ANTICA ROMA

Il mestiere del gladiatore. Alla scoperta della vita dei combattenti del Colosseo

Il celebre film Il gladiatore di Ridley Scott racconta di come il generale romano Massimo Decimo Meridio, dopo essere scampato alla condanna a morte da parte dell’imperatore Commodo, riesca a tornare a Roma per vendicarsi, in veste di gladiatore acclamato dal popolo. Dalla pellicola intuiamo che i gladiatori erano uomini che non potevano sottrarsi a quel destino. In realtà, a Roma, quella del gladiatore poteva una scelta, che portava grande fama, proprio come nel caso dell’auriga, che correva nel Circo Massimo.

I giochi gladiatorii si diffusero a Roma in epoca repubblicana, tra la fine del IV e l’inizio del III secolo, accanto ad altre due forme di divertimento popolare, le corse dei carri e il teatro. Tre forme di intrattenimento organizzate e offerte dallo Stato. Tuttavia, i primi combattimenti tra gladiatori erano di natura privata. Riguardavano, infatti, le cerimonie funebri in onore di personaggi importanti, a cui i parenti volevano facilitare il passaggio nel regno dei morti e che volevano, al contempo, dimostrare ricchezza, prestigio e potere. Nel corso del II secolo a.C., però, questa pratica si trasformò in un potente mezzo per ottenere il favore popolare. Le famiglie dell’alta società romana, infatti, iniziarono a investire in questi spettacoli quantità sempre maggiori di tempo e denaro. Nel 42 a. C., la sottile linea di separazione tra i ludi organizzati dallo Stato e quelli privati venne meno. In un momento di preoccupazione per le sorti della Repubblica si pensò che le corse dei carri non fossero più sufficienti a rendere propizi gli dèi, così vennero sostituiti con i combattimenti tra gladiatori. Da quel momento, vennero organizzati a spese di Roma, anche se ancora mancava un luogo adatto a questi giochi, che si svolgevano al Foro Romano. A far costruire un anfiteatro apposito (imitato in altri luoghi dell’Impero), ci pensò l’imperatore Vespasiano: nell’80 d.C., nacque l’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto come il Colosseo, e gli spettacoli dei gladiatori diventarono ancora più popolari.

Ma come si diventava gladiatori?

Attraverso l’addestramento nei ludum gladiatorum, le scuole per gladiatori, gestite dai maestri privati, i lanisti. Nell’Impero ce n’erano oltre cento, ma le più importanti erano le quattro scuole di Roma, tutte posizionate nei pressi del Colosseo e gestite dai procuratores dell’imperatore. La più grande tra questa era il ludus magnus (i cui resti sono ancora visibili), direttamente collegata al Colosseo. Poi vi erano il ludus dacius, per l’addestramento dei Daci, il ludus gallicus, dove si addestravano i Galli, e il ludus matutinus, dedicato ai gladiatori che combattevano contro gli animali feroci, i venatores e i bestiarii.

Erano tre le tipologie di uomini che si potevano trovane nei ludus. Innanzitutto, i prigionieri di guerra, poi gli schiavi condannati per reati gravi, come omicidio, avvelenamento o profanazione del tempio (paradossalmente, in questo modo, veniva loro offerto un modo per riscattarsi, dato che potevano anche comprarsi la libertà con i guadagni dei combattimenti), e uomini liberi che si arruolavano volontariamente, perché attratti dalle forti emozioni e dai guadagni. Questi ultimi erano soprattutto soldati in congedo che faticavano a tornare alla vita cittadina oppure uomini che non avevano di che vivere, dato che l’essere parte della scuola garantiva vitto, alloggio e cure mediche. Si può dire che, dal I secolo, gli uomini liberi costituivano la metà dei gladiatori. Tra questi, vi erano anche figli di senatori e cavalieri che, per qualche ragione, erano divenuti pecore nere delle famiglie. Inoltre, ci sono stati anche diversi imperatori che hanno vestito i panni del gladiatore, come l’imperatore Commodo. Fino al 200 vi furono anche gladiatrici, i cui combattimenti vennero poi vietati perché considerati un insulto alle virili virtù militari.

Oltrepassata la soglia della scuola, l’aspirante gladiatore veniva esaminato da un medico che ne analizzava fisionomia e personalità. Erano ammessi solo gli uomini che risultavano adatti all’arena. Superato l’esame, veniva sottoposto all’addestramento e a ripetuti esami da parte dei medici che li affiancavano. Il gladiatore rappresentava, infatti, un investimento per il lanista, che quindi aveva interesse a che si mantenesse in salute. Il gladiatore veniva affidato a uno speciale allenatore, di solito un ex gladiatore, ed era assegnato a una particolare arma, scelta dal lanista, alla quale veniva allenato con esercizi massacranti, che gli permettevano di imparare certi automatismi utili a diventare una vera e propria macchina da combattimento. In questo modo, all’interno della scuola si creava una gerarchia tra i gladiatori che, per tutta la vita, cercavano di raggiungere la vetta.

La maggior parte di loro moriva tra i ventuno e i trent’anni, con all’attivo da cinque a trentaquattro combattimenti, i quali potevano essere svolti da una a quattro volte l’anno, sia perché dovevano avere il tempo di riprendersi dalle ferite, sia per non annoiare il pubblico. I combattenti ultratrentenni erano pochi ed erano i migliori, nonché i più fortunati per aver avuto più volte la grazia. Infatti, il combattimento per il gladiatore poteva finire in cinque modi: poteva vincere, poteva essere ucciso, poteva essere giustiziato dopo essersi arreso (per volere dell’imperatore o del pubblico), poteva ottenere la grazia e uscire vivo, oppure poteva uscire insieme all’avversario se il combattimento finiva in parità. Alcuni tra i gladiatori più forti e famosi combatterono anche oltre i quarant’anni e fino addirittura ai sessanta. Erano valorosi e rappresentavano un modello di virilità, che esercitava un grandissimo fascino sulle le donne, sia del popolo che dell’alta società.

I gladiatori vivevano all’interno della scuola e combattevano nelle arene dell’Impero. A Roma, i giochi erano organizzati dal procurator munerum dell’imperatore. Egli trattava con i lanisti e sborsava ingenti cifre per garantirsi la presenza dei guerrieri famosi. Queste cifre, che andavano dai mille-duemila sesterzi per i gregarii, ossia i gladiatori di ultima categoria, fino ai quindicimila sesterzi per i campioni, finivano, per la maggior parte, nelle tasche del maestro della scuola. Al gladiatore era infatti lasciata solo una misera mancia ed egli non riusciva ad arricchirsi nemmeno con i premi che, il più delle volte, erano costituiti da corone o ramoscelli d’ulivo e qualche moneta. Erano rari gli spettacoli in cui venivano assegnati premi corposi, dei quali, comunque, spettava una percentuale al lanista (gli schiavi potevano tenere solo il 20% del premio, mentre i liberi il 25%, il resto spettava al maestro). Per questi motivi, erano pochi gli schiavi che riuscivano a pagarsi la libertà con i guadagni e, anche nel caso in cui riuscivano, spesso stipulavano contratti per continuare a esibirsi anche dopo la liberazione. Per gli ex gladiatori, le possibilità al di fuori dell’arena erano, infatti, limitate, perché sapevano solo combattere, ma la carriera militare era loro preclusa. Potevano ambire a un lavoro come guardia del corpo di qualche cittadino (cosa che avveniva di frequente in epoca repubblicana) o a un impiego presso l’imperatore, ma la stragrande maggioranza rimaneva all’interno della scuola fino alla morte. Se non morivano in giovane età, restavano come allenatori o guardiani o addetti alle pulizie.

Nell’arena, ogni gladiatore combatteva con l’arma alla quale era stato addestrato e che rimaneva la stessa per tutta la carriera. Poteva essere la lancia, il giavellotto, la spada o il pugnale, di diversi generi. Erano previsti elmi, scudi, protezioni per le gambe e per il braccio che impugnava l’arma e anche corazze, le quali però non venivano usate. I gladiatori, infatti, si esibivano a petto nudo in segno di sottomissione, in quanto erano l’imperatore e il pubblico a disporre della loro vita, e anche per essere pronti a offrire la schiena o il collo per il colpo di grazia in caso di condanna a morte. Vediamo le categorie dei gladiatori in base alle armi usate:

  • I traci, muniti di spada ricurva abbastanza corta e scudo,
  • I mirmilloni, con lo scudo allungato e la spada a doppio taglio; impiegati soprattutto contro il reziario,
  • Gli oplomachi, muniti di un piccolo scudo di bronzo, che iniziavano a combattere con la lancia, per poi passare alla spada corta,
  • I reziari, senza elmo, scudo e gambali, ma solo con una fasciatura sul braccio sinistro e una protezione in bronzo sulla spalla, muniti di una rete tonda a maglie larghe e un tridente,
  • I secutores, con l’elmo che proteggeva tutto il viso, lasciando solo due piccoli fori per gli occhi. Avevano campo visivo limitato e, per questo, dovevano avvicinarsi il più possibile all’avversario,
  • Gli equites, che gareggiavano solo tra di loro, iniziavano il combattimento a cavallo e usavano spade e lance,
  • I provocatores, con un lungo scudo rettangolare, corazza, un solo gambale e una spada corta,
  • I paegnarii, che si esibivano nell’intervallo di mezzogiorno con spettacoli tragicomici, senza elmo né scudo, ma solo con un’armatura di cuoio, muniti di una frusta e di un bastone dalla punta a uncino. Erano, per lo più, gladiatori anziani con difetti fisici,
  • Gli andabatae, con gli occhi bendati o con fori dell’elmo coperti che si affrontavano con la spada.

Ora che conosciamo coloro che combattevano nel Colosseo, vediamo come si svolgevano i giochi. Il programma del grande anfiteatro romano era suddiviso in tre parti: al mattino i combattimenti tra animali; a mezzogiorno le esecuzioni di criminali e schiavi che avevano tentato la fuga ed esibizioni più leggere, come gare di atletica o numeri comici; al pomeriggio i combattimenti tra gladiatori.

Il programma mattutino era, a sua volta, diviso in tre parti. Si iniziava con i combattimenti tra animalidiversi, soprattutto nella combinazione orso-toro, in cui anche il vincitore veniva poi abbattuto. Dopo questo spettacolo, si passava ai numeri circensi con gi animali addestrati e, infine, si assisteva alla venatio, ossia il confronto tra animali e uomini: i venatores, cioè i cacciatori, e i bestiarii, ossia gli uomini che combattevano contro le belve. Erano i cacciatori a iniziare con una battuta collettiva ad animali innocui, per poi passare a quelli feroci. Terminata la caccia, era la volta dei bestiarii che davano vita due tipologie di spettacoli: quello che assomiglia molto al rodeo texano, in cui il combattente saltava in groppa a un toro per cercare di immobilizzarlo torcendogli il collo, e quello in cui l’uomo combatteva contro un orso, un leone o una tigre munito solo di un giavellotto.

Arrivati a mezzogiorno, chi non si allontanava per il pranzo, assisteva alle esecuzioni. I condannati a morte (che avevano trascorso la loro ultima notte in una cella nelle catacombe) venivano divisi in due gruppi: da una parte i romani colpevoli di omicidio, dall’altra i non cittadini e gli schiavi. La prima esecuzione era quella dei cittadini di Roma che venivano uccisi con la spada, quindi velocemente. Gli altri, invece, venivano condannati al supplizio della croce, bruciati vivi o dati in pasto alle belve; alle volte, venivano combinate due modalità (ad esempio, potevano essere inchiodati alla croce e poi dati alle fiamme oppure venivano appesi alla croce in modo che le belve potessero arrivare a sbranarli). In alcuni casi, però, anche per i cittadini l’esecuzione poteva avvenire in altro modo. Due di loro venivano buttati nell’arena: uno disarmato scappava mentre l’altro lo inseguiva armato di spada, finché non lo uccideva. L’inseguitore veniva poi giustiziato a sua volta. Tuttavia, le esecuzioni erano probabilmente noiose per il pubblico e, per questo, gli organizzatori ne collocavano una parte in un contesto mitologico, in esibizioni che presentavano miti celebri.

Terminate le esecuzioni e rientrati quanti erano usciti per pranzare in una delle bancarelle che circondavano l’anfiteatro, si arrivava allo spettacolo più atteso: i combattimenti tra gladiatori. Iniziava tutto con una processione in pompa magna, che proveniva dalle catacombe accompagnata dal suono di trombe, corni e doppi flauti, sostava al centro dell’arena (in cui i gladiatori toglievano elmo e scudo per far ammirare i loro fisici possenti), per poi scomparire di nuovo nelle catacombe. Terminata la processione, a cui prendevano parte l’organizzatore dei giochi e i suoi servitori, iniziava il riscaldamento dei gladiatori, chiamato preludio, con le armi di legno. Al segnale degli arbitri, i gladiatori lasciavano l’arena e venivano introdotte le armi ufficiali. La prima coppia di combattenti entrava con un sottofondo musicale molto trascinante e si posizionava al centro dell’arena. Qui bisogna sfatare il mito che vuole i gladiatori abituati a salutare l’imperatore con le parole Ave Caesar, morituri te salutant. Questo saluto, infatti, è stato riportato solo da Svetonio che lo indicò come pronunciato solo una volta prima di una naumachia. Gli studiosi ritengono, quindi, che sia ingiustificato credere che si trattasse di un’abitudine dei gladiatori. In ogni caso, saluti a parte, arrivava qui il momento per i combattenti di mettere in pratica quanto appreso durante l’addestramento. Entrambi si muovevano con competenza e precisione, mai alla cieca, anche perché spesso si conoscevano tra loro e sapevano quali erano i punti forti e deboli dell’altro. Inoltre, i due gladiatori erano quasi sempre di pari livello; solo di rado veniva accoppiato un veterano con un giovane alle prime armi. Per questo motivo, la durata del combattimento era sconosciuta. Se entrambi erano quasi sfiniti, l’arbitro concedeva una breve pausa e se, dopo la pausa, ancora non c’era un vincitore, egli sospendeva la sfida e chiedeva il giudizio dell’imperatore e del pubblico. Ai gladiatori che si erano battuti con coraggio veniva concessa la stantes missi, ossia l’uscita trionfale in piedi. Tuttavia, la maggior parte dei duelli finiva con un vincitore. Tutti i gladiatori erano addestrati a morire con dignità, ma a volte qualche perdente si arrendeva, abbassando spada o tridente e buttandolo a terra, e invocava la grazia (se non moriva per le ferite riportate). In questo caso, l’arbitro interveniva per impedire che il vincitore lo finisse e si rivolgeva all’organizzatore dei giochi (nel Colosseo era sempre l’imperatore, per mezzo di un procurator) per chiederne il parere. L’imperatore a sua volta, spesso, lasciava il giudizio al pubblico. Nel frattempo, il gladiatore attendeva sperando nella grazia. Se sentiva gridare mitte, usciva vivo per tornare nella scuola; se invece sentiva iugula, sapeva che il pollice di tutti gli spettatori era verso e che la sua fine era arrivata. Allora, stringeva le mani sulle spalle o le gambe del vincitore e si inchinava aspettando il colpo di grazia tra le scapole o sulla nuca. Poi veniva caricato su una barella e fatto uscire dalla Porta Libitinaria (della morte), per essere portato nello spoliarium, un locale in cui era spogliato delle armi e in cui gli veniva tagliata la gola, per essere certi che non fingesse la morte. Solo raramente l’imperatore ignorava la decisione del popolo e concedeva la grazia. Il vincitore, invece, si avvicinava al palco imperiale per ricevere il premio (un ramoscello d’ulivo e qualche moneta), salutava la folla e usciva dalla Porta Sanavivaria (della vita). Il suo valore di mercato era cresciuto.

Chiudeva i giochi la distribuzione dei doni da parte dell’imperatore. Dall’alto dell’anfiteatro venivano buttate giù delle palline di legno con vari simboli che indicavano monete, vestiti, cibo o suppellettili d’argento e chi le afferrava doveva portarle ai funzionari per ritirare la cosa indicata. In questo modo, l’imperatore esibiva il proprio potere e cercava di guadagnarsi la lealtà del popolo.

I giochi gladiatorii erano affascinanti agli occhi dei romani perché simboleggiavano lo splendore di Roma ed esprimevano le virtù romane come il valore, la forza e il coraggio. Per questo tra il I e il III secolo, non si poteva immaginare Roma senza i gladiatori. Tuttavia, nel III secolo le province dell’Impero dovettero affrontare le invasioni barbariche che portarono una forte recessione economica. Per questo, i costosissimi spettacoli gladiatorii vennero abbandonati, sostituiti con spettacoli più economici. Inoltre, i combattimenti tra gladiatori si scontrarono con la diffusione del cristianesimo, che ne era avverso. Nella capitale, il graduale declino di questi spettacoli iniziò nel IV secolo.

A questo punto, tornando al film citato all’inizio, molti di voi avranno capito che Il gladiatore di Ridley Scott non è storicamente attendibile quanto ai combattimenti tra gladiatori. Chi lo ha visto ricorderà i duelli tra molteplici gladiatori contemporaneamente, oppure tra gladiatori e animali nello stesso momento, oppure ancora combattenti con maschere di fantasia. Tutto ciò non corrisponde a quanto accadeva realmente nell’Antica Roma.

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ANTICA ROMA, recensione, Romanzo storico

“La dinastia dei re” di Alessandro Troisi

“Così diversi, così uguali. Non sapeva cosa fare, senza di lui. Senza il suo impeto, senza la sua furia, non sarebbe stato altro che un essere incompleto. Erano tutt’uno, due facce della stessa esistenza.”

Tutti conosciamo la leggenda della fondazione di Roma, che deve i suoi natali al giovane Romolo, gemello di Remo, nel 753 a.C. Ma la storia di Roma ha radici ben più lontane nel tempo.

Dopo essere scappato da Troia, Enea approda nel Lazio dove, dopo aver sconfitto il re dei Rutuli, fonda la città di Lavinium. In seguito, suo figlio Ascanio fonda a sua volta la città di Alba Longa. Ed è proprio qui che, nel VIII secolo a. C., ha inizio la storia di Romolo e Remo, che Alessandro Troisi ci racconta nel suo nuovo romanzo, “La dinastia dei re”, edito da Newton Compton Editori. La narrazione prende avvio quattro secoli dopo la nascita di Alba Longa, sotto il regno di Numitore, fratello dello spregevole Amulio. In questa prima parte del romanzo, la trama è incentrata sul periodo precedente la nascita dei gemelli, per poi sportarsi su di loro nella seconda parte.

L’autore ci racconta, così, di due ragazzi molto diversi tra loro. Remo, guidato dalla passione, impulsivo e volto all’azione; Romolo, invece, riflessivo, saggio e pianificatore. Come un leader e il suo braccio destro. Entrambi coraggiosi, battaglieri, determinati, guidati da forti ideali. Due ragazzi di nobili origini che combattono contro il potere usurpato da un tiranno senza scrupoli.

“Sono un membro del popolo di Alba, sono un combattente che non chiede altro che un trattamento equo e giusto per me e per le persone che amo, così come fanno i miei concittadini. Io e mio fratello siamo nati da una famiglia povera. Ma ci siamo resi conto presto che la giustizia e il buon governo hanno abbandonato queste terre da tempo. Che il re che dovrebbe far valere la sua autorità è scomparso all’ombra del suo fratello più crudele e volitivo. Per cui sì, so esattamente chi sono e cosa voglio. E in questo momento non c’è nulla e nessuno che possa farmi ricredere.” Romolo

È ammirevole la caratterizzazione dei personaggi, che sono resi in modo vivido e tridimensionale, permettendo una migliore immersione nella storia.

“E così, il Fato torna a muovermi guerra. Dovevo immaginare che le sue trame contro di me non fossero affatto concluse. Ma il Signore delle sorti non mi vincerà. Questo è il mio regno, il regno che ho conquistato. Che mi corra incontro, il Fato. Mi troverà qui ad attenderlo.” Amulio

La prosa fluida e scorrevole permette di procedere velocemente tra le pagine di un racconto che cattura l’attenzione del lettore fin dalle prime parole. La ricostruzione dell’ambientazione è essenziale, ma riesce comunque a rievocare il clima nel quale è ambientata la vicenda. L’ottimo uso dei dialoghi rende il romanzo molto ritmato e appassionante, in grado di conquistare anche i lettori poco inclini a questo periodo storico. È poi davvero interessante il modo in cui l’autore ha saputo ricostruire la vicenda dei due protagonisti, attingendo dalle fonti storiche. Tra personaggi storici e di fantasia, l’autore è riuscito a restituirci il confine tra storia e leggenda senza discostarsi in modo eccessivo dalle fonti. Le scene sono incisive, in particolar modo quelle di battaglia, che riescono a rimandare in modo netto l’immagine senza essere inutilmente prolisse.

“Romolo sguainò la spada e insieme ripresero ad avanzare verso le scale, circospetti, mentre tutt’intorno a loro continuava il fracasso della battaglia e vampate di luce rossastra arrivavano di tanto in tanto a illuminare la scena.”

La dinastia dei re” è un romanzo scorrevole e appassionante, che incuriosisce ed emoziona. Ed è la nuova prova con cui Alessandro Troisi ha dimostrato di essere davvero un abile narratore.  

BLOG TOUR

“La figlia di Cesare” di Andrea Oliverio – Blog Tour

Seconda tappa per il blog tour del nuovo romanzo di Andrea Oliverio, “La figlia di Cesare”, organizzato da Roberto Orsi di Thriller Storici e Dintorni, che ringrazio per l’invito.

Questo nuovo romanzo si pone come terzo e ultimo capitolo della saga dedicata a Giulio Cesare. Ci troviamo nella Roma repubblicana nel 49 a.C.; a reggere il governo della città c’è il magister equitum, Marco Antonio e il popolo è diviso in due fazioni: chi sostiene il Pontefice Massimo Gaio Giulio Cesare e chi, invece, parteggia per il rivale Gneo Pompeo Magno. Addirittura, c’è chi pensa anche a una terza via. A Roma, insomma, il fantasma della guerra civile non può mai dirsi allontanato.

Protagonista del romanzo è il centurione Lucio Servilio Verre e, in questa lotta per il potere tra Cesare e Pompeo, in primo piano troviamo l’esercito romano e le battaglie tra gli schieramenti. Verre si ritrova, infatti, costretto a lasciare Roma e la sua amata Letizia per partire alla volta dell’Illiria ad affrontare l’esercito di Pompeo. È un centurione, un ufficiale, e per lui, come per gli altri soldati, vige il giuramento di servire l’Aquila fino alla morte. A ogni soldato romano, infatti, era imposto il sacramentum, il giuramento di fedeltà pronunciato, in una solenne cerimonia al termine dell’addestramento militare, proprio davanti all’Aquila della legione, e che veniva ripetuto ogni anno.

“Giuro di servire e obbedire alla mia legione, giuro di eseguire i suoi ordini e di seguirla ovunque essa mi conduca, di non abbandonare mai le insegne, di non darmi alla fuga, di non uscire dalle mie fila, se non per afferrare un’arma o attaccare un nemico oppure per aiutare un compagno. Prometto, inoltre, di essere fedele alla Patria, al Senato e al popolo romano”

Queste erano le probabili parole pronunciate dai legionari, così come citate in alcune fonti, che pongono come primo impegno proprio quello di obbedire. Ma rispettare questo voto, spesso, per un soldato significa andare contro la propria coscienza. E già alla partenza per questa battaglia, notiamo come Verre sia combattuto tra il dovere di eseguire gli ordini e il desiderio di restare accanto a Letizia. Ma “obbedire agli ordini: questo è quello che deve fare un buon soldato” dice Tito Pullo, padre di Letizia, a un suo sottoposto, e questo è ciò che chiede Roma ai suoi uomini. Cosa succede, però, se gli ordini appaiono sbagliati? È qui che in alcuni soldati si genera un tormento interiore che li porta a chiedersi se sia giusto eseguire quanto impartito dai superiori anche a discapito delle proprie convinzioni. Gli ordini, infatti, possono sembrare senza senso, possono apparire in contraddizione con gli interessi delle legioni, eppure a un soldato è richiesto il rispetto assoluto. È sempre Tito Pullo a dire “Ricorda ragazzo: che ti piaccia o no, gli ordini vanno rispettati anche quando ritieni che non abbiano senso. I comandanti comandano, i soldati eseguono”.

E ordini come quelli di violentare i civili, di saccheggiare le città, di uccidere innocenti sono quelli che soldati come Verre faticano a sopportare, ma che sono comunque tenuti a rispettare. Perché ciò che contraddistingue un buon soldato è proprio questa capacità di rispettare il proprio ruolo, la gerarchia, di eseguire le direttive, lasciando dubbi e titubanze relegate nell’anima. “Non vado fiero di ciò che ho fatto, ma sono un soldato e obbedisco agli ordini.” L’autore, con il suo stile avvincente e fluido, è molto abile nel calare il lettore nei panni di questi soldati spesso vittime di una crisi interiore che vede contrapposta la coscienza al dovere. Ed è nel momento in cui un legionario vede la realtà infrangersi contro i propri ideali, che diventa più difficile mantenere fede al giuramento di servire Roma.

Infatti, nel romanzo troviamo anche traccia di chi, in questo conflitto interiore, lascia prevalere la coscienza, infrangendo il sacramentum: i disertori. “Non volevamo morire guidati da un comandante incapace e da un centurione ubriacone”: parole di chi, contravvenendo agli ordini a discapito dell’onore, preferisce seguire un ideale.

Faccio i miei complimenti ad Andrea Oliverio, perché “La figlia di Cesare” è un romanzo davvero appassionante, curato e storicamente impeccabile.  

recensione, Romanzo storico

“Artorius” di Pierluigi Curcio

“Nonostante il sangue della tua giovane vita, non sei immortale. Ci sarà sempre una punta di freccia o lancia pronta a spedirti nei Campi Elisi. Se non sarai veloce per reagire all’istante, senza pensare, se non sarai disposto a uccidere anche chi ritieni essere un fratello, beh, ragazzo mio, faresti bene a darti subito la morte. Roma ha il suo prezzo e alla fine te ne renderà conto.”

Lucio Artorio Casto fu un centurione romano al servizio dell’imperatore Marco Aurelio prima e del suo successore Commodo poi. Una figura storica poco conosciuta, ma che sembra aver dato avvio al fenomeno della cavalleria che si sviluppò nel Medioevo e che si dice sia il personaggio alla base della leggenda di Re Artù.

Pierluigi Curcio, nel suo romanzo “Artorius”, prova a immaginarne l’esistenza. I dati certi su questo personaggio storico sono molto scarsi e sono costituiti soltanto da due iscrizioni lapidarie, per questo motivo, l’autore ha dovuto sopperire alla mancanza di dati attraverso l’immaginazione e una profonda conoscenza del periodo storico. Ha, quindi, spazzato la polvere del tempo restituendoci un personaggio forte e carismatico, leale e coraggioso, fedele a quell’esercito di Roma al quale dedicò la sua vita. Nonostante le esigue informazioni che l’autore aveva a disposizione sul personaggio storico, è riuscito comunque a ricrearne la vita e la personalità in modo dettagliato e potente, restituendo a Lucio Artorio Casto la risonanza che merita. La narrazione prende avvio nel giorno della nascita di Lucio, nell’autunno del 140 d.C., e prosegue per cinquantasette anni, attraversando le tappe fondamentali della sua vita, come, ad esempio, la nomina a prefetto dei Sarmati e l’invio in Britannia. Durante la lettura, si apprezza la grande competenza con la quale l’autore affronta il periodo storico nel quale si svolge la vita del protagonista. E l’utilizzo dei termini appropriati relativi ad ogni aspetto della vicenda risulta particolarmente interessante per quei lettori che vogliano imparare qualcosa in più sulla vita militare nella Roma Imperiale e su questo periodo storico in particolare. La narrazione trascinante e coinvolgente, infatti, permette di rilevare appieno il carisma del protagonista, nonché la situazione politica e militare della Roma del II secolo d.C. La ricostruzione del contesto storico è precisa e l’ambientazione viene dipinta accuratamente in modo da dare al lettore la possibilità di calarsi nel periodo e di conoscere i personaggi che si succedono nella vicenda, apprezzandone personalità e temperamenti. In particolare, risultano molto suggestive le scene delle battaglie.

“Subito dopo aver eliminato un ultimo avversario, Lucio puntò al cielo il gladio oramai di un rosso cupo e urlò con quanto fiato aveva in gola. Il pugnale era ancora piantato nella spalla. Il successivo silenzio fu innaturale, spezzato dai lamenti dei feriti e dall’eco di qualche sporadico combattimento ancora in corso. I più gli si avvicinarono ed erano nelle sue stesse condizioni, lordi di sangue e viscere. Alzarono anch’essi le daghe e il boato che scaturì dalle gole riarse andò a destare gli stessi Dèi: «Ar-to-tius! Ar-to-rius ar-to-rius»”

Artorius” è una lettura immersiva e affascinante; un romanzo ricco d’azione che si trasforma in un bel viaggio nella Roma imperiale e nella vita di un personaggio che merita di essere conosciuto.

ANTICA ROMA, recensione

L’ultimo giorno di Roma

Il mondo antico sorprende perché siamo abituati a considerarlo inferiore al nostro, dimenticando che chi è vissuto nell’antichità non è affatto diverso da noi; anzi, in un certo senso è come vedere noi stessi proiettati in un’altra epoca, con la nostra creatività, i nostri pregi e difetti. Per questo l’antichità ci sorprende. Ma non dovrebbe farlo: la migliore fantascienza non è nel futuro, ma nel passato…”.
Roma, 18 luglio 64 d. C. E’ una torrida giornata estiva quella che devono affrontare Vindex e Saturninus nella loro ronda, un veterano e una recluta dei vigiles, i vigili del fuoco dell’Antica Roma. Come ogni giorno, devono assicurarsi che tutte le fonti di fuoco della città siano sicure. Ma non sanno che questo sarà l’ultimo giorno della Roma che conoscono, perché la prossima notte le fiamme la distruggeranno per sempre, cambiando il corso della Storia.
Ne “L’ultimo giorno di Roma”, il primo capitolo della trilogia dedicata a Nerone, edita da HarperCollins, Alberto Angela supera se stesso, affrontando un tema, quello del Grande Incendio di Roma del 64 d.C., sul quale scarseggiano le fonti coeve, e racconta una Roma andata distrutta per sempre, di cui restano soltanto pochi indizi e molte ipotesi. Insieme al team che ha creato per raccontarci questo momento della Storia, ha fatto un sorprendente lavoro di ricerca e studio delle minime fonti e ci ha restituito l’affresco di una Roma poco conosciuta e molto diversa da quella che siamo abituati a ricordare. Ha saputo ricostruire con grande abilità vite di persone realmente esistite, ha creato ipotesi verosimili suffragate da dati certi.
Il risultato di questo encomiabile lavoro è un racconto minuzioso ed estremamente coinvolgente che ci trasporta in un’epoca davvero lontano e ci permette di entrare in confidenza con questa faccia di Roma di cui sono sopravvissute pochissime testimonianze, ma che appare incredibilmente simile ai giorni nostri. Dal mestiere del vigile del fuoco, alla raccolta dei rifiuti, dal funzionamento di librerie ed editori allo svolgimento delle corse al Circo Massimo, scopriamo un popolo antico molto moderno e avanzato, molto simile a noi; una città multietnica ma con un’unica cultura, con problemi che ricorrono anche al giorno d’oggi, come la speculazione edilizia.
Proprio come si fa guardando un cielo stellato, Alberto Angela, con il suo stile unico e inimitabile, ricco di competenza ed entusiasmo, unisce tanti frammenti di Storia Romana per ricreare la Roma di Nerone. Prendendoci per mano e seguendo la ronda dei due vigiles, ci guida attraverso le strade della città e ci indica ogni attività e luogo, ci presenta persone realmente esistite che tornano a vivere di nuovo davanti ai nostri occhi. Incontriamo schiavi, mercanti, avvocati e bambini; sentiamo il profumo delle pietanze pronte nelle popine per la colazione; attraversiamo il foro di Cesare; ascoltiamo il boato del pubblico fuoriuscire dal Circo Massimo. Insieme a Vindex e Saturninus passeggiamo letteralmente tra le strette strade della città, ricche di botteghe e bancarelle, percependo gli spintoni della gente al mercato, i discorsi dei filosofi nelle tabernae librariae, il tintinnio delle monete maneggiate dagli argentarii e dai cambiavalute. Ampio spazio è dedicato al fondamentale lavoro dei vigiles, impegnati di giorno a prevenire gli incendi e di notte anche a vigilare sulla sicurezza pubblica tra le pericolosissime strade buie della capitale dell’Impero, del quale viene descritto ogni aspetto.
In poco più di trecento pagine, Angela ci racconta ogni aspetto della città e della vita quotidiana in quel preciso momento storico, permettendo al lettore di lasciarsi avvolgere da una cascata di emozioni e di tuffarsi in quel mondo così lontano, e lo fa con quello stile travolgente e trascinante che lo contraddistingue. Nonostante la quantità di informazioni che fornisce, questo libro non annoia mai, anzi stimola la curiosità di continuare la lettura e di approfondire i temi trattati. 
Oltre a regalarci l’immagine di una Roma perduta per sempre, inoltre, quest’opera ha un altro pregio: restituisce al lettore un ritratto più vero di Nerone, ripulito dalla damnatio memoriae che lo ha consegnato alla Storia. Scopriamo così un Nerone attento agli interessi del popolo, che si assicura, ad esempio, che a Roma non manchi mai il grano.
L’ultimo giorno di Roma” è una lettura totalmente immersiva e molto istruttiva, che ci riempie gli occhi della bellezza e della grandezza di una città unica nella Storia, in grado di appassionare anche i più refrattari verso il passato.
Dopo aver affrontato questo viaggio incredibile nella Storia, così sorprendente da mozzare il fiato, non guarderete più Roma con gli stessi occhi.

P.S. Voglio darvi un consiglio. Dopo aver letto “L’ultimo giorno di Roma”, perdetevi nella lettura di un altro interessante libro di Alberto Angela, “Una giornata nell’Antica Roma”. Vi accorgerete di quanto fosse diversa Roma nei due periodi trattati, a soli cinquant’anni di distanza. Sarà senz’altro un’esperienza emozionante.