Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento. Appuntamento bonus: la mobilitazione dell’esercito.

Come si radunava un esercito in previsione di una battaglia nei Comuni di metà Duecento? Possiamo farci un’idea esaminando la mobilitazione di Firenze alle soglie della battaglia di Montaperti.

La mobilitazione veniva decisa da un consiglio di guerra che affiancava il podestà in periodo bellico e che era formato da dodici capitani, che si occupavano dell’organizzazione, e ventiquattro consiglieri. Il consiglio era coadiuvato da una serie di notai che controllavano e annotavano ogni passaggio. La coscrizione era obbligatoria per ogni maschio tra quindici e i settant’anni, ad eccezione di coloro che avevano palesi disabilità fisiche e di un uomo per famiglia titolare di un mulino. Ogni parrocchia compilava il registro degli arruolabili e chi non si faceva iscrivere rischiava multe salate: cinquanta lire per i cavalieri (ed era una somma molto ingente dato che ci si poteva comprare una casa modesta) e venticinque per i fanti. Anche per renitenti e i disertori era prevista una multa, anche se inferiore (dieci lire per cavalieri e cinque per fanti) e le parrocchie erano obbligate a denunciarli, a pena di pesanti multe collettive. La mobilitazione non comprendeva mai tutte le forze disponibili, ma era il capitano della guerra a decidere, volta per volta e a rotazione, quale Sesti cittadini armare (da tre a cinque), perché una parte delle milizie doveva rimanere sempre a guardia della città e di riserva. Ogni Sesto ripartiva gli uomini in vexilla che organizzavano le venticinquine fornite da ogni parrocchia. Erano parte integrante dell’esercito anche i medici e i notai.

Veniamo ora all’equipaggiamento dei soldati, che era tutto a loro carico. I fanti dovevano essere protetti da cervelliera d’acciaio, gorgiera per la gola, corazza di ferro o di cuoio ben imbottito per il busto, maniche di ferro per le braccia, lancia e scudo di legno e cuoio. La mancanza di uno qualsiasi degli elementi comportava una multa di dieci soldi, pari a cinque giornate di salario. I cavalieri, invece, dovevano anzitutto avere il cavallo (di cui era stabilito anche il valore minimo, pari a 45 lire) accessoriato di sella e coperta. Gli uomini dovevano avere elmo di ferro, usbergo di maglia di ferro, corazza, lancia, spada e scudo. In caso di elementi mancanti o non a norma, il cavaliere veniva sanzionato. La multa venti soldi (ossia la paga di una giornata) se mancava la sella, sessanta se il cavallo non aveva la coperta di protezione, cento soldi se mancava l’elmo e venti per ogni altra parte di armamentario mancante. Erano, inoltre, previste multe relative alla vendita dei cavalli. Se qualcuno vendeva un cavallo senza licenza del podestà a un acquirente che non era di Firenze o del contado rischiava cinquanta lire di multa se era un cavallo da guerra. Peggio ancora se vendeva un cavallo che aveva in affidamento, ma la cui proprietà era del Comune. In questo caso la multa ammontava ad almeno cento lire.

L’esercito era composto, innanzitutto da fanti e cavalieri. Questi ultimi erano organizzati in sei o sette squadre, composte da un capitano e da venticinque cavalieri e ogni venticinquina era strutturata in cinque poste da cinque uomini; e il loro schieramento era controllato da dodici ufficiali detti distringitores. Poi, vi erano i berrovieri, ossia soldati stranieri ingaggiati dal Comune con ferma di tre mesi.  Le clausole di ingaggio prevedevano che venissero, rimanessero prestassero servizio e tornassero a casa a loro rischio e pericolo quanto alla loro persona, cavalli, armi e oggetti di loro proprietà. Il Comune avrebbe indennizzato solo i cavalli uccisi o danneggiati durante il servizio reso a Firenze. Il bottino fatto in guerra era riconosciuto interamente a loro, così come il guadagno tratto dal mercato dei prigionieri. Inoltre, per ogni nemico consegnato al Comune, questi avrebbe pagato dieci lire; se il Comune non avesse voluto pagare, il prigioniero sarebbe rimasto nelle mani di chi lo aveva catturato, il quale poteva liberarlo dietro riscatto o venderlo a un altro soldato. L’esercito era poi composto da arcieri, balestrieri e pavesari, ossia i soldati che portavano i grandi scudi dietro a cui si riparavano i tiratori in battaglia. Vi erano, poi, quarantotto soldati (guidati da un gonfaloniere e due distringitores) incaricati di scortare il carroccio con lo stendardo del Comun, che comprendevano i popolani migliori e più forti. Erano presenti anche i guastatori (comandati da sei ufficiali) e i marraioli, ossia coloro che spianavano il terreno davanti all’esercito in marcia con una sorta di zappa, chiamata marra.

Oltre a concentrare gli armati in città, si provvedeva anche alla mobilitazione del territorio. Si adottavano, pertanto, misure affinché il contado non restasse sguarnito di uomini e si costruiva una rete di difesa territoriale di armati, sia per rinforzare le milizie cittadine, ma soprattutto lasciati in loco come presidi locali. Inoltre, si formalizzava un sistema di segnalazioni con fuoco e fumo per far capire alle sentinelle sulle mura e sulle torri ciò che accadeva al confine della loro terra.

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Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Quarto appuntamento: la battaglia di Montaperti

Nei pressi di Montaperti, località a una decina di chilometri da Siena, il 4 settembre 1260, l’esercito ghibellino senese, appoggiato dai cavalieri di Manfredi di Svevia, sbaragliò i fiorentini e i loro alleati guelfi. Una battaglia molto importante nel contesto toscano, che ebbe una lunghissima incubazione. Proviamo a ricostruirne gli antefatti e le cause.

Partiamo dalla situazione tra le due città interessate e, per farlo, dobbiamo tornare indietro di una decina d’anni. Iniziamo da Firenze. Nel 1251, Federico II è morto da circa un anno e la sua dipartita ha galvanizzato i guelfi, che hanno rialzato la testa e preso il governo di Firenze. Già da qualche tempo, la resistenza guelfa si era acuita, tanto che, nei due anni precedenti, i filopapali fiorentini erano insorti prima contro il rappresentante imperiale in città, Federico d’Antiochia, costringendolo a fuggire, poi contro i nobili ghibellini che controllavano la città. Il governo è quindi passato alla fazione guelfa, che costituisce ora il “Primo Popolo”, con al vertice il capitano del popolo (con potere esecutivo e legislativo) e il podestà (con potere giudiziario e di comando dell’esercito). I fuoriusciti ghibellini non sono però rimasti con le mani in mano, anzi. Hanno stretto un patto con le città toscane filoimperiali, Siena, Pisa e Pistoia, per muovere guerra a Firenze. Tuttavia, i successi bellici di Firenze dell’anno successivo, convincono i ghibellini fiorentini a tornare in patria, pacificati.

Il 1251 è un anno importante anche per la ghibellina Siena. Ha, infatti, siglato una pace che permette la stabilizzazione sotto la sua guida e la sua egemonia del quadrante sud della Toscana, grazie al controllo di una serie di castelli concesso da Grosseto e dai nobili della Maremma.

Nel 1254, mentre Firenze conquista mezza Toscana, il popolo di Siena sembra voler cambiare direzione politica e, l’anno successivo, le due città stipulano un trattato di pace, in teoria perpetuo e irrevocabile, con cui si stabilisce la libertà per Firenze di muoversi nei confronti dei castelli della Val d’Elsa, di Empoli, Montevarchi, Poggibonsi, Volterra e San Giminiano, e per Siena di perfezionare il controllo del sud della Toscana su cui già aveva l’egemonia, rinunciando però a Montalcino e Montepulciano. L’accordo prevede, inoltre, per entrambe l’impegno a non accogliere ribelli o banditi dell’altra città. Sembra si sia siglata la pace nella regione. Tuttavia, nessuno ci crede davvero.

E a ragione. Tre anni più tardi, infatti, tutto precipita. A Firenze, i ghibellini, capitanati da Farinata degli Uberti, tentano un colpo di Stato che, però, fallisce, costringendoli a lasciare la città e a rifugiarsi a Siena, che li accoglie violando gli accordi. Della pace del 1255 non è rimasto niente. Firenze e Siena tornano a essere nemiche. E l’obiettivo di Firenze è di nuovo quello di bloccare l’espansione della rivale, che sta vantando diritti su Montalcino (ai quali aveva rinunciato in virtù del trattato del 1255). Il suo territorio è, infatti, ricco di minerali e di ampi spazi per la coltivazione di cereali. La cittadina, però, resiste alle pressioni senesi, rivendicando la propria autonomia di appoggiarsi a Firenze, la quale si mobilita in suo soccorso. Ma è solo una scusa. Firenze sta muovendo guerra alla sua nemica Siena, radunando un esercito pronto a combattere.

Alla fine dell’estate del 1260, Firenze ha schierato trentacinquemila soldati e con loro marcia fino alla porta Camollia di Siena. I senesi sapevano che Firenze si stava preparando alla guerra e lo hanno fatto anche loro, ma gli uomini a disposizioni sono in numero inferiore a quello fiorentino (probabilmente diecimila o diciottomila soldati, a seconda della fonte). Sullo svolgimento della battaglia, sappiamo poco, in quanto fonti storiche che la raccontano, sia senesi che fiorentine, sono state scritte a metà Trecento.

Secondo fonti senesi, i guelfi fiorentini accampati fuori Siena, inviano due ambasciatori in città con un ultimatum: si arrenda entro tre giorni o apra tre varchi nelle mura per far passare l’esercito guelfo. Siena si mobilita, raduna i soldati, tra i quali primeggiano gli ottocento cavalieri tedeschi inviati da Manfredi di Svevia (ultimo figlio dell’imperatore Federico II, ormai passato a miglior vita da dieci anni), il quale si è da poco fatto incoronare sovrano di quel regno con l’inganno, attirando su di sé e ire di papa Alessandro IV. Questo papa ha, infatti, proseguito nella stessa linea del suo predecessore Innocenzo IV che, alla morte di Federico II, aveva rivendicato il regno di Sicilia come proprio territorio e che, pertanto, non aveva mai legittimato il testamento dell’imperatore circa la Sicilia. Manfredi, però, vuole riappacificarsi con il pontefice e, per questo, la sua città di riferimento in Toscana è proprio Siena che, pur essendo da sempre filoimperiale, non è ostile al papa. Ed è questo il motivo per il quale, nei mesi precedenti alla battaglia, egli aveva accettato di prestare l’aiuto richiesto da Farinata degli Uberti, il capitano ghibellino fiorentino che aveva trovato rifugio in Siena all’indomani del mancato colpo di Stato a Firenze del 1258.

Prima dello scadere dei tre giorni, all’alba del 4 settembre, i cavalieri ghibellini scatenano l’assalto contro le schiere guelfe che prendono posizione con difficoltà e che iniziano a ritirarsi cadendo subito nelle mani dei senesi. Al tramonto, i fiorentini, provati, vedono sorpresi da un fresco contingente di cavalleria tedesca (gli abilissimi cavalieri mandati da Manfredi) che li abbatte in modo definitivo, attaccando anche carroccio di Firenze, dal quale strappano lo stendardo. L’esercito guelfo si sbanda e i soldati fuggono cercando di sottrarsi alla mattanza che ne segue. Alla fine della battaglia, il corteo dei vincitori sfila per le strade della città, meditando la punizione di Montalcino, colpevole di aver causato quel disastro, sulla quale marceranno il 22 settembre e che metteranno al sacco dopo otto giorni di assedio.

Le fonti fiorentine sono, invece, tese a giustificare la disfatta attribuendone le cause a fattori esterni e, in particolare, a due: la buonafede dei fiorentini vittime della furbizia di Farinata degli Uberti e un tradimento interno. Farinata, infatti, dopo aver ottenuto i cavalieri da Manfredi invia a Firenze due frati che recano con loro alcune lettere segrete. I religiosi vengono convinti che a Siena si è stanchi del governo attuale e che, in cambio di diecimila fiorini d’oro, consegnerebbero la città a Firenze. I governanti fiorentini abboccano e la trappola scatta. In un secondo momento, Farinata invia altre lettere nella sua città, destinate ai ghibellini rimasti a Firenze: durante lo scontro, dovranno assalire i loro concittadini. Ed è quello che fanno al momento indicato, dando un forte contributo all’esercito nemico che già aveva agito di sorpresa, prendendo alla sprovvista i fiorentini.

Dopo la sconfitta in questa battaglia e in seguito alla presa da Montalcino da parte di Siena, Firenze rinuncia, in favore della rivale, ai diritti acquisiti anche su altre città come Montepulciano, sui castelli di Maremma e Valdorcia. In sostanza, sui territori nei quali avrebbe voluto fermare l’espansione senese. I guelfi sono sconfitti e tutta la Toscana, con l’unica eccezione di Lucca, è in mano alla fazione ghibellina. Ora, Siena e le altre città ghibelline vorrebbero la distruzione di Firenze, ma la città del giglio viene difesa dai fuoriusciti ghibellini, in particolare Farinata degli Uberti, i quali vogliono il rovesciamento del regime guelfo e non la distruzione della città. Intanto, a Firenze i guelfi scappano, rifugiandosi a Lucca. Tra loro ci sono importanti famiglie come i Pazzi, i Cavalcanti, i Soderini, i Bardi. La minoranza che resta in città, perché ancora non ha ben compreso la portata della sconfitta di Firenze, subisce rappresaglie. Quando i filosvevi fuoriusciti rientrano in città, iniziano i sei anni di governo ghibellino. Guido Novello diventa podestà come vicario di Manfredi e le istituzioni cittadine subiscono significativi cambiamenti, che però non operano un’occupazione totale del partito ghibellino, in quanto non pochi guelfi rimasti in città si accordano con i nuovi governanti.

Le fonti fiorentine riportano anche il modo in cui la città ha mobilitato la popolazione per la formazione dell’esercito in vista della battaglia contro Siena. Ve lo racconterò martedì 14 marzo in un appuntamento bonus di questa rubrica. Stay tuned!

Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Primo appuntamento: Guglielmo il Maresciallo e i cavalieri medievali

Molto di ciò che conosciamo a proposito della cavalleria medievale è dovuto a una canzone, un poema, scritto dopo la morte di uno dei più grandi e importanti cavalieri della Storia: Guglielmo il Maresciallo. Il maresciallo, conte di Pembroke, era considerato già dai suoi contemporanei il migliore cavaliere del mondo, emblema della cavalleria stessa, uomo che si è creato da solo la propria fortuna, cavaliere dalla carriera esemplare: da scudiero di Guglielmo signore di Tancarville, in Normandia, a tutore del re Enrico il Giovane, per finire reggente del Regno d’Inghilterra per conto del novenne Enrico III, che lo portò ad essere uno degli uomini più potenti dell’Occidente all’inizio del XIII secolo.

Ripercorriamo questa carriera sfolgorante.

Personaggio dalla genealogia pressocché sconosciuta, probabilmente nipote di uno degli avventurieri che seguirono Guglielmo il Conquistatore, da bambino, il Maresciallo fu mandato dal padre in Normandia, dal signore di Tancarville, feudatario del re d’Inghilterra, per essere educato da guerriero. Era, infatti, figlio cadetto a cui non sarebbe spettata alcuna eredità: la scelta era tra la strada del mondo o la carriera ecclesiastica. Divenuto cavaliere, dimostrò grande valore bellico, sia per audacia che per tecnica, e iniziò a partecipare ai tornei, in cui perfezionò il suo apprendistato e nei quali si distinse sempre più. Una volta affermato, tornò in Inghilterra, ma non nella famiglia d’origine, bensì in quello dello zio materno, Patrizio conte di Salisbury, intimo di re Enrico II. E questa fu la sua prima fortuna. Infatti, la consorte di Enrico, la regina Eleonora d’Aquitania, colpita dal rispetto e dalla capacità di sacrificio che Guglielmo aveva dimostrato in un’occasione, lo inserì tra i cavalieri del suo seguito. Il giovane divenne così membro di una corte reale. Due anni dopo, nel 1170, poi, un altro grande passo per la sua carriera. Enrico II, infatti, incoronò re il figlio quindicenne, Enrico il Giovane. Ma questi, maggiorenne solo da un anno, non ancora cavaliere, aveva bisogno di una guida, un istruttore d’armi. Il padre scelse proprio Guglielmo come mentore del figlio, mettendolo al vertice dei cavalieri della casa reale. Diventò così maestro del suo signore. Aveva il giovane re nelle sue mani. Per tenere il figlio occupato, Enrico II ne sostenne le imprese cavalleresche, che si tradussero nel continuo vagabondare per tornei. L’esperienza e la bravura di Guglielmo furono qui fondamentali, tanto che gli valsero l’amore del giovane re. Addirittura, Enrico il Giovane gli chiese di armarlo cavaliere. Un compito importantissimo che sarebbe spettato, in teoria, a un altro re, probabilmente Luigi VII di Francia, suo signore feudale. La posizione di Guglielmo si elevò ulteriormente, grazie anche all’intimità con il re, che però gli procurò molte invidie tra gli altri cavalieri, i quali ordirono una congiura ai suoi danni. Le voci di un suo rapporto adulterino con la moglie del re, Margherita, gli fecero perdere l’affetto del sovrano, così abbandonò la corte per riprendere i tornei, nei quali era ambito e conteso. Quando, però, Enrico il Giovane entrò in guerra contro il padre, lo richiamò a corte. Tuttavia, poco tempo dopo, il re morì e Guglielmo ne eseguì l’ultima volontà, partendo per la Crociata al suo posto. Quando tornò, entrò nel seguito di Enrico II per fronteggiarne l’altro figlio, Riccardo, che gli muoveva guerra. Durante uno scontro, coprì la ritirata del suo re (che poco dopo morì), umiliando Riccardo abbattendone il cavallo, il quale lo accusò di avere tentato di ucciderlo. Tuttavia, il nuovo re, Riccardo Cuor di Leone, lo perdonò, gli concesse in sposa una ricchissima nobile e lo inserì nel suo seguito. Grazie al matrimonio con Isabella di Clare, Guglielmo divenne signore potentissimo e vassallo del re. Quando Riccardo partì per la Crociata, il Maresciallo rimase in Inghilterra a sorvegliare il fratello del re, Giovanni Senza Terra, che divenne re a sua volta alla morte di Riccardo nel 1199. Ma fu nel 1216 che Guglielmo raggiunse l’apoteosi. Prima di morire, Giovanni gli affidò la tutela del figlio Enrico di nove anni, salito al trono come Enrico III d’Inghilterra. Guglielmo il Maresciallo, diventò così uno degli uomini più importanti dell’Occidente. Tre anni dopo, morì.

Come dicevamo all’inizio, alla sua morte, nel maggio del 1219, il suo primogenito commissionò a un troviero, tal Giovanni, la realizzazione di una canzone che narrasse la vita e le gesta del genitore. Giovanni il Troviero impiegò sette anni per raggiungere il suo scopo. In centoventisette fogli di pergamena e in quasi ventimila versi, egli restituì il Maresciallo alla memoria, basandosi su fonti precise e, in particolar modo, sulla testimonianza diretta di Giovanni d’Early, persona molto vicina al defunto signore di Pembroke. Giovanni era stato, infatti, il suo fido scudiero che, anche una volta divenuto cavaliere, mai si era separato dal Maresciallo e lo aveva servito per trentun anni, divenendone quasi l’alter ego. Nella canzone del troviero, intitolata “Storia di Guglielmo il Maresciallo, conte di Striguil e Pembroke, reggente di Inghilterra” Giovanni d’Early racconta ciò che ha visto con i propri occhi e ciò che il suo signore gli raccontava, facendo risplendere i ricordi personali di un cavaliere contemporaneo di Eleonora d’Aquitania. E, grazie a questi ricordi, la canzone diviene preziosa testimonianza dell’epoca cavalleresca, nonché la più antica biografia scritta in lingua anglonormanna. Questo testo è fondamentale per la comprensione della cavalleria medievale, perché in esso ne emergono i principi, i tabù, le liturgie, le aspirazioni. Attraverso gli episodi della vita del Maresciallo, infatti, gli storici hanno potuto ricostruire i principi, il costume e l’ideologia di quella società guerriera.

Dalla scarsissima presenza di donne all’interno del poema (solo tre accenni), si intuisce come fosse un mondo maschile, in cui solo gli uomini contavano. Un episodio ci racconta come erano considerate le donne nella mentalità cavalleresca. Guglielmo, seduto nell’erba a riposare, viene svegliato dalla voce di una dama, verso la quale si precipita. Scopre che è accompagnata da un bel monaco, con cui la fanciulla sta scappando. Il nostro cavaliere si preoccupa che abbiano denaro sufficiente e il monaco gli mostra una borsa piena di monete che metterà in rendita in una grande città. Vivranno di usura, dunque! Nel peccato. Guglielmo fa sequestrare i denari e manda al diavolo i due amanti. La morale del cavaliere imponeva di correre al soccorso delle donne nobili di nascita quando erano in pericolo, ma al pari gli vietava di obbligare una donna con la forza; in amore, doveva rispettarne la volontà. Tuttavia, la cavalleria voleva tenere per sé tutte le donne del suo sangue, vietando ai maschi di ogni altra condizione di prenderle. Pertanto, le donne che non rifiutavano l’amore di chiunque non fosse cavaliere, meritavano il rogo, ma il cavaliere non si sentiva in diritto di alzare la mano su di lei o sul suo amante. Questo episodio mostra anche come il cavaliere disprezzasse l’usura (che era bandita dalla Chiesa): l’uomo di qualità guadagnava con la sua audacia, impadronendosi del bottino a rischio della vita e non approfittandosi delle difficoltà altrui.

Il modo in cui Guglielmo reagisce alla calunnia dei congiurati, che lo additavano come amante della regina Margherita, ci mostra come la verità e l’onore fossero più importanti della vita stessa. Egli, infatti, si offrì di andare a duello, di prestarsi all’ordalia, in cui Dio avrebbe distinto il colpevole dall’innocente. Pronto a sfidare i tre campioni più valorosi, avrebbe accettato la pena di morte in caso non li avesse sconfitti tutti. Anche gli uomini, però, non sono tutti uguali. Per il cavaliere contano solo i cavalieri e solo i nobili, soltanto i combattenti designati da Dio.

E i figli dei cavalieri? Contava solo il primogenito, e nemmeno poi molto. Lo capiamo quando il Torniero racconta dei tempi in cui il padre di Guglielmo, Giovanni, osteggiava re Stefano. Durante un assedio, il re chiese una garanzia alle trattative: voleva in ostaggio un figlio di Giovanni. Questi, scelse proprio Guglielmo, il quartogenito, ma ciò non gli impedì di rafforzare le difese, mettendo il figlio in pericolo, che venne minacciato di impiccagione. Come rispose il padre? “Possiedo ancora incudine e martello per farne uno più bello”. Inoltre, i figli dei cavalieri lasciavano presto la casa paterna, per iniziare l’apprendistato, per non farvi più ritorno, ad eccezione dei primogeniti. Intorno agli otto, dieci anni venivano separati dalla madre e da tutte le donne del loro sangue, per essere catapultati in un mondo fatto di cavalcate, scuderie, armi e divertimenti da uomini, in cui il signore diventava il nuovo padre, fino a cancellare la memoria di quello vero. Un padre fittizio che rimarrà tale soltanto fino al termine dell’apprendistato, ossia all’investitura a cavaliere, quando i novelli cavalieri non venivano più mantenuti dal signore, ma dovevano partire alla ricerca del proprio destino. Con la vestizione, il cavaliere diventava uomo e in quel momento iniziavano la libertà e il pericolo. Soprattutto, per i figli cadetti, i quali partivano senza nulla, senza quell’equipaggiamento che il padre forniva al primogenito per far risplendere la casata.

Così, il neocavaliere partiva alla volta del mondo e ciò voleva dire anche andare per tornei. Non tanto per prestigio, come facevano i primogeniti, quanto per guadagnare, per crearsi una possibilità di vita. Vincere. Questo era l’obiettivo di ogni cavaliere, per migliorare l’equipaggiamento, per partire in posizione migliore nei tornei successivi. E ognuno doveva avere il proprio seguito, perché colui che cavalcava senza compagnia faceva la figura del povero o dell’esiliato, in quanto la solitudine, nel Medioevo, era vissuta con dolore, come una penitenza.

E Guglielmo il Maresciallo fu molto abile a diventare, in poco tempo, l’idolo dei tornei, ma fu un episodio di vera battaglia che gli portò la prima grande fortuna. Quando, tornato in Inghilterra, si aggregò alla famiglia dello zio materno, il conte di Salisbury, lo seguì a Poitou, nella scorta della regina Eleonora d’Aquitania. Qui, lo zio fu colpito a morte alle spalle da uno dei baroni ribelli. Tradimento! Il barone aveva infranto due morali: quella del cavaliere, che vietava di non uccidere i cavalieri e, soprattutto, non di spalle, e quella feudale che condannava il vassallo che colpiva il suo signore. L’eroico Guglielmo vendicò il delitto, anche seguendo la morale del lignaggio, che prevedeva di lavare l’offesa arrecata alla sua famiglia nel sangue del nemico. Si lanciò a capo scoperto, contro sessantotto guerrieri armati di spiedi; uccise sei dei loro cavalli, ma fu colpito alla coscia e portato via gravemente ferito. Fu qui che si vide il valore del cavaliere! Non stava giostrando, non aveva agito per la gloria o per il bottino, ma aveva affrontato il male, rischiando davvero la vita. Aveva vendicato lo zio, ma anche il re, di cui il conte era luogotenente. E la regina lo inserì tra i suoi cavalieri.

Ma quali erano le virtù del cavaliere? Erano di tre tipi. La fedeltà. Tenere fede alla parola data, non tradire i giuramenti e porre, davanti a esigenze contrastanti, la fedeltà al diretto signore. La prodezza. Combattere e vincere, conformandosi alle leggi, perché il cavaliere non combatteva come i villici. “Il prode non cerca altra protezione oltre la bravura del suo cavallo, la qualità della sua armatura e la devozione dei compagni del suo rango, la cui amicizia lo protegge. L’onore lo obbliga a mostrarsi impavido, fino alla follia.” La liberalità. Tutto ciò che arrivava nelle mani del cavaliere, lui lo regalava; non teneva nulla per sé, doveva essere generoso. Anche se quest’ultima virtù si scontrava con la realtà che vedeva indispensabile il denaro per l’equipaggiamento che si logorava velocemente, soprattutto per i cavalli che si perdevano nei tornei, che si rovinavano nelle cariche o morivano, così come era necessario al mantenimento del rango. E il cavaliere era logorato, ogni giorno, dall’eterno dilemma: il denaro è indispensabile all’onore, ma l’onore esige di disprezzarlo.

Ma torniamo ai tornei. Guglielmo visse in un periodo in cui il fanatismo per questo sport era al culmine, uno sport che non si praticava ovunque, ma soprattutto in Francia. Il torneo più riuscito fu quello di Lagny, a cui parteciparono tremila cavalieri, ognuno con il proprio seguito, oltre ad alcune compagnie di mercenari di umili origini che, nonostante fossero disprezzati, erano molto usati perché abile nel maneggio di armi ignobili (picche e ganci). I tornei, ai quali non partecipavano i re (a eccezione di Enrico il Giovane), ma che erano organizzati dai baroni, erano annunciati con quindici giorni di anticipo e si svolgevano durante tutto l’anno, con alcune interruzioni dovute alla pioggia (che rovinava usberghi e cotte di maglia) e per la Pasqua, Pentecoste e Ognissanti. Per la diffusione della pubblicità erano fondamentali gli araldi, ossia quei professionisti dell’identificazione dei cavalieri attraverso le insegne araldiche, capaci anche di comporre canzoni con le quali esaltavano i cavalieri e le casate. I giocatori arrivavano al campo di battaglia raggruppati in bande (per i cavalieri erranti) e in corpi (per le grosse casate). I baroni, poi, formavano le due grandi squadre dell’incontro, il quale era preceduto da un mercanteggiare per il reclutamento dei grandi campioni. La partita si giocava in una giornata, in due campi, in campagna. Il campo non aveva limiti precisi, oltre alle lizze, ossia barriere che delimitavano dei rifugi in cui i combattenti potevano riprendere fiato per qualche momento. Vi erano degli ostacoli accidentali, come boschetti, monticelli di terra o granai, che rendevano il gioco più interessante perché utili per tendere imboscate o scappare. Il torneo iniziava quando un gruppo avanzava verso l’altro, cercando di restare il più compatti possibile, perché l’obiettivo era quello di sfiancare e sfondare l’altra squadra. La vittoria, quindi, dipendeva dalla disciplina e dall’autocontrollo, più che dall’impeto. Si giocava solo per l’onore. Ci si andava come in guerra per impadronirsi di armi, cavalli e uomini. Il gioco nel torneo consisteva nel fare prigionieri e il modo migliore era quello di disarcionare l’avversario con un colpo di lancia. Ed era necessario colpirlo alla testa, in quanto ogni cavaliere sapeva tenersi saldamente in sella. Una volta a terra, l’avversario veniva trascinato in spalla (schivando i suoi compagni di squadra che lo difendevano) al margine del campo e la cavalcatura era conquistata. Il torneo terminava quando una delle due squadre era sparpagliata o quando si decideva di smettere e si attribuiva la vittoria ai punti. A questo punto, il torneo diventava una festa: si commentava il gioco, ci si medicava le ferite, si redigeva l’albo d’oro dei giocatori e si distribuiva il bottino; gli araldi sarebbe spettata la pubblicità.

Ma non era il denaro a contare davvero in quella società. Era il potere ad avere importanza. E il potere, quello vero, era esercitato dagli uomini sposati. Dopo la vestizione, ossia la consegna della spada, la nomina a cavaliere (che avveniva dopo i vent’anni), il giorno delle nozze era il secondo vero spartiacque della vita del cavaliere. Se è vero, infatti, che l’uomo valeva molto più della donna, è altrettanto vero che l’uomo non valeva quasi nulla se non aveva una legittima moglie. L’ordine del potere nella società feudale era basato sulla disuguaglianza, sul servizio e sulla lealtà. I gentiluomini erano al di sopra di tutti i laici, ma tra di loro vi erano delle differenze di potere: il capofamiglia dominava sulla casata, il primogenito era favorito rispetto ai cadetti, il signore stava al di sopra di chi gli aveva reso omaggio e i rapporti politici erano basati sulla gerarchia degli omaggi. Questi rapporti, a volte, interferivano gli uni sugli altri e i conflitti erano risolti con l’amicizia reciproca che obbligava a rendersi servigi e ad aiutarsi. In questo modo si manteneva la pace tra pari e impegnava chi stava al di sotto alla reverenza e chi stava al di sopra alla benevolenza. Il matrimonio poteva cambiare le posizioni di potere, proprio come accadde a Guglielmo che, sposando Isabella (che portò in dote ben sessantotto feudi!), passò da semplice cavaliere a barone reale. Questo significò farsi amicizie estese, guadagnare appoggi e mettere le spalle al sicuro da gelosie e rivalità, anche grazie ai matrimoni che combinò per i suoi figli.

Molto probabilmente tutto ciò non lo avremmo conosciuto se Guglielmo il Maresciallo non fosse esistito e suo figlio non avesse deciso di renderlo eterno facendo comporre un poema in suo onore.