Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Terzo appuntamento: Giovanni Acuto e i condottieri medievali.

Per i figli cadetti nati nell’Inghilterra di inizio Trecento, in un’epoca che non era più quella della cavalleria di Guglielmo il Maresciallo, la strada più comune era quella delle armi. Dovevano imparare il mestiere del soldato, iniziando come scudieri, paggi o soldati di condottieri e aspettando di mettersi in mostra in qualche occasione per diventare uomini d’arme. Da questo momento potevano mettersi sul mercato, arruolare soldati e mettere la loro spada al servizio del miglior offerente.

Ed è ciò che fece John Hawkwood, ribattezzato Giovanni Acuto dai fiorentini, colui che divenne uno straordinario condottiero per moltissimo tempo al soldo della Signoria di Firenze. Quando iniziò la sua carriera, era in corso la Guerra dei Cent’anni, tra Inghilterra e Francia. È proprio in Francia, dai primi anni Quaranta del Trecento, che Giovanni combatté, terminando il suo apprendistato. Ma nel 1360 finì la prima parte della guerra e iniziò un periodo di pace, in cui i soldati dovettero riorganizzarsi per sopravvivere.

Nel frattempo, la struttura dell’esercito basato sulla fedeltà vassallatica e incentrato sulla cavalleria era entrato in crisi. Già nel Duecento, in Inghilterra i vassalli rifiutavano la dignità cavalleresca per non essere tenuti agli obblighi militari. In Francia, invece, i vassalli seguivano il signore solo entro in confini del feudo; oltre questo limite esigevano si essere rimborsati di tutte le spese. In Italia, soprattutto nelle zone in cui i Comuni crescono più velocemente, le compagnie cittadine (formate in prevalenza da cittadini che avevano più confidenza con gli strumenti dei loro mestieri che con le armi) non erano sufficienti a condurre guerre di conquista. Per questo, le milizie vennero integrate con soldati di professione. E questa professione poteva essere una soluzione per tanti, soprattutto durante la crisi economica di fine Duecento. Fu in questo contesto sociale che i soldati come Giovanni facevano fortuna, formando bande di soldati-avventurieri (mercenari), pronti a offrire il proprio lavoro a quanti avessero bisogno di soldati. Quella a cui Hawkwood si unì era la Compagnia Bianca.

I soldati di professione erano presenti negli eserciti già in pieno Medioevo, dove venivano ingaggiati con contratti a termine che si concludevano nel momento in cui finiva la guerra per cui erano stati assunti. In Italia, a loro ricorrevano i Comuni e il podestà, che aveva bisogno di una forza di polizia stabile. Un’accelerazione al fenomeno lo diedero le vicende dei guelfi e dei ghibellini nella seconda metà del XIII secolo. Ovviamente, ciò non significa che gli eserciti erano formati solo da mercenari, però erano loro a fare la differenza. Ad essi ricorrevano anche i sovrani d’Europa che, fino al Duecento, assoldavano il singolo uomo con i suoi collaboratori, mentre dalla metà del secolo si avvalsero di un tecnico, il conestabile, per trovare le truppe. Egli reclutava contingenti che oscillavano tra i venticinque e i cento soldati, per poi passare a intere compagnie di centinaia di uomini nel Trecento. Un altro fattore che contribuì a professionalizzare i soldati fu l’introduzione di nuove armi, l’arco e la balestra, che richiedevano una specializzazione nel loro uso e che trasformarono le tecniche di combattimento. Infatti, fino a quel momento i cavalieri (che costituivano la maggioranza degli eserciti) avevano dovuto difendersi solo dai colpi ravvicinati di spada, mazza e lancia, mentre ora dovevano riorganizzare le armi di difesa per le frecce che arrivavano da lontano e avevano una diversa capacità di perforazione. Questo comportò l’inspessimento di scudi e corazze, la formazione di una leva più robusta e una forma di combattimento più lenta.

La figura centrale della compagnia era il condottiero, ossia il comandante, al quale i soldati erano legati da vincoli di dipendenza, ma anche di fiducia e fedeltà. Era il condottiero (che, nella maggior parte, proveniva da famiglie aristocratiche) a reclutare i guerrieri, ognuno con il proprio reparto di armati. Sul loro operato, vigilava colui che li aveva ingaggiati, ossia il signore o un organismo apposito, come gli Ufficiali della Condotta a Firenze o i Savi della Terraferma a Venezia. Spesso il soldato mercenario è ricondotto a stereotipi, che però sono da rivedere. Primo fra questi, l’immagine dei soldati che, nelle città in cui passano, lasciano solo tracce sgradevoli. Ciò non era sempre vero, in quanto molti di loro si legavano alle città nelle quali passavano più tempo, ad esempio sposando ragazze del posto o facendo erigere chiese. Un altro stereotipo è quello del rapporto tra soldati e popolazione locale, le cui testimonianze sono sempre negative, come i soldati di Francesco Sforza che avevano l’abitudine di mangiare e bere senza pagare nelle osterie. Ma la presenza di un esercito significava anche circolazione di denaro e, soprattutto, guadagno sicuro per chi prestava loro soldi. Spesso i soldati finivano nel giro dell’usura oppure impegnavano armi e cavalli per avere contante. Inoltre, alcuni di loro investivano i guadagni presso uomini d’affari locali. Pertanto, nonostante sia indubbio che tra le file degli eserciti ci fossero uomini di bassa moralità e delinquenti abituali, la figura del soldato di professione non può essere ricondotta a stereotipi assoluti.

Ma come era strutturata una compagnia? Iniziamo col precisare che, nel momento in cui il condottiero accettava la condotta, non sempre aveva a disposizione gli uomini necessari. Doveva quindi procedere con l’arruolamento che poteva avvenire contattando soldati con cui aveva già combattuto, con l’unione a compagnie più piccole guidate da altri condottieri, con l’arruolamento per strada oppure ancora convincendo mercenari prigionieri di altre compagnie o sottraendo soldati al nemico in difficoltà economica. Detto ciò, la compagnia era formata da un insieme di piccole cellule. Un esempio utile è quello della compagnia di Michelotto degli Attendoli, della prima metà del Quattrocento. Vi erano 561 lance, che corrispondevano a 1129 combattenti e 561 paggi, e 104 cavalli (ossia singoli combattenti), per un totale di 1229 cavalieri, integrati da 177 fanti. Questo contingente era diviso in 87 squadre eterogenee e ognuna di esse era divisa in gruppi di lance, per un totale di almeno 167 uomini di comando (quindi un comandante ogni 6 uomini). Oltre agli uomini d’arme, la compagnia era formata anche da amministratori e contabili, necessari per amministrare le spese anticipate che il condottiero si accollava per l’equipaggiamento dei suoi uomini. Inoltre, vi era la casa, formata dai più stretti commilitoni e dai famigli del comandante, i quali, però, non seguivano gli spostamenti della compagnia, ma operavano in una sede fissa. Invece, si spostavano con i soldati tutte quelle figure che servivano a garantire un livello di quotidianità accettabile alle truppe: servi, cuochi, buffoni, medici, religiosi, prostitute, barbieri, sellai, mulattieri, corrieri, garzoni di stalla, fornai, ecc. Il comandante aveva, inoltre, giurisdizione piena sui suoi uomini (legibus soluti), sui quali amministrava la giustizia, con premi e punizioni. Quindi, ad eccezione di qualche rara occasione, non erano le magistrature della signoria committente a far valere la legge tra i soldati.

Uno dei problemi più fastidiosi per chi ingaggiava le compagnie era il loro costo, molto ingente, che spesso veniva sostenuto grazie all’introduzione di nuove tasse. Infatti, chi si rivolgeva ai mercenari, in genere, si impegnava a corrispondere la paga in denaro e gli anticipi per cavalli, armi e armature, a indennizzare i cavalli morti o feriti e a riscattare eventuali prigionieri. Ma in Europa del Duecento Trecento e Quattrocento, i mercenari erano indispensabili. È interessante osservare, ad esempio, i patti del 1390 tra Giovanni Acuto e Firenze per capire come funzionasse il loro ingaggio. Essi prevedevano una ferma annuale, con diritto di opzione per un altro anno; il condottiero si impegnava a svolgere le operazioni di guerra e una serie di servizi di guardia e sicurezza in città. Alla fine della condotta, il comandante prometteva di non combattere contro Firenze per due anni in proprio o per sei mesi al servizio di un altro capitano (clausola comune, ma spesso non rispettata). Una forma di ingaggio che si sviluppò nel Trecento, è il soldo d’attesa: in tempo di pace, i soldati ricevevano una paga ridotta ma si tenevano a disposizione in caso di necessità. Durante l’attesa, il condottiero era libero di far combattere i suoi soldati per altri committenti fino a che non fossero richiesti dal primo. Quanto alla durata dell’ingaggio, inizialmente era prevista per qualche mese, per poi allungarsi a un anno di ferma con un anno di rinnovo, sviluppando il fenomeno per il quale, molto spesso, i condottieri si legavano allo Stato che li aveva ingaggiati. Il soldo era ovviamente integrato dal bottino, dato che i soldati avevano libertà di commettere ruberie, estorsioni e chiedere riscatti. Alle paghe (che poteva essere sostituita, in caso di difficoltà del committente, da altri generi, come stoffa, sale, gioielli…), inoltre, si univano spesso privilegi, come esenzioni fiscali o lasciapassare.

Come combattevano le compagnie? Tra Duecento e metà Trecento in Italia, si usavano i corpi di cavalleria, fanti e balestrieri. Fanti e balestrieri formavano il reparto d’appoggio per la cavalleria, decisiva per lo scontro, che in genere consisteva in una serie di urti successivi di cavalieri. Nel Trecento, però, le modalità di battaglia si modificarono, dando sempre più spazio alla fanteria, che smise di essere carne da macello per diventare un reparto decisivo. Ma, durante le battaglie, mercenari erano davvero spietati? La risposta è no. Erano feroci e spietati con le popolazioni che subivano i loro soprusi, ma contro i nemici si dimostravano coraggiosi e determinati, mai spietati. E ciò perché quei professionisti nemici sarebbero potuti diventare loro alleati o parte della stessa compagnia. Pertanto, il nemico doveva essere sconfitto ma non distrutto, perché i soldati erano una risorsa da gestire nel migliore dei modi.

Come detto in precedenza, alla fine del Trecento le compagnie iniziarono a cambiare, in quanto si legarono sempre più agli Stati. Ma anche la figura del condottiero cambiò, che da avventuriero si trasformò in gentiluomo. Questo avvenne anche perché spesso i condottieri ricevevano come pagamento la concessione di terre su cui, in alcuni casi, esercitavano una signoria. Un bel modo per trasformare i condottieri in fedeli sudditi del signore che li aveva ingaggiati.

Giovanni Acuto proprio il prototipo di questo cambiamento.

Il contesto italiano nel quale approdò a Firenze era caratterizzato da un’estrema dinamicità politica, soprattutto al centro-nord, dove le protagoniste erano Verona, Milano e Venezia. La politica aggressiva del signore di Verona, Mastino della Scala, preoccupava Venezia che nel 1363 stipulò un’alleanza con Firenze. Ma quando Giovanni Visconti, signore di Milano, conquistò Bologna, Firenze iniziò a consolidare la sua posizione in Toscana. Ma la minaccia del pericolo derivante da Milano non fece passare in secondo piano le rivalità tra le città toscane e quando Pisa, nel 1365, chiuse il porto ai fiorentini si aprì una ghiotta occasione per i soldati in cerca di ingaggio. Quando la Compagnia Bianca arrivò in Toscana, fu contesa tra Pisa e Firenze. Il comandante scelse i quaranta mila fiorini offerti dalla prima, nella guerra contro Firenze. A un certo punto dell’ingaggio, però, buona parte della Compagnia abbandonò Pisa per passare dalla parte di Firenze che aveva fatto un’ulteriore ghiotta offerta. Giovanni Acuto non seguì i suoi compagni e rimase con Pisa, decretando così il distacco dalla Compagnia Bianca. Dopo Pisa, combatté al soldo di Bernabò Visconti, di papa Urano V e di Padova. Nel 1387, approdò a Firenze e vi restò in modo definitivo, fino alla sua morte, attuando quel cambiamento che vide i condottieri legarsi sempre più spesso a una sola città.

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Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Secondo appuntamento: la guerra nel Medioevo

“Ciascuno pensi alla sua anima, consegnatevi a noi e potrete andarvene incolumi, se invece non accetterete e sarete presi con la forza sarete tutti impiccati senza misericordia.”

Le battaglie e le vicende belliche medievali risultano così affascinanti ai nostri occhi da stimolare la fantasia di molti scrittori. E nei romanzi troviamo cavalieri in armatura che si scontrano brandendo spade, decapitando poveri fanti appiedati. Sangue a flotti, cavalli che si impennano, spade luccicanti, usberghi lucenti… sicuramente tutto molto affascinante. Ma com’era davvero la guerra nel Medioevo europeo? Proviamo a ricostruirne i punti principali.

Iniziamo col precisare che, nell’80% degli episodi militari attestati dalle fonti, il modo di guerreggiare è consistito in scorrerie devastatrici limitate nel tempo e nello spazio, volte a sottrarre al nemico i mezzi di sussistenza. E ciò accedeva indipendentemente dalla motivazione della battaglia, perché quello che più incitava i soldati a combattere era la prospettiva dell’arricchimento derivante dal bottino. Le scorrerie erano, infatti, composte da razzie e raid, ossia incursioni rapide e limitate nello spazio con lo scopo di recuperare bottino e distruggere le risorse del nemico; il raid si inseriva in schemi strategici più elaborati ed erano volti a indurre il nemico alla resa. E questo modo di guerreggiare non differenziava i soldati regolari dagli sbandati che derubavano i viandanti. L’unica differenza tra ruberia e prelievo di prede come azione di guerra era il titolo giustificativo della violenza. Insomma, la guerra medievale era tale solo nel 20% dei casi.

Proprio l’incapacità degli eserciti di astenersi dalle razzie rendeva i loro passaggi una maledizione per i luoghi attraversati, senza distinzione tra amici e nemici. Anche perché con queste incursioni i soldati provvedevano alle proprie esigenze alimentari (non soddisfatte dalla carente organizzazione logistica militare), che giustificavano tutti gli eccessi di una sorta di licenza militare, che si poteva ben trasformare in pura rapina. Ma oltre alle razzie, vi erano altri problemi dei luoghi attraversati dagli eserciti: problemi di controllo di uomini in movimento, danneggiamento di strade e abbattimento di case e alberi per l’agevolazione del passaggio di mezzi pesanti, danni provocati dallo stazionamento delle truppe che esaurivano le risorse di regioni intere. Solo alcuni grandi comandanti, come Guglielmo il Conquistatore o Clodoveo, riuscivano a mantenere e condurre gli eserciti senza provocare troppi danni.

La stessa tendenza predatoria degli eserciti medievali era tipica dei soldati di mestiere, i cosiddetti mercenari. Apparsi verso la fine del XII secolo e divenuti presenza abituale nella seconda metà del Trecento, questi soldati di professione erano dediti alla ricerca del bottino e al sequestro di persona a scopo di estorsione. Erano radunati in compagnie di ventura, ossia gruppi organizzati come veri e propri eserciti permanenti e itineranti, sempre pronti alla preda, per conto dei propri datori di lavoro, ma soprattutto per il proprio tornaconto, specie quando rimanevano senza occupazione e il grado di violenza aumentava. Il loro obiettivo non era superare l’avversario, ma arricchirsi con ogni mezzo possibile, facendo prevalere i moventi economici sulle intenzioni politiche. In origine, erano semplici ladruncoli, poi divenuti veri fuorilegge a cui si associarono ribelli, delinquenti comuni e monaci rinnegati, e infine veri e propri professionisti della guerra. Nella seconda metà del XIV secolo le compagnie diventarono formazioni militari abbastanza stabili stipendiate dalle signorie italiane, anche se continuarono comunque a integrare le paghe con bottini e riscatti.

Nell’Italia comunale, la scorreria era diffusa anche come sfida e provocazione contro l’avversario, per indurlo a uscire dalle mura della sua città e ad accettare la battaglia, così come per umiliarlo e ridicolizzarlo. Inoltre, era usata per punire che aveva mancato a una fedeltà politica. Vi era poi l’uso della scorreria tattica, che contava sulla reazione del nemico per farlo cadere in trappola.

I saccheggi erano, comunque, sempre accurati: ogni cosa veniva asportata dalle case, che poi venivano incendiate, e le fortificazioni in muratura venivano abbattute. La tecnica distruttiva principale era, infatti, il fuoco, efficace sia in campagna che in città. Dietro ai soldati saccheggiatori, vi erano poi i guastatori che, muniti di appositi attrezzi come scuri, operavano il guasto del territorio nemico. Inoltre, insieme ai soldati impegnati nelle azioni della gualdana (saccheggio), vi erano i cosiddetti saccomanni, ossia singoli predoni, non combattenti, muniti di sacchi nei quali si accumulavano le prede. I saccomanni erano proprio coloro che seguivano l’esercito tenendo il sacco pronto per raccogliere il bottino. Una volta raccolte le prede, queste venivano radunate in un luogo adatto e ripartite in modo eguale tra tutti i combattenti, al fine di evitare il rischio che nessuno volesse più battersi nella prima schiera in cui era più difficile fare bottino.

Nonostante quanto si è detto finora, gli uomini di guerra medievali non possono essere visti solo come sadici distruttori in cerca di bottino. Il bottino, infatti, era legittimo perché derivato dalla guerra, anche se vi erano limiti generali: i danni dovevano essere commisurati al rischio e agli scopi, i non combattenti e i prigionieri dovevano essere rispettati, tutto era permesso purché non facesse soffrire la disciplina dell’esercito, le chiese dovevano essere risparmiate per evitare l’ira divina e bisogna evitare la distruzione totale dei territori di cui di voleva entrare in possesso.

A livello quantitativo, subito dopo i saccheggi venivano gli assedi dei luoghi fortificati, come conseguenza del fenomeno dell’incastellamento del X e XI secolo. La fortificazione veniva avvicinata con i plutei, ossia grandi scudi su ruote che proteggevano i tiratori, i quali spianavano il terreno e colmavano il fossato difensivo per permettere ai mezzi pesanti di agire sulle mura. Il primo mezzo pesante era la testuggine, un capannone blindato con un tetto inclinato che faceva scivolare i proiettili e le materie incendiarie lanciate dall’alto dal nemico. Sotto la testuggine, i minatori arrivavano alle mura per aprire brecce con l’ariete, cioè una grossa trave con la testa ferrata. Poi vi era la torre mobile più alta delle mura, montata su ruote, spinta da uomini al suo interno e munita di ponti volanti che permettevano di superare le mura dall’alto. Anche le scale d’assalto avevano le ruote ed erano più difficili da rovesciare per il nemico. Tutti questi mezzi erano di legno, pertanto venivano ricoperti di pelle di bovino, strati di terra e materiali imbevuti d’aceto per essere protetti contro il fuoco. Erano poi accompagnati dal tiro delle artiglierie, ossia mezzi che facevano piovere proiettili di pietra sulle difese nemiche, come il mangano e, successivamente, il trabucco. Sottoterra, invece, si potevano aprire gallerie per far crollare le mura ed entrare all’interno di sorpresa. Tutti i componenti dell’attacco dovevano agire nello stesso momento.

Oltre che per battaglia, le fortezze venivano prese anche per sete e per fame. Il primo compito durante un assedio era, quindi, privare di acqua e cibo gli assetati. Per questo, si privilegiava l’estate, quando era più facile esaurire l’acqua e i nuovi raccolti non avevano ancora integrato le scorte precedenti. La privazione dell’acqua avrebbe così fatto desistere anche gli assediati più agguerriti. In questi casi, ciò che portava gli assediati a resistere era la speranza di ricevere soccorso esterno, almeno per il rifornimento di acqua e viveri, che avveniva solitamente di notte. In questi assedi, erano importanti le cosiddette bocche inutili, ossia persone rinchiuse nella fortezza che consumavano vivere senza però fornire validi aiuti alla resistenza, come donne e bambini. Per questo, spesso, gli assedianti se catturavano alcuni assediati, anziché ucciderli, li mutilavano e li rimandavano indietro in modo che consumassero più in fretta le scorte senza essere di aiuto alla difesa.

La conquista di una fortezza per battaglia, invece, imponeva l’uso di macchine da lancio e da assalto, come detto. Ma i mezzi da lancio avevano anche un forte effetto psicologico sugli assediati. Infatti, erano usati anche per lanci non convenzionali allo scopo di esercitare pressione psicologica, come ad esempio le teste di nemici uccisi o corpi di alcuni animali, in particolare asini, con intento di insulto e derisione. Per lo stesso scopo intimidatorio, si usavano anche il fuoco e rumori improvvisi, soprattutto di notte, e si faceva credere agli assediati che loro mura fossero sul punto di cadere perché minata.

Il modo più comune di impadronirsi di una fortezza per battaglia era la scalata, ossia l’avvicinamento di scale alle mura, con attacco protetto dal tiro di balestrieri, arcieri e frombolieri. Ma era un modo pericoloso e difficile se non attuato di sorpresa, pertanto questo tipo di attacco avveniva soprattutto di notte e nei luoghi più accessibili e meno sorvegliati. Si trattava di scale mobili smontabili: ogni uomo, in silenzio, ne portava un pezzo fin sotto il punto scelto nelle mura, dove ogni parte veniva assemblata. Spesso, in questo modo alcuni uomini potevano penetrare nella fortezza e aprire le porte al resto dell’esercito. L’attacco per scalata, però, poteva avvenire anche in presenza del nemico, con cui si dava vita ad audaci imprese. Nei casi, invece, in cui l’attaccante era in stato di inferiorità, si cercava complicità all’interno per penetrare con l’inganno e il tradimento. In particolare, l’inganno era molto usato nei casi di luoghi fortificati imprendibili senza un lunghissimo assedio che avrebbe richiesto un impiego sproporzionato di tempo, uomini e mezzi. Un esempio di inganno è quello usato da Roberto il Guiscardo, alla fine dell’XI secolo: si finse morto, chiedendo di essere sepolto in un monastero all’interno delle mura; il desiderio fu accolto ed egli durante il funerale si alzò, estrasse le armi e diede il segnale di attacco.

Ma gli assedi comportavano problemi anche per gli assedianti. Innanzitutto, era difficile assediare grandi città. Se poi l’assedio si prolungava più del previsto, il primo nemico dell’esercito era la noia che stancava i soldati, inducendoli a desistere dal loro intento. Inoltre, vi era la necessità di vettovagliare l’esercito per tutto il periodo dell’assedio e questa difficoltà costituiva spesso una speranza per gli assediati.

Dal canto loro, gli assediati rispondevano alle macchine da lancio con il tiro delle proprie artiglierie, utilizzavano fossati molto profondi e pieni d’acqua per prevenire lo scavo di gallerie e lanciavano o portavano fuori il fuoco contro i mezzi bellici nemici. Per lanciare il fuoco si usavano sifoni, frecce incendiarie; con le macchine da getto e le olle di terracotta, veniva lanciato materiale incendiario, come blocchi di metallo incandescente o miscele incendiarie. Esistevano tre tipi di fuoco per la guerra. Il fuoco semplice era costituito soltanto da legna, il fuoco artificiato comprendeva legna trattata con sostanze idonee ad agevolare o potenziare la combustione, come resina, pece bollente, grassi, zolfo, ecc. Poi vi era il cosiddetto fuoco greco, una speciale miscela incendiaria di difficile definizione che produceva un fuoco inestinguibile, poiché resistente all’acqua. In ultimo, gli assediati alle strette che però non intendevano arrendersi, ricorrevano alla fuga nella notte, che avveniva calandosi dall’alto delle mura o aprendo brecce alla loro base.

La presenza di numerose fortezze portò gli eserciti a evitare il più possibile (ma non sempre) le battaglie in campo aperto, dagli esiti più incerti. I comandanti preferivano operare di nascosto per cercare di sconfiggere i nemici lasciando incolumi i propri uomini, come fecero i comuni lombardi contro Federico II. Essi impedirono un combattimento libero in campo aperto chiudendo il passo all’esercito nemico in strettoie e ai passaggi dei fiumi. Una delle tecniche usate per ritardare la battaglia campale era il temporeggiamento. L’esercito, pur dichiarandosi pronto a combattere, in realtà si limitava ad aspettare che fosse l’altro a fare il primo passo. In questo modo, esibiva la propria forza con lo scopo di intimorire l’avversario: se lo scontro non avveniva era solo per la codardia dell’altro. Il tergiversare era poi dovuto anche alla divinazione astrologica, che serviva a scegliere il giorno e l’ora più favorevoli alla battaglia. Finché la battaglia si poteva evitare, veniva sostituita dalla parata in campo aperto, ossia dallo spiegamento delle proprie forze per intimorire il nemico, come fecero i Faentini nel 1207, i quali si disposero in una pianura, riuniti sotto le bandiere, invitando con gesti il nemico al combattimento. E la parata era usata anche davanti alle mura di città nemiche con lo scopo di provocare gli abitanti a uscire. Era quindi possibile affrontarsi senza battaglia, dimostrando la capacità di resistere di fronte al nemico e di operare davanti a esso senza che reagisse. Se quest’ultimo rifiutava apertamente di combattere o, dopo aver tergiversato, lasciava il campo, ammetteva la sconfitta. Spesso, quindi, l’ordinamento delle schiere era più importante del loro impiego sul campo, perché l’ordine, la compattezza e la disciplina potevano indurre il nemico a ritirarsi: l’esercito otteneva il risultato senza compromettere uomini e armi. Nella prima crociata, ad esempio, i guerrieri di Tancredi emersero da una valle davanti ai Turchi armati e inquadrati in modo perfetto: prima le punte delle lance, poi le aste, gli elmi, gli scudi e i torsi corazzati, finché non apparvero le sagome minacciose dei guerrieri a cavallo. Solo l’apparizione indusse i Turchi alla fuga. È quindi immaginabile la pressione psicologica che potevano avere sul nemico lo scintillare di armi e armature, i colori, la ricchezza dell’esercito, il numero di bandiere, le voci, il suono degli strumenti.

Ma come erano disposte le schiere? Innanzitutto, davanti, cavalieri e fanti non potevano superare i vessilli, che dovevano seguire rimanendone vicini; sul retro, invece, il limite era dato dalle insegne degli ufficiali guardaschiera. Poi, la posizione di ogni combattente corrispondeva a un ordine stabilito. Durante la marcia, dovevano procedere serrati, appena dietro alle bandiere, mentre in combattimento cavalieri e fanti erano disposti in righe, distanziate le une dalle altre, secondo quattro forme diverse. La forma quadrangolare giudicata la meno utile, quelle triangolari e a forbice, utili per attaccare un nemico numeroso, e quella rotonda, indispensabile per difendersi da un avversario più forte. Nelle prime righe di questi schieramenti, erano posti i combattenti meglio armati e più valorosi. Quanto all’addestramento delle reclute, avveniva direttamente sul campo di battaglia e durante le battagliole, in cui erano usate armi di legno e fitto lancio di pietre.

Bisogna ricordare, però, che cavalieri e fanti medievali non erano combattenti professionisti, ma uomini del popolo che venivano periodicamente sottratti (per qualche giorno o settimana) al lavoro quotidiano per affrontare una battaglia. Ciò rendeva molto problematico il mantenimento delle schiere davanti al nemico. Per questo gli statuti cittadini prevedevano disposizioni precisi in merito: nessuno poteva separarsi dalla schiera in vista del nemico, né poteva allontanarsi dalla battaglia, a pena di severe punizioni. In particolare, erano previste disposizioni severe per gli alfieri, ossia coloro che portavano le insegne, i quali non potevano mai ritirarsi dal combattimento, fuggire, né abbassare il vessillo. I disertori venivano puniti sul campo di battaglia, dovevano pagare multe salate, i loro nomi erano scritti (e le fattezze dipinte) nel palazzo comunale, con conseguente infamia ed esclusione perpetua dai pubblici uffici; in alcuni casi, si arriva fino all’amputazione del piede. Oltre che con le minacce di queste punizioni, l’esercito era mantenuto in riga anche con le percosse.

Un altro problema che angustiava i comandanti era il tempo migliore per muovere una campagna militare. Infatti, la temperatura doveva permettere di vivere all’esterno, le strade dovevano essere sgombre da fango e neve, gli animali dovevano trasportare foraggio fresco, mari e fiumi dovevano essere navigabili con sicurezza e le giornate dovevano essere lunghe a sufficienza. Pertanto, il momento migliore per iniziare una campagna era sicuramente la primavera e l’attività bellica si concentrava, solitamente, tra aprile e settembre. Ma l’estate poteva essere nociva, non meno dell’inverno, a causa di insolazioni, della polvere, della sete, della calura eccessiva, soprattutto sotto le armature, e degli insetti. Durante l’inverno, l’attività bellica era ridotta al minimo. Quanto al momento della giornata più propizio all’attacco, era l’alba perché vi era più possibilità di sorprendere un nemico non ancora pronto a difendersi. Di notte, invece, il combattimento era sospeso, sia per la stanchezza dei combattenti, sia per via del buio che impediva di riconoscere gli amici dai nemici. Tuttavia, durante la notte venivano svolte altre attività: la raccolta di informazioni negli accampamenti avversari, il sabotaggio di impianti nemici, la discussione di piani d’azione, la veglia in armi senza interruzione, lo spostamento di truppe, l’evasione di prigionieri e di guarnigioni assediate e, in generale, ogni genere di azione di sorpresa.