recensione, Romanzo storico

“Oscura e celeste” di Marco Malvaldi

Siamo nella Toscana del Seicento, piegata dalla peste e governata dal Granduca Ferdinando II; sul soglio di Pietro a Roma, invece, siede papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini. Galileo Galilei, in procinto di pubblicare il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, si sposta tra Firenze e il convento di San Matteo in Arcetri, dove ha preso il velo sua figlia Virginia, alla quale affida sempre i suoi appunti perché li riscriva in calligrafia leggibile. Ma quel convento è proprio il luogo in cui un corpo cadrà dall’alto e sul quale Galileo si troverà a indagare, insieme al suo ex allievo, monsignor Niccolò Cini. Questa è la trama del nuovo romanzo di Marco Malvaldi, “Oscura e celeste”, edito da Giunti Editore.

L’intrigante trama di giallo storico, che mescola, storia, scienza, religione e mistero e che unisce ciò che accade in un convento di suore al lavoro e alle scoperte di Galileo Galilei, è molto piacevole ed è sostenuta da una narrazione leggera, appassionante, divertente e irriverente, che nulla toglie alla credibilità storica. Ma due sono gli aspetti che più colpiscono il lettore. Innanzitutto, lo stile frizzante, a tratti ironico. La seconda, invece, è l’uso di un narratore esterno, la cui voce esce in modo prepotente ma a dire la verità, anche molto piacevole e divertente. La sensazione del lettore è quella di assistere a uno spettacolo, nel quale, ogni tanto, cala per un attimo il sipario, lasciando spazio al narratore, per poi tornare alla scena. Colpisce, inoltre, la capacità dell’autore di alternare questa voce contemporanea, ben distinguibile anche grazie ai continui rimandi con il presente, alla scena vera e propria assolutamente ben calata nel periodo storico, sia per ambientazione che per il linguaggio usato.
Nel romanzo, poi, si muovono personaggi umani e, a tratti, moderni, tuttavia in totale armonia con il periodo. In particolare, spicca il Galilei che, caratterizzato come un toscano verace, a volte un poco burbero, che mi ha ricordato vagamente il mago Merlino di Walt Disney. Inoltre, l’autore non manca di fornirci molti spunti di riflessione su vari argomenti, dalla scienza alla religione, alla nostra società.


In “Oscura e celeste”, Marco Malvaldi ha trovato un modo davvero brillante e stimolante di affrontare un romanzo storico. Un libro consigliato a chi voglia leggere un giallo storico ben scritto e a chi voglia divertirsi un po’ nella Toscana del Seicento.



Pubblicità
Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento. Appuntamento bonus: la mobilitazione dell’esercito.

Come si radunava un esercito in previsione di una battaglia nei Comuni di metà Duecento? Possiamo farci un’idea esaminando la mobilitazione di Firenze alle soglie della battaglia di Montaperti.

La mobilitazione veniva decisa da un consiglio di guerra che affiancava il podestà in periodo bellico e che era formato da dodici capitani, che si occupavano dell’organizzazione, e ventiquattro consiglieri. Il consiglio era coadiuvato da una serie di notai che controllavano e annotavano ogni passaggio. La coscrizione era obbligatoria per ogni maschio tra quindici e i settant’anni, ad eccezione di coloro che avevano palesi disabilità fisiche e di un uomo per famiglia titolare di un mulino. Ogni parrocchia compilava il registro degli arruolabili e chi non si faceva iscrivere rischiava multe salate: cinquanta lire per i cavalieri (ed era una somma molto ingente dato che ci si poteva comprare una casa modesta) e venticinque per i fanti. Anche per renitenti e i disertori era prevista una multa, anche se inferiore (dieci lire per cavalieri e cinque per fanti) e le parrocchie erano obbligate a denunciarli, a pena di pesanti multe collettive. La mobilitazione non comprendeva mai tutte le forze disponibili, ma era il capitano della guerra a decidere, volta per volta e a rotazione, quale Sesti cittadini armare (da tre a cinque), perché una parte delle milizie doveva rimanere sempre a guardia della città e di riserva. Ogni Sesto ripartiva gli uomini in vexilla che organizzavano le venticinquine fornite da ogni parrocchia. Erano parte integrante dell’esercito anche i medici e i notai.

Veniamo ora all’equipaggiamento dei soldati, che era tutto a loro carico. I fanti dovevano essere protetti da cervelliera d’acciaio, gorgiera per la gola, corazza di ferro o di cuoio ben imbottito per il busto, maniche di ferro per le braccia, lancia e scudo di legno e cuoio. La mancanza di uno qualsiasi degli elementi comportava una multa di dieci soldi, pari a cinque giornate di salario. I cavalieri, invece, dovevano anzitutto avere il cavallo (di cui era stabilito anche il valore minimo, pari a 45 lire) accessoriato di sella e coperta. Gli uomini dovevano avere elmo di ferro, usbergo di maglia di ferro, corazza, lancia, spada e scudo. In caso di elementi mancanti o non a norma, il cavaliere veniva sanzionato. La multa venti soldi (ossia la paga di una giornata) se mancava la sella, sessanta se il cavallo non aveva la coperta di protezione, cento soldi se mancava l’elmo e venti per ogni altra parte di armamentario mancante. Erano, inoltre, previste multe relative alla vendita dei cavalli. Se qualcuno vendeva un cavallo senza licenza del podestà a un acquirente che non era di Firenze o del contado rischiava cinquanta lire di multa se era un cavallo da guerra. Peggio ancora se vendeva un cavallo che aveva in affidamento, ma la cui proprietà era del Comune. In questo caso la multa ammontava ad almeno cento lire.

L’esercito era composto, innanzitutto da fanti e cavalieri. Questi ultimi erano organizzati in sei o sette squadre, composte da un capitano e da venticinque cavalieri e ogni venticinquina era strutturata in cinque poste da cinque uomini; e il loro schieramento era controllato da dodici ufficiali detti distringitores. Poi, vi erano i berrovieri, ossia soldati stranieri ingaggiati dal Comune con ferma di tre mesi.  Le clausole di ingaggio prevedevano che venissero, rimanessero prestassero servizio e tornassero a casa a loro rischio e pericolo quanto alla loro persona, cavalli, armi e oggetti di loro proprietà. Il Comune avrebbe indennizzato solo i cavalli uccisi o danneggiati durante il servizio reso a Firenze. Il bottino fatto in guerra era riconosciuto interamente a loro, così come il guadagno tratto dal mercato dei prigionieri. Inoltre, per ogni nemico consegnato al Comune, questi avrebbe pagato dieci lire; se il Comune non avesse voluto pagare, il prigioniero sarebbe rimasto nelle mani di chi lo aveva catturato, il quale poteva liberarlo dietro riscatto o venderlo a un altro soldato. L’esercito era poi composto da arcieri, balestrieri e pavesari, ossia i soldati che portavano i grandi scudi dietro a cui si riparavano i tiratori in battaglia. Vi erano, poi, quarantotto soldati (guidati da un gonfaloniere e due distringitores) incaricati di scortare il carroccio con lo stendardo del Comun, che comprendevano i popolani migliori e più forti. Erano presenti anche i guastatori (comandati da sei ufficiali) e i marraioli, ossia coloro che spianavano il terreno davanti all’esercito in marcia con una sorta di zappa, chiamata marra.

Oltre a concentrare gli armati in città, si provvedeva anche alla mobilitazione del territorio. Si adottavano, pertanto, misure affinché il contado non restasse sguarnito di uomini e si costruiva una rete di difesa territoriale di armati, sia per rinforzare le milizie cittadine, ma soprattutto lasciati in loco come presidi locali. Inoltre, si formalizzava un sistema di segnalazioni con fuoco e fumo per far capire alle sentinelle sulle mura e sulle torri ciò che accadeva al confine della loro terra.

Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Terzo appuntamento: Giovanni Acuto e i condottieri medievali.

Per i figli cadetti nati nell’Inghilterra di inizio Trecento, in un’epoca che non era più quella della cavalleria di Guglielmo il Maresciallo, la strada più comune era quella delle armi. Dovevano imparare il mestiere del soldato, iniziando come scudieri, paggi o soldati di condottieri e aspettando di mettersi in mostra in qualche occasione per diventare uomini d’arme. Da questo momento potevano mettersi sul mercato, arruolare soldati e mettere la loro spada al servizio del miglior offerente.

Ed è ciò che fece John Hawkwood, ribattezzato Giovanni Acuto dai fiorentini, colui che divenne uno straordinario condottiero per moltissimo tempo al soldo della Signoria di Firenze. Quando iniziò la sua carriera, era in corso la Guerra dei Cent’anni, tra Inghilterra e Francia. È proprio in Francia, dai primi anni Quaranta del Trecento, che Giovanni combatté, terminando il suo apprendistato. Ma nel 1360 finì la prima parte della guerra e iniziò un periodo di pace, in cui i soldati dovettero riorganizzarsi per sopravvivere.

Nel frattempo, la struttura dell’esercito basato sulla fedeltà vassallatica e incentrato sulla cavalleria era entrato in crisi. Già nel Duecento, in Inghilterra i vassalli rifiutavano la dignità cavalleresca per non essere tenuti agli obblighi militari. In Francia, invece, i vassalli seguivano il signore solo entro in confini del feudo; oltre questo limite esigevano si essere rimborsati di tutte le spese. In Italia, soprattutto nelle zone in cui i Comuni crescono più velocemente, le compagnie cittadine (formate in prevalenza da cittadini che avevano più confidenza con gli strumenti dei loro mestieri che con le armi) non erano sufficienti a condurre guerre di conquista. Per questo, le milizie vennero integrate con soldati di professione. E questa professione poteva essere una soluzione per tanti, soprattutto durante la crisi economica di fine Duecento. Fu in questo contesto sociale che i soldati come Giovanni facevano fortuna, formando bande di soldati-avventurieri (mercenari), pronti a offrire il proprio lavoro a quanti avessero bisogno di soldati. Quella a cui Hawkwood si unì era la Compagnia Bianca.

I soldati di professione erano presenti negli eserciti già in pieno Medioevo, dove venivano ingaggiati con contratti a termine che si concludevano nel momento in cui finiva la guerra per cui erano stati assunti. In Italia, a loro ricorrevano i Comuni e il podestà, che aveva bisogno di una forza di polizia stabile. Un’accelerazione al fenomeno lo diedero le vicende dei guelfi e dei ghibellini nella seconda metà del XIII secolo. Ovviamente, ciò non significa che gli eserciti erano formati solo da mercenari, però erano loro a fare la differenza. Ad essi ricorrevano anche i sovrani d’Europa che, fino al Duecento, assoldavano il singolo uomo con i suoi collaboratori, mentre dalla metà del secolo si avvalsero di un tecnico, il conestabile, per trovare le truppe. Egli reclutava contingenti che oscillavano tra i venticinque e i cento soldati, per poi passare a intere compagnie di centinaia di uomini nel Trecento. Un altro fattore che contribuì a professionalizzare i soldati fu l’introduzione di nuove armi, l’arco e la balestra, che richiedevano una specializzazione nel loro uso e che trasformarono le tecniche di combattimento. Infatti, fino a quel momento i cavalieri (che costituivano la maggioranza degli eserciti) avevano dovuto difendersi solo dai colpi ravvicinati di spada, mazza e lancia, mentre ora dovevano riorganizzare le armi di difesa per le frecce che arrivavano da lontano e avevano una diversa capacità di perforazione. Questo comportò l’inspessimento di scudi e corazze, la formazione di una leva più robusta e una forma di combattimento più lenta.

La figura centrale della compagnia era il condottiero, ossia il comandante, al quale i soldati erano legati da vincoli di dipendenza, ma anche di fiducia e fedeltà. Era il condottiero (che, nella maggior parte, proveniva da famiglie aristocratiche) a reclutare i guerrieri, ognuno con il proprio reparto di armati. Sul loro operato, vigilava colui che li aveva ingaggiati, ossia il signore o un organismo apposito, come gli Ufficiali della Condotta a Firenze o i Savi della Terraferma a Venezia. Spesso il soldato mercenario è ricondotto a stereotipi, che però sono da rivedere. Primo fra questi, l’immagine dei soldati che, nelle città in cui passano, lasciano solo tracce sgradevoli. Ciò non era sempre vero, in quanto molti di loro si legavano alle città nelle quali passavano più tempo, ad esempio sposando ragazze del posto o facendo erigere chiese. Un altro stereotipo è quello del rapporto tra soldati e popolazione locale, le cui testimonianze sono sempre negative, come i soldati di Francesco Sforza che avevano l’abitudine di mangiare e bere senza pagare nelle osterie. Ma la presenza di un esercito significava anche circolazione di denaro e, soprattutto, guadagno sicuro per chi prestava loro soldi. Spesso i soldati finivano nel giro dell’usura oppure impegnavano armi e cavalli per avere contante. Inoltre, alcuni di loro investivano i guadagni presso uomini d’affari locali. Pertanto, nonostante sia indubbio che tra le file degli eserciti ci fossero uomini di bassa moralità e delinquenti abituali, la figura del soldato di professione non può essere ricondotta a stereotipi assoluti.

Ma come era strutturata una compagnia? Iniziamo col precisare che, nel momento in cui il condottiero accettava la condotta, non sempre aveva a disposizione gli uomini necessari. Doveva quindi procedere con l’arruolamento che poteva avvenire contattando soldati con cui aveva già combattuto, con l’unione a compagnie più piccole guidate da altri condottieri, con l’arruolamento per strada oppure ancora convincendo mercenari prigionieri di altre compagnie o sottraendo soldati al nemico in difficoltà economica. Detto ciò, la compagnia era formata da un insieme di piccole cellule. Un esempio utile è quello della compagnia di Michelotto degli Attendoli, della prima metà del Quattrocento. Vi erano 561 lance, che corrispondevano a 1129 combattenti e 561 paggi, e 104 cavalli (ossia singoli combattenti), per un totale di 1229 cavalieri, integrati da 177 fanti. Questo contingente era diviso in 87 squadre eterogenee e ognuna di esse era divisa in gruppi di lance, per un totale di almeno 167 uomini di comando (quindi un comandante ogni 6 uomini). Oltre agli uomini d’arme, la compagnia era formata anche da amministratori e contabili, necessari per amministrare le spese anticipate che il condottiero si accollava per l’equipaggiamento dei suoi uomini. Inoltre, vi era la casa, formata dai più stretti commilitoni e dai famigli del comandante, i quali, però, non seguivano gli spostamenti della compagnia, ma operavano in una sede fissa. Invece, si spostavano con i soldati tutte quelle figure che servivano a garantire un livello di quotidianità accettabile alle truppe: servi, cuochi, buffoni, medici, religiosi, prostitute, barbieri, sellai, mulattieri, corrieri, garzoni di stalla, fornai, ecc. Il comandante aveva, inoltre, giurisdizione piena sui suoi uomini (legibus soluti), sui quali amministrava la giustizia, con premi e punizioni. Quindi, ad eccezione di qualche rara occasione, non erano le magistrature della signoria committente a far valere la legge tra i soldati.

Uno dei problemi più fastidiosi per chi ingaggiava le compagnie era il loro costo, molto ingente, che spesso veniva sostenuto grazie all’introduzione di nuove tasse. Infatti, chi si rivolgeva ai mercenari, in genere, si impegnava a corrispondere la paga in denaro e gli anticipi per cavalli, armi e armature, a indennizzare i cavalli morti o feriti e a riscattare eventuali prigionieri. Ma in Europa del Duecento Trecento e Quattrocento, i mercenari erano indispensabili. È interessante osservare, ad esempio, i patti del 1390 tra Giovanni Acuto e Firenze per capire come funzionasse il loro ingaggio. Essi prevedevano una ferma annuale, con diritto di opzione per un altro anno; il condottiero si impegnava a svolgere le operazioni di guerra e una serie di servizi di guardia e sicurezza in città. Alla fine della condotta, il comandante prometteva di non combattere contro Firenze per due anni in proprio o per sei mesi al servizio di un altro capitano (clausola comune, ma spesso non rispettata). Una forma di ingaggio che si sviluppò nel Trecento, è il soldo d’attesa: in tempo di pace, i soldati ricevevano una paga ridotta ma si tenevano a disposizione in caso di necessità. Durante l’attesa, il condottiero era libero di far combattere i suoi soldati per altri committenti fino a che non fossero richiesti dal primo. Quanto alla durata dell’ingaggio, inizialmente era prevista per qualche mese, per poi allungarsi a un anno di ferma con un anno di rinnovo, sviluppando il fenomeno per il quale, molto spesso, i condottieri si legavano allo Stato che li aveva ingaggiati. Il soldo era ovviamente integrato dal bottino, dato che i soldati avevano libertà di commettere ruberie, estorsioni e chiedere riscatti. Alle paghe (che poteva essere sostituita, in caso di difficoltà del committente, da altri generi, come stoffa, sale, gioielli…), inoltre, si univano spesso privilegi, come esenzioni fiscali o lasciapassare.

Come combattevano le compagnie? Tra Duecento e metà Trecento in Italia, si usavano i corpi di cavalleria, fanti e balestrieri. Fanti e balestrieri formavano il reparto d’appoggio per la cavalleria, decisiva per lo scontro, che in genere consisteva in una serie di urti successivi di cavalieri. Nel Trecento, però, le modalità di battaglia si modificarono, dando sempre più spazio alla fanteria, che smise di essere carne da macello per diventare un reparto decisivo. Ma, durante le battaglie, mercenari erano davvero spietati? La risposta è no. Erano feroci e spietati con le popolazioni che subivano i loro soprusi, ma contro i nemici si dimostravano coraggiosi e determinati, mai spietati. E ciò perché quei professionisti nemici sarebbero potuti diventare loro alleati o parte della stessa compagnia. Pertanto, il nemico doveva essere sconfitto ma non distrutto, perché i soldati erano una risorsa da gestire nel migliore dei modi.

Come detto in precedenza, alla fine del Trecento le compagnie iniziarono a cambiare, in quanto si legarono sempre più agli Stati. Ma anche la figura del condottiero cambiò, che da avventuriero si trasformò in gentiluomo. Questo avvenne anche perché spesso i condottieri ricevevano come pagamento la concessione di terre su cui, in alcuni casi, esercitavano una signoria. Un bel modo per trasformare i condottieri in fedeli sudditi del signore che li aveva ingaggiati.

Giovanni Acuto proprio il prototipo di questo cambiamento.

Il contesto italiano nel quale approdò a Firenze era caratterizzato da un’estrema dinamicità politica, soprattutto al centro-nord, dove le protagoniste erano Verona, Milano e Venezia. La politica aggressiva del signore di Verona, Mastino della Scala, preoccupava Venezia che nel 1363 stipulò un’alleanza con Firenze. Ma quando Giovanni Visconti, signore di Milano, conquistò Bologna, Firenze iniziò a consolidare la sua posizione in Toscana. Ma la minaccia del pericolo derivante da Milano non fece passare in secondo piano le rivalità tra le città toscane e quando Pisa, nel 1365, chiuse il porto ai fiorentini si aprì una ghiotta occasione per i soldati in cerca di ingaggio. Quando la Compagnia Bianca arrivò in Toscana, fu contesa tra Pisa e Firenze. Il comandante scelse i quaranta mila fiorini offerti dalla prima, nella guerra contro Firenze. A un certo punto dell’ingaggio, però, buona parte della Compagnia abbandonò Pisa per passare dalla parte di Firenze che aveva fatto un’ulteriore ghiotta offerta. Giovanni Acuto non seguì i suoi compagni e rimase con Pisa, decretando così il distacco dalla Compagnia Bianca. Dopo Pisa, combatté al soldo di Bernabò Visconti, di papa Urano V e di Padova. Nel 1387, approdò a Firenze e vi restò in modo definitivo, fino alla sua morte, attuando quel cambiamento che vide i condottieri legarsi sempre più spesso a una sola città.

Fatti storici

I secoli d’oro di Firenze. Storia della città del giglio nei secoli XII-XVI

Firenze. La culla del Rinascimento. Patria di Lorenzo de’ Medici, Michelangelo Buonarroti, Filippo Brunelleschi. Una delle più belle città del mondo. Città ricca di Arte e di Storia, in cui il visitatore ha l’impressione di viaggiare nel tempo.

Uno splendore costruito in tre secoli, tra il XIII e il XVI. Nonostante sorga in un ambiente poco felice, in una conca umida, dalle estati roventi e dai gelidi inverni, Firenze ha saputo conquistarsi la gloria eterna. Non senza fatica, soprattutto quando, nel Medioevo, la costruzione della Via Francigena fuori dalla sua portata la estromesse dai traffici commerciali. Ma la città riuscì ad affermarsi comunque negli affari, in particolar modo nella lavorazione della lana.

Ma come è arrivata ai giorni nostri questa splendida città?

Florentia nacque in epoca romana, nel 59 a.C. come un insediamento modellato a castrum militare, ossia un quadrangolo cinto da mura in cui vivevano circa quindicimila abitanti, costruito sulle due grandi strade del cardo maximus e del decumanus, al cui incrocio c’era il Campidoglio (oggi piazza della Repubblica). Verso il 570 cadde in mano dei Longobardi, periodo in cui si costruì la via Francigena che metteva in comunicazione la pianura padana con Roma e che lasciò la città fuori dal suo corso. Iniziò, così, un periodo di buio per Firenze, che durò fino al IX secolo quando il favore di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana alleata di papa Gregorio VII contro l’imperatore Enrico IV, consentì l’affermazione della città e la sua crescita economica. Ma Firenze restava, in Toscana, un centro ancora modesto, in cui la manifattura e il commercio superavano di poco il livello della sussistenza. Così, nel XII secolo partì alla conquista del contado e all’assoggettamento dei castelli dei dintorni, i cui casati dei cavalieri detentori venivano obbligati a diventare cittadini e ad abitare all’interno delle mura. La classe dirigente della città si arricchì delle famiglie guerriere del contado, che potarono a Firenze le case-torri e i costumi di faida e violenza. Con il contado pacificato e sicuro, prosperarono le attività mercantili e, nel 1182, si costituì la prima organizzazione dei mercanti, chiamata Arte. I mercanti acquistavano i panni di lana e il materiale tintorio e li raffinavano nelle botteghe per poi esportarli a prezzi maggiorati. E fu così che alla manifattura si affiancò l’attività di prestito del denaro. Con la crescita economica, anche la popolazione incrementò, tanto che lungo le strade che dalle porte andavano verso la campagna si crearono dei borghi, in cui si insediavano i nuovi arrivati. Empori, opifici e nuove case torri crebbero fuori dalle mura.

Quanto all’aspetto politico, dopo la morte di Matilde di Canossa, le istituzioni cittadine decollarono, determinando un governo autonomo de facto, distaccato da quello del Sacro Romano Impero, a cui Firenze era fedele. Fu creato il collegio dei consoli, al quale si aggiungeva il parlamento, ossia l’assemblea generale dei cittadini, con la funzione di ratifica delle decisioni. Ma a governare tra i consoli erano sempre le famiglie aristocratiche, le quali avevano difficoltà a governare in modo collegiale. Questa fu la motivazione che determinò una tensione continua che sfociava in frequenti episodi di violenza. Firenze era un campo continuo di battaglia in cui ci si contendeva il potere, il predominio di una famiglia sull’altra. I gruppi parentali si riunivano in associazioni che avevano tra loro rapporti matrimoniali, di affari o di amicizia e che abitavano nella stessa zona della città, che veniva fortificata con un sistema di edifici collegati e coronati da torri alte settantacinque metri. Era la cosiddetta società delle torri, i cui caratteri principali erano l’uso delle armi, le case-torri (ispirate alla pratica di guerra del contado) e il diritto alla vendetta. Le lotte interne tra le famiglie assunsero presto connotazioni più ampie e la lotta tra impero e papato servì come alibi per mascherare le lotte interne.

Oltre alla rivalità tra le famiglie aristocratiche che si alternavano nella gestione del potere, vi era anche il malcontento di quelle famiglie che restavano al di fuori delle consorterie e che ambivano a entrarvi o a rovesciare i meccanismi di potere. I primi furono gli Uberti che, nella seconda metà del XII secolo, si scagliarono contro il regime consolare, il quale si rivelò incapace di contenere queste ribellioni e che fu, perciò, abolito e sostituito con il regime podestarile. Il potere esecutivo venne quindi affidato a un magistrato forestiero, al quale si affiancarono un consiglio ristretto e uno allargato di cui facevano parte i capi delle Arti (ossia delle associazioni professionali). Il podestà doveva essere di condizione cavalleresca, buon capitano di guerra e avere conoscenze giuridiche, le quali si conseguivano all’università, frequentata solo dai membri delle famiglie aristocratiche; il podestà era, perciò, sempre un aristocratico. Con il consiglio allargato, però, entrarono nel panorama politico anche gli esponenti del Popolo, membri delle corporazioni. Prima fu l’Arte della Calimala (dei mercanti), poi fu la volta di quella del Cambio (banchieri), della Lana, della Seta e altre.

Nonostante l’ingresso del Popolo nel governo, gli scontri tra le fazioni non si attutirono e, nel 1216, l’incidente tra i Buondelmonti e i Fifanti polarizzò le antiche inimicizie in un sistema binario, che divenne la faida tra guelfi e ghibellini. Le scelte degli Uberti diedero agli schieramenti una connotazione ultra-cittadina: la loro fedeltà all’impero fece chiamare ghibellino il loro partito, al quale si contrappose quello dei guelfi, che significava generalmente anti-ghibellino e che, poi, passò a indicare i sostenitori del papa. A questi scontri, però, non partecipava il Popolo, anche se ne era coinvolto, soprattutto perché i popolani più alti che ambivano a una vita aristocratica e alcune famiglie di illustri natali ma di poco denaro, si imparentarono tra loro creando un nuovo ceto: i magnati. Nonostante l’instabilità politica, il moltiplicarsi delle attività economiche richiamò a Firenze una selva di uomini che andarono a incrementare la manodopera di opifici e botteghe e che costruirono nuovi borghi, dagli assetti miserabili e dalla posizione malsana, soprattutto a causa di zone paludose e inquinate. Al loro soccorso arrivarono gli Ordini mendicanti che si posizionarono in diversi punti della città, ognuno attorno a una piazza con la rispettiva chiesa: francescani, domenicani, serviti, carmelitani e agostiniani.

Gli scontri tra guelfi e ghibellini si intensificarono e ad essi si affiancarono le lotte con i grandi nobili del contado, quelle con le altre città (soprattutto Pisa e Siena) e quella contro i catari, svolta dall’Inquisizione gestita dagli Ordini mendicanti. Nel 1250, il partito ghibellino che governava la città venne rovesciato da un’insurrezione guelfa e le grandi famiglie che lo avevano appoggiato furono mandate in esilio, dando vita al periodo detto “del Popolo Vecchio”. L’assetto istituzionale mutò di nuovo e venne formato da due parti: da un lato il comune, guidato dal podestà, e i due consigli, dall’altro il Popolo guidato dal Capitano, forestiero e cavaliere, affiancato da altri due consigli (dei dodici, eletto dalle compagnie militari, e dei ventiquattro, di cui facevano parte i consoli delle Arti). Negli anni di questo governo guelfo fu riorganizzata la milizia, vennero create le nuove circoscrizioni, i sestieri, fu costruito il palazzo del Popolo (il Bargello), venne presentato il fiorino.

Ma circa dieci anni dopo, la battaglia di Montaperti, sfociata a causa del rifiuto della città di accettare l’egemonia di Manfredi di Svevia (che volle assoggettare la Toscana all’Impero), causò una crisi di governo. Nella battaglia, infatti, l’esercito guelfo fu sterminato, dando modo ai ghibellini esiliati di tornare in patria e di darsi a feroci vendette. Il governo di Firenze tornò nelle mani del partito ghibellino, guidato da Farinata degli Uberti. Non durò a lungo. Nel 1266, la caduta di Manfredi nella battaglia di Benevento e la conseguente vittoria di Carlo d’Angiò, sostenuto da papa Urbano IV, fece cadere i ghibellini. Tuttavia, alcuni pontefici successivi, in particolar modo Niccolò III, cercarono di arginare il potere di Carlo e favorirono alcuni ghibellini, i quali tornarono a Firenze, in un precario equilibrio con il governo guelfo. Questo assetto delicato portò il Popolo a premunirsi per non essere cacciato di nuovo dal potere, così i maggiorenti delle Arti della Calimala, del Cambio e della Seta ottennero che i loro rappresentanti affiancassero il governo comunale. Fu istituito il collegio dei sei priori delle Arti (uno per ogni sestiere) e venne riconosciuto il diritto delle Arti maggiori e mediane di avere un capo, detto gonfaloniere, un consiglio e dei reparti armati, e il diritto per i capi delle Arti di entrare nel consiglio del podestà. Era la vittoria di imprenditori e banchieri che erano riusciti a creare un governo in cui le associazioni professionali avevano una voce forte.

Tuttavia, questo nuovo governo popolano non piaceva ai membri dell’antica aristocrazia cavalleresca e alle famiglie che con loro si erano imparentate. Si creò, così, un conflitto sociale tra i magnati (ossia, non solo gli aristocratici, ma anche chiunque potesse attentare alla supremazia del Popolo nel governo cittadino grazie a ricchezza e prestigio) e il Popolo. I primi cercarono di recuperare lo svantaggio politico alimentando la guerra contro i ghibellini che era rinata nel 1288 e che portò, con la battaglia di Campaldino dell’anno successivo, a una nuova ascesa delle famiglie guelfe magnatizie (ricche). Ma contro di esse, nacque un movimento popolano volto sottrarre loro il potere, che portò all’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293, ossia una serie di norme che stabilirono l’impossibilità di essere eletti come priori o membri dei consigli per i magnati. Il Popolo voleva evitare che le famiglie ricche potessero, attraverso il prestigio, il peso politico e il denaro, attentare alla sua supremazia nel governo. Tuttavia, l’alleanza con il papa delle famiglie guelfe portava grande afflusso di denaro alle banche fiorentine, pertanto i guelfi andavano in qualche modo tollerati. Gli Ordinamenti vennero così emendati due anni più tardi, permettendo ad alcuni magnati di accedere alle Arti e, perciò, al governo.

A garanzia di questo nuovo assetto di governo, per impedire che i magnati guelfi approfittassero della loro posizione nei consigli, fu posto il gonfaloniere di giustizia, un magistrato supremo del collegio dei priori. Si formò così una élite composta da antiche famiglie e nuovi ricchi che aspiravano alla vita aristocratica e che si proponevano come banchieri e appaltatori di tasse, riunendosi in compagnie, ossia società bancarie e commerciali che prendevano il nome dalla famiglia che contava di più. All’inizio del Trecento non esistevano più le consorterie di famiglie guelfe e ghibelline, ma le compagnie di ricchi pronti a egemonizzare il governo delle Arti. Esse gestivano anche i depositi di speculatori stranieri e degli istituti ecclesiastici, nonché il prestito internazionale di importanti somme.

La lotta politica, però, non si era attenuata. Dopo Campaldino, il partito guelfo si era scisso in due fazioni: la famiglia dei Cerchi guidava i guelfi bianchi, mentre i Donati, guidavano i guelfi neri. Nel 1302, i guelfi neri uccisero ed esiliarono i bianchi, ma una serie di problematiche tra loro e con i ghibellini portò, nel 1325, il Popolo Grasso (ossia i membri delle famiglie più influenti) a chiedere aiuto al re di Napoli, il quale affidò la signoria di Firenze a suo figlio Carlo d’Angiò per dieci anni.

Si chiuse, così, uno dei periodi più splendidi per la vita artistica, urbanistica e culturale della città, nel quale Arnolfo di Cambio fu protagonista. Firenze era diventata una delle città più popolose dell’Occidente, erano stati costruiti una nuova cinta muraria, il palazzo dei Priori (Palazzo Vecchio), il battistero, la basilica di Santa Maria del Fiore. Era stata la Firenze di Dante, Cimabue e Giotto.

A metà del Trecento, le compagnie fiorentine prestavano denaro ai papi, ai re di Francia e Inghilterra e a tutti i signori d’Europa; le botteghe raffinavano il 10% di tutti i panni di lana prodotti in Occidente. Banca, commercio e manifattura si sostenevano a vicenda. Calimala, Cambio e Lana dominavano la città. Eppure, l’avvio della guerra dei Cent’anni portò all’insolvenza del re inglese Edoardo III, a cui le compagnie avevano concesso ingenti prestiti, e molte di esse fallirono, prostrando la città. La situazione era difficilissima. Per un breve periodo, la signoria fu affidata a un nobile francese (che venne poi abbattuto con una serie di congiure), nella speranza di rimediare alla situazione di emergenza. Dopo la sua cacciata, la signoria tornò nelle mani del Popolo Grasso e i suoi organi fondamentali furono il gonfaloniere, gli otto priori, il consiglio dei Buoniuomini (degli anziani) e quello dei sedici, i gonfalonieri di compagnia. Tuttavia, le difficoltà politiche ed economiche avevano determinato una fase di rallentamento in tutti gli aspetti della vita cittadina, aggravati anche dall’epidemia di peste del 1348. La città fu flagellata, poi, da annate di grave carestia e da frequenti passaggi delle Compagnie di Ventura e questo stato di cose provocò agitazioni dei ceti subalterni, che vivevano in condizioni miserabili, come il tumulto dei Ciompi del 1378. I ciompi, ossia i sottoposti all’Arte della Lana, si rivoltarono per ottenere salari e condizioni di vita migliori, nonché il riconoscimento giuridico e istituzionale del loro stato. Questa rivolta portò alla creazione di tre nuove Arti, dei ciompi, dei farsettai e dei tintori.

Tuttavia, pochi anni dopo, il Popolo Grasso ristabilì un ordine oligarchico, in cui i protagonisti erano gli Albizzi, i quali smantellarono gli schieramenti famigliari opposti, finché la lotta si radicalizzò tra gli Albizzi, che rappresentavano la vecchia oligarchia, e i Medici, capi della compagnia della Calimala, a cui guardavano i nuovi cittadini e gli esponenti di Arti mediane e minori. A questa lotta si legò l’istituzione del catasto, ossia il sistema organico di tassazione basato sui capitali e sui redditi mobili e immobili. Esso sovvertiva il precedente sistema basato su imposte indirette e tasse sul patrimonio, in cui la finanza pubblica si reggeva sui dazi alle merci e ai comuni. Con il catasto, si andò ad attingere ai forzieri delle grandi famiglie e il primo sostenitore del nuovo sistema fu Giovanni de’ Medici. Egli si inimicò, così, ancor di più gli Albizzi che, a quel punto, erano obbligati a pagare.

Quando Giovanni morì, la guida della compagnia e della fazione medicea passò al figlio Cosimo, con il quale iniziò la fortuna politica della casata. Egli, infatti, nonostante l’avversione di Rinaldo degli Albizzi che riuscì a farlo incolpare di fallimento e a farlo esiliare, godeva del pieno favore della signoria. Fu un grande mecenate e un abile banchiere e politico. Alla sua morte, gli succedette il figlio Piero, anch’egli abile in affari e politica, ma di salute cagionevole. Dopo cinque anni, morì lasciando il comando ai giovani figli Lorenzo e Giuliano. Se Giuliano restò un po’ nell’ombra, Lorenzo il Magnifico fu un grande statista e diplomatico, un cultore delle lettere e ottimo mecenate, ma purtroppo non era abile negli affari e, sotto la sua guida, fallirono alcune filiali del banco mediceo. In questo periodo, Firenze non crebbe né in popolazione né in perimetro urbano, ma si arricchì di magnifiche opere d’arte e visse in un’atmosfera allegra e giocosa, grazie all’incoraggiamento del Medici alle feste.

Due anni dopo la morte di Lorenzo, nel 1494, il banco dei Medici fallì e suo figlio Piero, che ne aveva preso il posto, fu cacciato dalla città per non essersi opposto alla discesa delle truppe del re francese Carlo VIII. Firenze visse, così, quattro anni di lotte tra i seguaci del frate domenicano Girolamo Savonarola (i “piagnoni”) e i suoi avversari (gli “arrabbiati”, sostenitori di una repubblica oligarchica, e i “palleschi”, sostenitori del ritorno dei Medici). Savonarola voleva una città purificata dal peccato, con un regime popolare guidato dal Consiglio Maggiore, predicava la penitenza, fomentando roghi degli oggetti di lusso. Ma il suo predicare non piaceva a papa Alessandro VI Borgia che lo scomunicò e lo condannò a morte per eresia.

Caduto il domenicano, la Repubblica resuscitò con la creazione del gonfaloniere a vita, nella persona di Pier Soderini. Ma la repubblica (celebrata dal David che Michelangelo scolpì in questi anni) si appoggiava alla corona di Francia e, nel clima europeo caratterizzato dalle guerre tra Francia e Spagna, non durò a lungo. Infatti, nel 1512 un esercito spagnolo riportò in città i Medici e Firenze cadde in mano a un altro figlio del Magnifico, il cardinale Giovanni de’ Medici, e l’anno successivo passò al fratello Giuliano, duca di Nemours, quando il primo fu eletto papa Leone X. Nel 1516, alla morte di Giuliano, il governo passò al figlio di Piero (che era stato cacciato), Lorenzo duca d’Urbino, il quale però morì due anni dopo. Il governo allora toccò a suo figlio Alessandro e al cugino, il cardinale Ippolito (figlio di Giuliano di Nemours). Grazie ai posti occupati nello stato pontificio da Leone X prima e da Clemente VII poi (al secolo, Giulio de’ Medici, figlio del fratello del Magnifico, Giuliano), l’economia di Firenze rifiorì. Ma nel 1527, quando Clemente VII si alleò con la Francia contro Carlo V che saccheggiò Roma, Firenze insorse e cacciò nuovamente i Medici: il popolo non avrebbe più tollerato un sovrano. Il papa, però, non era felice di questo nuovo esilio, così, dopo la riappacificazione con Carlo V, gli chiese di riportare l’ordine nella sua città. I fiorentini resistettero per undici mesi agli assalti dell’esercito spagnolo, con Michelangelo in prima fila a dirigere i lavori di fortificazione. Tuttavia, dovette arrendersi, ma l’ardore popolare dimostrato dalla città fece capire al papa che serviva qualcosa di più forte dei meccanismi politici con cui avevano governato in precedenza. Così, nel 1532, Firenze fu trasformato dall’imperatore in ducato e la corona fu affidata ad Alessandro figlio di Lorenzo di Urbino. Cinque anni dopo, egli fu assassinato, estinguendo la discendenza diretta di Cosimo. Il ducato, allora, passò a un esponente del ramo cadetto della famiglia, Cosimo I, figlio di Giovanni dalla Bande Nere. Cosimo governò con saggezza e creò uno stato toscano uniforme, con fortezze e regge in tutta la Toscana di cui divenne granduca, grazie alla nomina pontificia a granducato. Avviò grandi lavori di bonifica, sviluppò l’urbanistica, favorì il porto di Livorno, fondò l’Ordine di Santo Stefano per combattere i pirati, trasferì la corte a Palazzo Pitti, creò l’Accademia fiorentina e quella della Crusca. Furono gli anni del Giambologna e di Benvenuto Cellini, dell’Ammanati e di Vasari. Anni che chiusero i secoli d’oro di Firenze, quelli in cui fu costruito e realizzato tutto ciò che, oggi, migliaia di turisti da tutto il mondo vengono a vedere con i propri occhi.

D’ora in avanti, quando passeggerete per le strade di Firenze, fermatevi un secondo e provate a tendere l’orecchio. Vi sembrerà di sentire le urla del popolo durante gli scontri tra i guelfi e i ghibellini, il tintinnare dei fiorini sui banchi delle famiglie di banchieri, le prediche di Savonarola, il rumore degli scalpelli sul marmo. Vi sembrerà di scorgere Michelangelo davanti a Palazzo Vecchio, intento a controllare il suo David (che oggi è custodito alla Galleria dell’Accademia), o Lorenzo il Magnifico che varca il portone del suo palazzo in via Larga (oggi è via Cavour).

recensione

Florentine. La pupilla del Magnifico

“Seppur foss’io il bersaglio di questa macchinazione, sarebbe sempre la città di Firenze a soffrirne. È questo che conta. Salvare la pace della nostra gente.”

Florentine. La pupilla del Mgnifico”, scritto da Marina Colacchi Simone, racconta due vicende, una frutto della fantasia dell’autrice ed una storica, che si intrecciano nella Firenze della seconda metà del ‘400. 

La prima riguarda la giovane Vanna de’ Bardi, fanciulla orfana appartenente ad una casata fiorentina caduta in disgrazia, la quale viene chiamata a Firenze dallo zio Duccio Salimbeni, persona molto vicina al Signore della città, Lorenzo de’ Medici, per svolgere il compito di damigella della bella Simonetta Vespucci. Qui, la ragazza incontrerà due personaggi che daranno vita alla sua storia: l’amato Guido Montefiori e il temuto Matteo Orsini. 

Sullo sfondo di questa vicenda, si innesta lo svolgimento della Congiura dei Pazzi, ossia il complotto ideato da esponenti di alcune famiglie fiorentine avverse ai Medici e da personaggi di spicco della politica italiana dell’epoca, come Girolamo Riario e papa Sisto IV, volto ad annientare il potere del Magnifico, attraverso un attacco mortale ai danni suoi e del fratello Giuliano, che ebbe luogo il 26 aprile 1478, nella basilica di Santa Maria del Fiore a Firenze e che portò all’uccisione del giovane Giuliano de’ Medici. 

Attraverso una narrazione fluida, caratterizzata da uno stile raffinato che si avvale di un linguaggio consono all’epoca narrata, l’autrice sviluppa i due filoni del romanzo che si intrecciano tra loro, ma che si differenziano nell’esposizione. La vicenda che vede protagonista la giovane Vanna, seppur dinamica e avvincente, presenta alcune criticità relative ai dialoghi che appaiono poco incisivi e allo sviluppo in alcuni punti della trama, nei quali i personaggi percepiscono con molta facilità ciò che, in base al progredire della storia, non potrebbero sapere. Viceversa, la parte relativa alla Congiura risulta molto più penetrante ed è scandita da un ritmo che genera un crescendo di interesse nel lettore; inoltre, l’aderenza alla verità storica denota il lungo lavoro di studio delle fonti fatto dall’autrice. 

Per apprezzare appieno il romanzo è necessario addentrarsi nella lettura, in quanto, inizialmente la trama appare debole, mentre con il procedere della narrazione, si rivela interessante, coinvolgente e ben architettata. La caratterizzazione dei personaggi è valida, ma risulta piena per alcuni di loro, come ad esempio il perfido Matteo Orsini, mentre rimane più scarna per altri.

    Le scene sono chiare e ben delineate, l’ambientazione è efficace nel permettere al lettore di calarsi nel luogo e nel periodo narrato. Il contesto storico è ricreato, nonostante qualche licenza letteraria, in modo da sviscerare tutti i reali antefatti della congiura, in un susseguirsi di eventi che conduce al triste epilogo.

    “Florentine. La pupilla del Mgnifico” costituisce comunque una piacevole lettura, poetica ed emozionante, che ci trasporta nella Firenze medicea e che racconta il terribile avvenimento che cambiò per sempre la vita di Lorenzo de’ Medici. 

recensione, SAGGIO

I Medici

I Medici. Ascesa e potere di una grande dinastia”, scritto da Claudia Tripodi ed edito da Diarkos Editore è un saggio molto godibile sulla potente casata fiorentina.
Abbracciando un arco temporale di circa quattro secoli, da Giovanni de’ Bicci, il capostipite della famiglia, a Gian Gastone de’ Medici, ultimo esponente, racconta in diciassette capitoli lo sviluppo di questa gloriosa dinastia attraverso le vite dei suoi membri più illustri.
È un saggio completo, scritto in modo chiaro e scorrevole, che risulta esaustivo senza mai essere cattedratico; al contrario, appare fluido e coinvolgente.
Un punto di forza è l’affascinante delineazione delle personalità e delle caratteristiche personali peculiari di ogni personaggio raccontato, che arricchisce le biografie di ognuno, regalando una visione umanizzata di figure conosciute soltanto sui libri di scuola.
Inoltre, fornisce al lettore una panoramica dei fatti, italiani ed europei, più importanti dei vari periodi trattati, che fanno da sfondo alle vicende medicee e con esse si intersecano, come ad esempio il Sacco di Roma del 1527 o lo scisma della chiesa anglicana del 1534. Il testo appare, così, un valido strumento per conoscere la Storia del nostro Paese e d’Europa e per capire gli sviluppi del Rinascimento e dell’Età Moderna.
Nonostante sia un saggio ben particolareggiato, l’autrice non si perde in lunghi preamboli o noiosi incisi, ma va dritta al punto delle questioni, dimostrando l’abilità di saper mantenere viva l’attenzione del lettore.
Inoltre, fonti e citazioni sono dosate in maniera impeccabile e ben utilizzate, in modo da non appesantire la trattazione.
Altro pregio risulta essere lo spazio dedicato alla componente femminile ed ecclesiastica della famiglia.
I medici. Ascesa e potere di una grande dinastia” è un saggio oltremodo interessante, raccontato in maniera semplice; utile soprattutto ai quei lettori che vogliono approcciarsi alla storia della famiglia Medici e a quelli che vogliono andare oltre la figura del più noto Lorenzo il Magnifico e che non può mancare nella libreria di tutti gli appassionati di questa importante dinastia e della storia di Firenze. 

Fatti storici

La Congiura dei Pazzi. Parte 1

Nella storia di Firenze c’è un avvenimento che attira molto la mia curiosità, la Congiura dei Pazzi. Ho così deciso di dedicarmi alla lettura di tre saggi che affrontano questo argomento: il volume “Giuliano de’ Medici” della collana del Corriere della Sera “Grandi delitti nella Storia”, “La congiura. Potere e vendetta nella Firenze dei Medici” di Franco Cardini e Barbara Frale e “L’enigma Montefeltro” di Marcello Simonetta. Dopo la lettura di ognuno di questi testi, vi racconterò un aspetto diverso legato alla vicenda, partendo dal racconto del fatto, passando dal ruolo di Federico di Montefeltro nel complotto, per arrivare al cambiamento della personalità di Lorenzo de’ Medici in seguito alla morte del fratello. Ho iniziato dal volume “Giuliano de’ Medici”, un piccolo saggio che ripercorre motivazioni ed esecuzione della congiura e dà una panoramica sulla famiglia Medici. Da questa lettura, vi racconto il fatto.


Il complotto passato alla Storia come Congiura dei Pazzi nacque da un gruppo di personaggi i quali avevano, ognuno, una motivazione differente per desiderare la fine del dominio della famiglia Medici su Firenze. Era indubbio, infatti, il grande potere del Magnifico, che, nonostante fosse amato e acclamato dal popolo, stava stretto a molte persone, dentro e fuori la città.
Vi era, in primis, una fazione fiorentina anti Lorenzo capitanata dalla famiglia Pazzi; poi Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, a cui era stato negato l’ingresso nella città; Papa Sisto IV che, fin dai contrasti sorti con Lorenzo sulla questione di Città di Castello, aveva creato una spaccatura nei rapporti con il Magnifico; e, infine, Girolamo Riario, nipote del Papa, che vedeva Firenze come una possibile conquista per allargare i propri domini. Ad essi, si aggiunsero una serie di personaggi minori, che furono anche autori materiali dell’omicidio. Inoltre, pare abbia avuto un ruolo in questa vicenda anche il padrino di battesimo di Lorenzo, Federico da Montefeltro.
Questo complotto culminò nell’assassinio del fratello minore di Lorenzo, Giuliano, appena venticinquenne, perpetrato nella basilica di Santa Maria del Fiore, a Firenze, al termine della messa pasquale, il 26 aprile 1478. Un delitto terribile sfociato nella blasfemia, consumato in un luogo sacro e durante la più importante funzione cattolica, al cospetto di Dio.
Tuttavia, questo aspetto sacrilego fu la salvezza di Lorenzo. Infatti, il primo obiettivo dei congiurati, che mirava al rovesciamento della fazione medicea e all’annientamento della cripto signoria che si era formata,  era proprio il Signore de facto di Firenze. Incaricato del suo omicidio era il condottiero marchigiano Giovanni Battista Conte di Montesecco, il quale, una volta appreso che, in ultimo, l’agguato si sarebbe tenuto in una chiesa, si rifiutò, lasciando il compito a due inesperti.
I congiurati, infatti, avevano una sola certezza: entrambi i fratelli dovevano essere eliminati fisicamente, altrimenti, alla morte del solo Lorenzo, Giuliano, anch’egli molto amato dal popolo e capace forse più del fratello, avrebbe assunto le redini della Signoria.
Così, in principio, l’omicidio fu previsto in occasione di un viaggio di Lorenzo a Roma, che però venne rimandato; successivamente si decise per due banchetti, ai quali però Giuliano non presenziò. Infatti, in quel periodo, difficilmente i due fratelli si presentavano insieme in pubblico, forse proprio perché doveva essere trapelata qualche notizia di un’intesa segreta ai loro danni. Fin dall’inizio dell’organizzazione, quindi, circa un anno prima dell’esecuzione, si rivelò un piano approssimativo, continuamente rimaneggiato a causa dei continui impedimenti.
Anche la decisione di agire durante la messa rischiò di risultare vana, in quanto Giuliano non si presentò nemmeno quella volta. Ma Francesco de Pazzi decise di andare a prenderlo a casa e accompagnarlo in chiesa a funzione iniziata, trascinato tra motti scherzosi e infidi abbracci (volti a verificare l’eventuale utilizzo di protezioni) proprio dai suoi sicari.
I due fratelli ascoltarono la messa a ridosso dell’ottagono che corre intorno all’altare maggiore, uno sul lato destro e uno sul lato sinistro, come erano soliti fare proprio per ridurre il rischio di attentati.
Al termine della liturgia, proprio nel momento in cui l’officiante, che quel giorno era il sedicenne neo cardinale Raffaele Riario, nipote del Papa, pronunciò l’Ite missa est, Bernardo Bandini Baroncelli e Francesco de Pazzi estrassero il pugnale e colpirono il povero Giuliano. Contemporaneamente, Antonio Maffei da Volterra e Stefano da Bagnone si avventarono contro Lorenzo, che riuscì a salvarsi proprio grazie all’inesperienza dei due, che lo colpirono soltanto di striscio, permettendogli, così, di nascondersi nella sagrestia insieme ad alcuni amici e sostenitori.
Giuliano, invece, fu massacrato dalle 19 coltellate inferte con estrema ferocia da Francesco de Pazzi, il quale, nella foga, si ferì ad una gamba. Fu lasciato a terra, in una pozza di sangue, mentre i presenti scappavano e scortavano Lorenzo, ancora ignaro della sorte dell’amato fratello, nel palazzo di famiglia in quella che era Via Larga, oggi via Cavour.
Questo evento ebbe l’effetto opposto a quello perseguito dai congiurati: il popolo di Firenze si strinse intorno al suo Signore, scagliandosi contro gli esecutori del delitto e accrescendo così il potere di Lorenzo che, in quel momento decisivo, venne sancito e ribadito con la forza di un patto di sangue.
Mandanti ed esecutori materiali subirono la violenta e spietata vendetta del Magnifico. Vennero catturati, torturati e condannati alla pena capitale; i ritratti dei loro corpi impiccati vennero commissionati a Sandro Botticelli e dipinti secondo il canone delle pitture infamanti.
In questo modo, Lorenzo aprì anche una vendetta contro Papa Sisto IV, che sfociò in una guerra che si concluse con una pace siglata dal pontefice il 13 marzo 1479.
Da quel momento, però, nonostante fosse riuscito a vendicare la morte di Giuliano, Lorenzo cambiò per sempre. Ma di questo vi parlerò nei prossimi articoli.

A cura di Deborah Fantinato

Giuliano de’ Medici in un ritratto di Sandro Botticelli
Romanzo storico

L’amore del Magnifico

Nella Firenze della seconda metà del ‘400, due giovani si amano profondamente, pur essendo consapevoli che il loro sentimento non potrà mai vedere la luce del sole: sono Lorenzo de Medici e Lucrezia Donati.
I doveri di entrambi, infatti, li legano ad altre persone: Lorenzo è costretto a sposare Clarice Orsini, mentre Lucrezia va in sposa a Nicolò Ardinghelli.
Ma questi matrimoni saranno sufficienti a spegnere il fuoco che divampa tra i due protagonisti?
Sullo sfondo del rinascimento fiorentino, si svolgono passioni, dolori e intrighi intorno a Lorenzo e Lucrezia, che vengono circondati da una moltitudine di illustri personaggi che animano la loro vicenda.
Questa è la trama di “Io che ho amato il Magnifico” di Annalisa Iadevaia, edito da IoMeloLeggo Editore.
Un romanzo che ha per protagonista l’amore tra Lorenzo il Magnifico e Lucrezia Donati, una storia che, sebbene sia basata su fatti e personaggi storici, è interamente frutto della fantasia dell’autrice.
Nonostante una penna ancora un po’ immatura, Annalisa Iadevaia è riuscita a creare una trama originale e gradevole attorno a figure storiche spesso oggetto dell’attenzione degli scrittori.
Sebbene sia presente una certa confusione verbale che disorienta la lettura circa il tempo della narrazione, il racconto risulta piacevole e la trama ben organizzata, con interessanti colpi di scena che appassionano il lettore. Si denota anche una buona caratterizzazione dei personaggi, in particolare delle donne che circondano la figura del Magnifico.
L’abilità dell’autrice permette di percepire le emozioni dei protagonisti e di immedesimarsi in essi, rendendo coinvolgente la lettura.
La mancanza di totale attinenza alla realtà storica non penalizza il racconto, che riesce nell’arduo compito di appassionare il lettore fino all’epilogo. Infatti, l’idea dell’autrice di inserire nella storia personaggi estranei alla reale vicenda sottesa (come Leonardo da Vinci, Girolamo Savonarola, Simonetta Vespucci) dona un tocco di originalità che permette al romanzo di distinguersi nel vasto panorama di libri dedicati alla figura di Lorenzo de Medici.
Un romanzo che, tra passioni, sofferenze, amori negati e indesiderati e complotti, è capace di trasportare il lettore un’altra dimensione, permettendo anche il più accanito lettore di romanzi storici di superare i propri limiti.

INTERVISTA

Due chiacchiere con gli autori: BARBARA FRALE

In concomitanza con la messa in onda della nuova stagione della serie RAI “I Medici – Nel nome della famiglia”, vi propongo la mia intervista alla curatrice della consulenza storica della serie, BARBARA FRALE, nonché abile autrice di romanzi e saggi storici, il cui ultimo lavoro è “Cospirazione Medici”, secondo capitolo della saga dedicata alla potente famiglia fiorentina, edito da Newton Compton Editori.

A voi la nostra chiacchierata sulla famiglia più famosa della storia.

La famiglia Medici ha sempre suscitato grande interesse negli scrittori storici. Quale fascino ha avuto su di lei da indurla a dedicarle due romanzi?

Mi affascina la grandiosità delle loro idee, la visione che Cosimo ma poi anche Lorenzo hanno della famiglia e della Patria. I Medici erano grandi patrioti, indubbiamente.

“ In nome dei Medici” è incentrato sulla figura di Lorenzo, in “Cospirazione Medici” il protagonista è Giuliano. Cosa l’ha spinta a concentrarsi su questa generazione della famiglia fiorentina?

Lorenzo ha dato l’impronta del suo genio a Firenze, è un’icona del Rinascimento italiano, anche se Cosimo gettò le basi per il successo futuro della famiglia. Sulla generazione di Lorenzo abbiamo molti più documenti: io sono uno storico, i documenti vengono prima di tutto.

“ Cospirazione Medici ” vede, appunto, protagonista il cadetto dalla famiglia Medici, Giuliano, un personaggio che è sempre stato offuscato dall’ingombrante figura del fratello Lorenzo. Qual è la sua considerazione di Giuliano? Quanto era diverso dal Magnifico?

Giuliano per certi aspetti era agli antipodi rispetto al fratello maggiore: cioè cauto laddove Lorenzo tendeva ad essere arrogante, pieno di sé. E prudente, mentre Lorenzo amava gli azzardi. In qualche modo, Giuliano somiglia molto più al nonno Cosimo.

Nel suo ultimo romanzo, viene dedicato spazio anche a Lorenzo il Magnifico, dal quale emerge il suo lato più negativo. In particolare si nota la sua crudeltà verso i nemici, l’incapacità di gestire proficuamente il Banco di famiglia: aspetti del Magnifico che, nell’immaginario comune, non vengono ricordati. Come veniva considerato dai suoi contemporanei?

Molte fonti lo dicono un tiranno, ma bisogna sempre tenere conto del fatto che queste voci non sono proprio disinteressate, bensì arruolate a interessi rivali. Diciamo che nel quadro del Rinascimento italiano, periodo in cui l’intrigo e il delitto politico vengono elevati al rango di arte, Lorenzo il Magnifico resta pur sempre un grande statista, e anche dei meno crudeli. Certo, è vero che le sue vendette dopo l’assassinio di Giuliano tinsero di sangue le strade di Firenze.

Crede che, nel tempo, la figura di Lorenzo sia stata in qualche modo mitizzata?

Sì, ma era un uomo all’altezza del proprio mito. Giuliano forse lo eguagliava se non superava, ma il destino non gli offrì il modo di dimostrare il suo valore.

“ Cospirazione Medici ” racconta delle cause che hanno condotto alla Congiura dei Pazzi, nel quale rimase ucciso Giuliano de Medici. Le teorie in merito che emergono nel romanzo hanno tutte fondamento storico?

Assolutamente sì; ho dovuto aggiungere un 5% di invenzione di contro a un 95% di vero storico altrimenti non avremmo potuto definirlo “romanzo”.

Cosa è cambiato nella famiglia Medici dopo l’attacco in Santa Maria del Fiore?

Lorenzo ne uscì distrutto, cambiato nell’intimo, incupito. Il Magnifico aveva in serbo grandi progetti per Giuliano, era il suo braccio destro, e anche se lo trattava a volte con sufficienza, ne rimpianse la mancanza per tutta la vita. I Medici non saranno più gli stessi, dopo quel tragico 26 aprile 1478.