercato pubblico di generi alimentari e di altri prodotti di uso comune. Dove ora trovate l’immenso Duomo, nell’XI secolo, avreste potuto comprare della verdura, scegliere merci sui banchi disposti lungo i vicoli, sentire il suono degli zoccoli dei cavalli. Poco più là nel tempo, all’inizio del XII secolo, i consoli fecero costruire delle tribune in un prato, detto “brolo”, sito vicino all’Arcivescovado. Da questo termine, che significa appunto “prato” deriverà il termine “broletto”, con il quale sarà chiamato, più avanti, il palazzo del comune.
Resti del battistero di San Giovanni
Ad ogni modo, i rappresentanti dei cittadini iniziarono, così, a sganciarsi della copertura dell’Arcivescovo, fin quando in seguito alla Pace di Costanza del 1183 (con la quale terminò il lungo conflitto tra l’Imperatore e la coalizione di comuni lombardi, detta Lega Lombarda), il Barbarossa concesse ai comuni alcuni diritti di spettanza regia, tra i quali il diritto di battere moneta, di riscuotere tasse e tributi, di amministrare la giustizia e di darsi delle leggi. Da questo momento, i comuni furono legittimati a governarsi da soli. Fu così che qualche anno dopo, tra il 1188 e il 1193, non lontano dalle cattedrali, iniziò a crearsi la sede del potere civile della città. Infatti, nel luogo in cui oggi ammiriamo Palazzo Reale, fu edificato il Broletto Vecchio (o Arengo), chiamato così per distinguersi da quello nuovo che vide la luce da lì a qualche anno. Fino al 1228, questo edificio fu la nuova sede dei consoli, i quali si spostarono in seguito nel Broletto Nuovo, di cui parleremo tra poco. L’Arengo, però, non venne abbandonato del tutto. Divenne, infatti, la sede del potere visconteo quando Matteo Visconti, divenuto Signore di Milano per aver sconfitto i Della Torre nel 1287, vi si insediò. Da questo momento, l’Arengo divenne il palazzo della Signoria, in cui vissero ed esercitarono i propri poteri tutti i duchi di Milano, fino a Galeazzo Maria Sforza che si trasferì nel Castello di Porta Giovia (ossia il Castello Sforzesco).
Palazzo Reale
Ma torniamo in epoca comunale. Nel 1228 il comune si trasferì poco lontano, oltre la cattedrale di Santa Tecla, in quella che oggi è la Piazza dei Mercanti. Dopo aver espropriato alcuni terreni, qui venne costruito un quadrilatero a portici chiuso, a cui vi si accedeva attraverso sei valichi, posti in corrispondenza delle sei porte della città, dalle quali prendevano il nome, a loro volta, i sei sestieri in cui era divisa. Innanzitutto, fu costruito il Palazzo della Ragione (ancora visibile), formato da un solarium, ovvero un piano superiore in cui si radunava il Consiglio generale del comune, e da un portico aperto in cui si svolgevano i commerci, si radunava il popolo e si assisteva alla vita politica della città. Da questo momento, il Broletto nuovo divenne il centro cittadino, in cui si svolgevano le esecuzioni nobiliari, alloggiava il podestà, si pronunciavano le sentenze di morte o le pene esemplari, venivano esposti i cadaveri dei nemici come monito per la popolazione. Ma anche il luogo in cui si mercanteggiava, si facevano affari e ci si divertiva. Qui avreste potuto vedere banchi dei cambiavalute, botteghe affollate con domestici dai panieri colmi, avreste potuto leggere i bandi esposti nella Loggia degli Osii, oppure avreste potuto assistere agli ultimi giorni di vita di un condannato richiuso in una gabbia appesa ed esposta agli eventi atmosferici.
Palazzo della Ragione
La Loggia degli Osii (tutt’ora visibile) era il luogo in cui si riunivano i consoli di giustizia All’inizio del Trecento, Matteo Visconti abbellì la facciata con gli stemmi del Comune e le insegne dei quartieri e fece aggiungere un balcone dal quale venivano proclamati bandi e sentenze (entrambi ancora visibili).
Loggia degli Osii
Qualche anno più tardi, furono terminate la Casa del Podestà e le Carceri da lui governate (entrambe non più esistenti e che si trovavano sul lato che dà verso Piazza del Duomo), che si aggiungevano alle altre nove della città. Ma chi era il podestà? Nei primi anni del comune, ai consoli, ossia coloro che gestivano gli interessi della città e amministravano la giustizia, si affiancarono due associazioni di cittadini liberi interessati a gestire gli interessi pubblici: la Motta, formata da mercanti (che avevano acquistato un grande peso nella società cittadina), piccoli nobili e proprietari fondiari, e la Credenza di Sant’Ambrogio, formata invece dai membri delle classi borghesi e popolari, soprattutto artigiani e bottegai, volta alla tutela dei diritti della classe lavoratrice. Questa coesistenza di voci portò inevitabilmente a frequenti contrasti tra le parti che dovevano essere, in qualche modo, risolti. A questo scopo, nacque la figura del podestà, un esperto di leggi forestiero che non abolì le strutture amministrative del comune, ma si mise a capo di esse per gestirne affari e interessi. Alla fine del XII secolo, il governo consolare si avviò alla decadenza, sostituito quindi da quello podestarile.
Negli stessi anni in cui si terminò la casa del podestà, fu costruito anche il palazzo della Credenza di Sant’Ambrogio (dove poi fu costruito il Palazzo dei Giureconsulti, tutt’ora visibile, voluto da Pio IV de’ Medici nel Cinquecento), sul lato opposto a quello della Loggia degli Osii. Da questa associazione, emerse Napo Torriani, che si impossessò a titolo perpetuo della carica di anziano della Credenza, attuando così il controllo della famiglia della Torre su Milano, instaurando la prima forma di governo signorile. E, nel 1272, fece erigere nel Broletto una torre (poi inglobata nel Palazzo di Giureconsulti), che divenne la torre civica della città, in sostituzione della precedente, quella dei Faroldi sul lato opposto della piazza.
Palazzo dei Giureconsulti
Sullo stesso lato della Loggia degli Osii, Azzone Visconti fece costruire un portico destinato alle operazioni commerciali e di banca, che poi divennero le Scuole Palatine nel Seicento (tutt’ora visibili). Dall’altro lato della Loggia, nello stesso periodo, il podestà Beccaria, fece costruire il Portico della Ferrata, uno spazio chiuso da inferriate in cui si tenevano le aste dei beni dei mercanti falliti.
Scuole Palatine
Nel Quattrocento, inoltre, venne costruito il Palazzo della Congregazione dei Mercanti, che ospitava l’ufficio degli statuti, la cui mansione era la registrazione e la trascrizione dei decreti ducali. Questa casa venne poi chiamata Casa dei Panigarola (tutt’ora visibile), dal nome della famiglia gallaratese che svolse questo compito fino al Settecento.
Casa dei Panigarola
Il Broletto, quindi, oltre a essere luogo di incontro per la popolazione, era il luogo del potere civile e della giustizia, dove sedevano i tribunali dei giudici del podestà e di tutti gli altri giudici di Milano, compresi quelli del consolato dei Mercanti. Qui la giustizia veniva anche custodita e comunicata al popolo attraverso l’affissione di sentenze scritte e liste di bandi, prima alla Casa del Podestà e poi alla Loggia degli Osii. Inoltre, ospitava cicli delle cosiddette “pitture infamanti”, che raffiguravano i condannati in contumacia, esposti all’onta della vergogna pubblica. E la giustizia veniva anche eseguita nel Broletto, perché venivano eseguite le punizioni esemplari, dalle condanne capitali alla gogna. Ma era anche il centro delle contrattazioni e di scambi di alto livello, data la presenza dei banchi dei notai, dei cambiatori, del mercato del grano e delle riserve di sale. Era l’espressione del potere comunale e non signorile, e fu per questo motivo che i Visconti, divenuti signori, si trasferirono all’Arengo.
Quanto, invece, al Castello Sforzesco, non era presente in epoca comunale. In quel periodo, infatti, lì dove ora sorge il castello avreste trovato una pusterla, ossia una porta minore: la pusterla Giovia. A metà del Trecento, questa fu inglobata nel Castello di Porta Giovia, costruito a cavallo delle mura, per volere di Galeazzo II Visconti. Il castello venne distrutto nel periodo della Repubblica Ambrosiana (ossia dopo la morte dell’ultimo duca Visconti, Filippo Maria, a metà del Quattrocento), ma poi fatto ricostruire pochi anni dopo dal duca successivo, Francesco Sforza.
Il centro di Milano, così come è stato descritto finora, era racchiuso in una cinta muraria, costruita dopo l’assedio del 1162 a opera del Barbarossa, che rase al suolo la città, distruggendo anche le mura precedenti. L’accesso avveniva attraverso sei porte e undici pusterle, ossia piccole porte di accesso ai camminamenti per le guardie di ronda che potevano essere usate come uscite o ingressi di emergenza in caso di assedio. Volendo semplificare in modo estremo, possiamo dire che Milano era divisa in sei sestieri, ossia in divisioni a spicchio che avevano il centro nel Broletto e che sviluppavano in direzione delle porte. Al centro, vi era la piazza con le due basiliche, l’Arengo e il Broletto nuovo; oltre al centro si sviluppavano le contrade (che formavano i sestieri) fino alle mura. Oltre ad esse, vi era il contado.
Ma cosa potete vedere di questi edifici oggi? In realtà, non molto. Per quanto riguarda Piazza del Duomo, nel percorso sotterraneo della cattedrale, è possibile visitare l’area archeologica con i resti del battistero di San Giovanni (quello di Santa Maria Maggiore) e della basilica di Santa Tecla. In piazza dei Mercanti, se vi ponete con le spalle al Palazzo della Ragione (quello al centro) e girate in senso orario, potete vedere la Loggia degli Osii, le Scuole Palatine, la casa dei Panigarola e il palazzo dei Giureconsulti con la torre. Quanto alle porte e alle pusterle di epoca medievale, rimangono soltanto l’Arco di Porta Ticinese e gli Archi di Porta Nuova. Invece, la pusterla di Sant’Ambrogio (che si trova accanto alla basilica omonima) non è di epoca medievale, ma è stata ricostruita, seppur fedelmente, nel 1939.
Dopo avervi raccontato qualcosa della Milano comunale, non mi resta che darvi qualche consiglio di lettura. Se volete assaporare in modo vivido l’atmosfera della città in epoca medievale, vi suggerisco “Il filo di luce” di Valeria Montaldi, edito da Rizzoli. La competenza dell’autrice nella ricostruzione dell’ambientazione e del contesto storico è in grado di catapultarvi nel modo dei setaioli milanesi del Quattrocento e di farvi vivere quella città che vi ho descritto in questo articolo. Il secondo romanzo che vi consiglio è “L’eroe di Milano” di Andrea Frediani, che ambienta la vicenda di due ragazzi, Alberto da Giussano e Alberto da Cairate, nel periodo del conflitto tra il Barbarossa e la Lega Lombarda. Una lettura perfetta per chi voglia approfondire il periodo dei Comuni.
“La mattina successiva, all’alba, Farinata degli Uberti confermò ai capitani dei sesti il piano di battaglia e le disposizioni comunicate la sera precedente. Scambiò, com’era loro abitudine prima di un combattimento, un ultimo cenno di saluto con Neri, come reciproco augurio di buona fortuna e addio, quindi passò in rassegna l’esercito schierato in ordine di battaglia. Giunto di fronte al gonfalone della città, si inchinò e ne baciò un lembo. Poi, con voce alta e sicura, salutò gli uomini prima del combattimento. «Soldati! Noi siamo il popolo della gloriosa Firenze. Oggi e sempre, mostriamoci degni di questo onore». I soldati, sguainata la spada e sollevatala al cielo, risposero al capitano levando all’unisono il grido di guerra dell’esercito del Giglio: «San Giovanni!». Tutta la valle ne risuonò. Gli stessi senesi, asserragliati dentro le mura, lo udirono con raggelante chiarezza.”
È il 1216 quando il racconto de “Il cavaliere del giglio” ha inizio. Nella Firenze dei guelfi e dei ghibellini, Carla Maria Russo ci racconta la vita di un uomo straordinario, un cavaliere valoroso, Farinata degli Uberti. Firenze è governata dai guelfi, fedeli a papa Innocenzo III, ai quali si oppone il partito ghibellino, che supporta l’imperatore Federico II. Ha dodici anni, Farinata, ultimo figlio di una delle più importanti famiglie ghibelline di Firenze, ma già mostra il carattere che farà di lui uno dei più gloriosi cavalieri della città. Iniziato alla carriera militare in giovanissima età, Farinata dimostra di un coraggio e un’abilità senza pari. Bellissimo, gentile, leale e dal cuore nobile, prudente ma audace, umile ma autorevole, astuto e intelligente. Un soldato dall’impareggiabile valore militare, dalla grande rettitudine morale e dal forte senso dell’onore. Un capitano vittorioso con un’indomabile fierezza e un immenso senso dell’onore, caratterizzato dallo sconfinato amore per la patria.
“Il capitano Farinata non si sarebbe mai tenuto al di fuori della mischia, limitandosi a seguire l’azione dalla cima del colle più vicino: avrebbe condiviso con i suoi commilitoni ogni istante della battaglia e combattuto in prima fila, davanti a tutti. Per sapere cosa fare, bastava seguirlo.”
Con la sua prosa impeccabile e coinvolgente, l’autrice ci porta all’origine della faida tra le fazioni guelfa e ghibellina, accompagnandoci nelle guerre e nelle battaglie, mostrandoci in modo chiaro e preciso questi scontri. Un torto subito, un matrimonio per riparare all’errore, una promessa infranta, un omicidio d’onore: questi sono gli ingredienti che trascinano Firenze nel vortice delle lotte tra fazioni opposte. Carla Maria Russo ci mostra come da una faida tra famiglie rivali si scatena una guerra tra schieramenti all’interno della città e quanto questa divisione si rifletta anche sulle altre città. L’impero contro il papato: guelfi e ghibellini, fedeli sostenitori di papi e imperatore, in precario equilibrio, sempre a un passo dalla guerra per la lealtà a un’entità superiore. Come su una bilancia, in cui la tensione aumenta quando un piatto si alza in favore dell’altro; ciechi obbedienti, sordi alle ragioni della pace, uomini d’onore senza timori, solo la prevalenza della fazione di appartenenza ha importanza. Casati in lotta, faide intestine che offrono il fianco ai nemici esterni; lotte tra singole famiglie che degenerano in guerre tra fazioni avverse. Una città sempre sull’orlo della guerra civile, che scoppia a tratti, portando distruzione e miseria; una popolazione che subisce le conseguenze delle azioni di uomini incapaci di agire per il bene della gloriosa Firenze.
Fondamentale nella vita del giovane cavaliere è il ruolo del grandioso nonno, Schiatta degli Uberti. “Abbiamo un debito verso gli antenati che ci hanno consegnato un nome onorato di cui andare fieri. E un dovere verso i posteri: non infangarlo e consegnarlo a loro intatto e ancora più grande”. Questo gli ha sempre ripetuto nonno Schiatta e di questo motto Farinata ne ha fatto una ragione di vita, insieme alla ferrea volontà di anteporre il bene di Firenze all’orgoglio e al tornaconto personale. Fedeltà all’Impero e a Firenze, all’Aquila e al Giglio, due fedi immensamente profonde nell’animo di Farinata. Così come è importante il bellissimo rapporto con il fratello maggiore Neri, che tanto ricorda quello tra altri due straordinari esponenti della politica fiorentina: Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Due giovani belli ed eroici, modelli di virtù cavalleresche, che sono braccio e cuore l’uno dell’altro, la cui nobiltà dell’animo è pari a quella del loro lignaggio. “Tra di noi deve valere il patto di sempre. Se uno dei due dovesse cadere nella trappola, l’altro deve salvarsi.” Uniti da un legame forte, fatto di sangue, onore e cuore. Troviamo poi, il commovente amore tra Neri degli Uberti e Gemma di Ranieri Zingane dei Buondelmonti: un ghibellino e una guelfa, uniti dal cuore ma divisi dall’onore della famiglia.
Tanta Storia, in questo romanzo, riportata con precisione e competenza, ma anche molti sentimenti ed emozioni, come solo la penna di Carla Maria Russo riesce a restituirci, con quel suo modo di raccontare forte e dolce allo stesso tempo, dal sapore di una novella narrata da un cantastorie.
Un romanzo intenso e appassionante, oltreché istruttivo, che permette al lettore di calarsi nella mentalità dell’uomo medievale e di comprendere i meccanismi della rivalità tra le due fazioni politiche, mostrandoci una parte della storia di Firenze. Tra assedi, battaglie, amori, congiure e tradimenti “Il cavaliere del giglio” è un libro che dovrebbe essere letto a scuola.
P.s. Se ne avete la possibilità, leggetelo ascoltando l’intero album “I Medici” di Paolo Buonvino. È una colonna sonora perfetta per questo libro denso di Storia.