Fatti storici

I secoli d’oro di Firenze. Storia della città del giglio nei secoli XII-XVI

Firenze. La culla del Rinascimento. Patria di Lorenzo de’ Medici, Michelangelo Buonarroti, Filippo Brunelleschi. Una delle più belle città del mondo. Città ricca di Arte e di Storia, in cui il visitatore ha l’impressione di viaggiare nel tempo.

Uno splendore costruito in tre secoli, tra il XIII e il XVI. Nonostante sorga in un ambiente poco felice, in una conca umida, dalle estati roventi e dai gelidi inverni, Firenze ha saputo conquistarsi la gloria eterna. Non senza fatica, soprattutto quando, nel Medioevo, la costruzione della Via Francigena fuori dalla sua portata la estromesse dai traffici commerciali. Ma la città riuscì ad affermarsi comunque negli affari, in particolar modo nella lavorazione della lana.

Ma come è arrivata ai giorni nostri questa splendida città?

Florentia nacque in epoca romana, nel 59 a.C. come un insediamento modellato a castrum militare, ossia un quadrangolo cinto da mura in cui vivevano circa quindicimila abitanti, costruito sulle due grandi strade del cardo maximus e del decumanus, al cui incrocio c’era il Campidoglio (oggi piazza della Repubblica). Verso il 570 cadde in mano dei Longobardi, periodo in cui si costruì la via Francigena che metteva in comunicazione la pianura padana con Roma e che lasciò la città fuori dal suo corso. Iniziò, così, un periodo di buio per Firenze, che durò fino al IX secolo quando il favore di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana alleata di papa Gregorio VII contro l’imperatore Enrico IV, consentì l’affermazione della città e la sua crescita economica. Ma Firenze restava, in Toscana, un centro ancora modesto, in cui la manifattura e il commercio superavano di poco il livello della sussistenza. Così, nel XII secolo partì alla conquista del contado e all’assoggettamento dei castelli dei dintorni, i cui casati dei cavalieri detentori venivano obbligati a diventare cittadini e ad abitare all’interno delle mura. La classe dirigente della città si arricchì delle famiglie guerriere del contado, che potarono a Firenze le case-torri e i costumi di faida e violenza. Con il contado pacificato e sicuro, prosperarono le attività mercantili e, nel 1182, si costituì la prima organizzazione dei mercanti, chiamata Arte. I mercanti acquistavano i panni di lana e il materiale tintorio e li raffinavano nelle botteghe per poi esportarli a prezzi maggiorati. E fu così che alla manifattura si affiancò l’attività di prestito del denaro. Con la crescita economica, anche la popolazione incrementò, tanto che lungo le strade che dalle porte andavano verso la campagna si crearono dei borghi, in cui si insediavano i nuovi arrivati. Empori, opifici e nuove case torri crebbero fuori dalle mura.

Quanto all’aspetto politico, dopo la morte di Matilde di Canossa, le istituzioni cittadine decollarono, determinando un governo autonomo de facto, distaccato da quello del Sacro Romano Impero, a cui Firenze era fedele. Fu creato il collegio dei consoli, al quale si aggiungeva il parlamento, ossia l’assemblea generale dei cittadini, con la funzione di ratifica delle decisioni. Ma a governare tra i consoli erano sempre le famiglie aristocratiche, le quali avevano difficoltà a governare in modo collegiale. Questa fu la motivazione che determinò una tensione continua che sfociava in frequenti episodi di violenza. Firenze era un campo continuo di battaglia in cui ci si contendeva il potere, il predominio di una famiglia sull’altra. I gruppi parentali si riunivano in associazioni che avevano tra loro rapporti matrimoniali, di affari o di amicizia e che abitavano nella stessa zona della città, che veniva fortificata con un sistema di edifici collegati e coronati da torri alte settantacinque metri. Era la cosiddetta società delle torri, i cui caratteri principali erano l’uso delle armi, le case-torri (ispirate alla pratica di guerra del contado) e il diritto alla vendetta. Le lotte interne tra le famiglie assunsero presto connotazioni più ampie e la lotta tra impero e papato servì come alibi per mascherare le lotte interne.

Oltre alla rivalità tra le famiglie aristocratiche che si alternavano nella gestione del potere, vi era anche il malcontento di quelle famiglie che restavano al di fuori delle consorterie e che ambivano a entrarvi o a rovesciare i meccanismi di potere. I primi furono gli Uberti che, nella seconda metà del XII secolo, si scagliarono contro il regime consolare, il quale si rivelò incapace di contenere queste ribellioni e che fu, perciò, abolito e sostituito con il regime podestarile. Il potere esecutivo venne quindi affidato a un magistrato forestiero, al quale si affiancarono un consiglio ristretto e uno allargato di cui facevano parte i capi delle Arti (ossia delle associazioni professionali). Il podestà doveva essere di condizione cavalleresca, buon capitano di guerra e avere conoscenze giuridiche, le quali si conseguivano all’università, frequentata solo dai membri delle famiglie aristocratiche; il podestà era, perciò, sempre un aristocratico. Con il consiglio allargato, però, entrarono nel panorama politico anche gli esponenti del Popolo, membri delle corporazioni. Prima fu l’Arte della Calimala (dei mercanti), poi fu la volta di quella del Cambio (banchieri), della Lana, della Seta e altre.

Nonostante l’ingresso del Popolo nel governo, gli scontri tra le fazioni non si attutirono e, nel 1216, l’incidente tra i Buondelmonti e i Fifanti polarizzò le antiche inimicizie in un sistema binario, che divenne la faida tra guelfi e ghibellini. Le scelte degli Uberti diedero agli schieramenti una connotazione ultra-cittadina: la loro fedeltà all’impero fece chiamare ghibellino il loro partito, al quale si contrappose quello dei guelfi, che significava generalmente anti-ghibellino e che, poi, passò a indicare i sostenitori del papa. A questi scontri, però, non partecipava il Popolo, anche se ne era coinvolto, soprattutto perché i popolani più alti che ambivano a una vita aristocratica e alcune famiglie di illustri natali ma di poco denaro, si imparentarono tra loro creando un nuovo ceto: i magnati. Nonostante l’instabilità politica, il moltiplicarsi delle attività economiche richiamò a Firenze una selva di uomini che andarono a incrementare la manodopera di opifici e botteghe e che costruirono nuovi borghi, dagli assetti miserabili e dalla posizione malsana, soprattutto a causa di zone paludose e inquinate. Al loro soccorso arrivarono gli Ordini mendicanti che si posizionarono in diversi punti della città, ognuno attorno a una piazza con la rispettiva chiesa: francescani, domenicani, serviti, carmelitani e agostiniani.

Gli scontri tra guelfi e ghibellini si intensificarono e ad essi si affiancarono le lotte con i grandi nobili del contado, quelle con le altre città (soprattutto Pisa e Siena) e quella contro i catari, svolta dall’Inquisizione gestita dagli Ordini mendicanti. Nel 1250, il partito ghibellino che governava la città venne rovesciato da un’insurrezione guelfa e le grandi famiglie che lo avevano appoggiato furono mandate in esilio, dando vita al periodo detto “del Popolo Vecchio”. L’assetto istituzionale mutò di nuovo e venne formato da due parti: da un lato il comune, guidato dal podestà, e i due consigli, dall’altro il Popolo guidato dal Capitano, forestiero e cavaliere, affiancato da altri due consigli (dei dodici, eletto dalle compagnie militari, e dei ventiquattro, di cui facevano parte i consoli delle Arti). Negli anni di questo governo guelfo fu riorganizzata la milizia, vennero create le nuove circoscrizioni, i sestieri, fu costruito il palazzo del Popolo (il Bargello), venne presentato il fiorino.

Ma circa dieci anni dopo, la battaglia di Montaperti, sfociata a causa del rifiuto della città di accettare l’egemonia di Manfredi di Svevia (che volle assoggettare la Toscana all’Impero), causò una crisi di governo. Nella battaglia, infatti, l’esercito guelfo fu sterminato, dando modo ai ghibellini esiliati di tornare in patria e di darsi a feroci vendette. Il governo di Firenze tornò nelle mani del partito ghibellino, guidato da Farinata degli Uberti. Non durò a lungo. Nel 1266, la caduta di Manfredi nella battaglia di Benevento e la conseguente vittoria di Carlo d’Angiò, sostenuto da papa Urbano IV, fece cadere i ghibellini. Tuttavia, alcuni pontefici successivi, in particolar modo Niccolò III, cercarono di arginare il potere di Carlo e favorirono alcuni ghibellini, i quali tornarono a Firenze, in un precario equilibrio con il governo guelfo. Questo assetto delicato portò il Popolo a premunirsi per non essere cacciato di nuovo dal potere, così i maggiorenti delle Arti della Calimala, del Cambio e della Seta ottennero che i loro rappresentanti affiancassero il governo comunale. Fu istituito il collegio dei sei priori delle Arti (uno per ogni sestiere) e venne riconosciuto il diritto delle Arti maggiori e mediane di avere un capo, detto gonfaloniere, un consiglio e dei reparti armati, e il diritto per i capi delle Arti di entrare nel consiglio del podestà. Era la vittoria di imprenditori e banchieri che erano riusciti a creare un governo in cui le associazioni professionali avevano una voce forte.

Tuttavia, questo nuovo governo popolano non piaceva ai membri dell’antica aristocrazia cavalleresca e alle famiglie che con loro si erano imparentate. Si creò, così, un conflitto sociale tra i magnati (ossia, non solo gli aristocratici, ma anche chiunque potesse attentare alla supremazia del Popolo nel governo cittadino grazie a ricchezza e prestigio) e il Popolo. I primi cercarono di recuperare lo svantaggio politico alimentando la guerra contro i ghibellini che era rinata nel 1288 e che portò, con la battaglia di Campaldino dell’anno successivo, a una nuova ascesa delle famiglie guelfe magnatizie (ricche). Ma contro di esse, nacque un movimento popolano volto sottrarre loro il potere, che portò all’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293, ossia una serie di norme che stabilirono l’impossibilità di essere eletti come priori o membri dei consigli per i magnati. Il Popolo voleva evitare che le famiglie ricche potessero, attraverso il prestigio, il peso politico e il denaro, attentare alla sua supremazia nel governo. Tuttavia, l’alleanza con il papa delle famiglie guelfe portava grande afflusso di denaro alle banche fiorentine, pertanto i guelfi andavano in qualche modo tollerati. Gli Ordinamenti vennero così emendati due anni più tardi, permettendo ad alcuni magnati di accedere alle Arti e, perciò, al governo.

A garanzia di questo nuovo assetto di governo, per impedire che i magnati guelfi approfittassero della loro posizione nei consigli, fu posto il gonfaloniere di giustizia, un magistrato supremo del collegio dei priori. Si formò così una élite composta da antiche famiglie e nuovi ricchi che aspiravano alla vita aristocratica e che si proponevano come banchieri e appaltatori di tasse, riunendosi in compagnie, ossia società bancarie e commerciali che prendevano il nome dalla famiglia che contava di più. All’inizio del Trecento non esistevano più le consorterie di famiglie guelfe e ghibelline, ma le compagnie di ricchi pronti a egemonizzare il governo delle Arti. Esse gestivano anche i depositi di speculatori stranieri e degli istituti ecclesiastici, nonché il prestito internazionale di importanti somme.

La lotta politica, però, non si era attenuata. Dopo Campaldino, il partito guelfo si era scisso in due fazioni: la famiglia dei Cerchi guidava i guelfi bianchi, mentre i Donati, guidavano i guelfi neri. Nel 1302, i guelfi neri uccisero ed esiliarono i bianchi, ma una serie di problematiche tra loro e con i ghibellini portò, nel 1325, il Popolo Grasso (ossia i membri delle famiglie più influenti) a chiedere aiuto al re di Napoli, il quale affidò la signoria di Firenze a suo figlio Carlo d’Angiò per dieci anni.

Si chiuse, così, uno dei periodi più splendidi per la vita artistica, urbanistica e culturale della città, nel quale Arnolfo di Cambio fu protagonista. Firenze era diventata una delle città più popolose dell’Occidente, erano stati costruiti una nuova cinta muraria, il palazzo dei Priori (Palazzo Vecchio), il battistero, la basilica di Santa Maria del Fiore. Era stata la Firenze di Dante, Cimabue e Giotto.

A metà del Trecento, le compagnie fiorentine prestavano denaro ai papi, ai re di Francia e Inghilterra e a tutti i signori d’Europa; le botteghe raffinavano il 10% di tutti i panni di lana prodotti in Occidente. Banca, commercio e manifattura si sostenevano a vicenda. Calimala, Cambio e Lana dominavano la città. Eppure, l’avvio della guerra dei Cent’anni portò all’insolvenza del re inglese Edoardo III, a cui le compagnie avevano concesso ingenti prestiti, e molte di esse fallirono, prostrando la città. La situazione era difficilissima. Per un breve periodo, la signoria fu affidata a un nobile francese (che venne poi abbattuto con una serie di congiure), nella speranza di rimediare alla situazione di emergenza. Dopo la sua cacciata, la signoria tornò nelle mani del Popolo Grasso e i suoi organi fondamentali furono il gonfaloniere, gli otto priori, il consiglio dei Buoniuomini (degli anziani) e quello dei sedici, i gonfalonieri di compagnia. Tuttavia, le difficoltà politiche ed economiche avevano determinato una fase di rallentamento in tutti gli aspetti della vita cittadina, aggravati anche dall’epidemia di peste del 1348. La città fu flagellata, poi, da annate di grave carestia e da frequenti passaggi delle Compagnie di Ventura e questo stato di cose provocò agitazioni dei ceti subalterni, che vivevano in condizioni miserabili, come il tumulto dei Ciompi del 1378. I ciompi, ossia i sottoposti all’Arte della Lana, si rivoltarono per ottenere salari e condizioni di vita migliori, nonché il riconoscimento giuridico e istituzionale del loro stato. Questa rivolta portò alla creazione di tre nuove Arti, dei ciompi, dei farsettai e dei tintori.

Tuttavia, pochi anni dopo, il Popolo Grasso ristabilì un ordine oligarchico, in cui i protagonisti erano gli Albizzi, i quali smantellarono gli schieramenti famigliari opposti, finché la lotta si radicalizzò tra gli Albizzi, che rappresentavano la vecchia oligarchia, e i Medici, capi della compagnia della Calimala, a cui guardavano i nuovi cittadini e gli esponenti di Arti mediane e minori. A questa lotta si legò l’istituzione del catasto, ossia il sistema organico di tassazione basato sui capitali e sui redditi mobili e immobili. Esso sovvertiva il precedente sistema basato su imposte indirette e tasse sul patrimonio, in cui la finanza pubblica si reggeva sui dazi alle merci e ai comuni. Con il catasto, si andò ad attingere ai forzieri delle grandi famiglie e il primo sostenitore del nuovo sistema fu Giovanni de’ Medici. Egli si inimicò, così, ancor di più gli Albizzi che, a quel punto, erano obbligati a pagare.

Quando Giovanni morì, la guida della compagnia e della fazione medicea passò al figlio Cosimo, con il quale iniziò la fortuna politica della casata. Egli, infatti, nonostante l’avversione di Rinaldo degli Albizzi che riuscì a farlo incolpare di fallimento e a farlo esiliare, godeva del pieno favore della signoria. Fu un grande mecenate e un abile banchiere e politico. Alla sua morte, gli succedette il figlio Piero, anch’egli abile in affari e politica, ma di salute cagionevole. Dopo cinque anni, morì lasciando il comando ai giovani figli Lorenzo e Giuliano. Se Giuliano restò un po’ nell’ombra, Lorenzo il Magnifico fu un grande statista e diplomatico, un cultore delle lettere e ottimo mecenate, ma purtroppo non era abile negli affari e, sotto la sua guida, fallirono alcune filiali del banco mediceo. In questo periodo, Firenze non crebbe né in popolazione né in perimetro urbano, ma si arricchì di magnifiche opere d’arte e visse in un’atmosfera allegra e giocosa, grazie all’incoraggiamento del Medici alle feste.

Due anni dopo la morte di Lorenzo, nel 1494, il banco dei Medici fallì e suo figlio Piero, che ne aveva preso il posto, fu cacciato dalla città per non essersi opposto alla discesa delle truppe del re francese Carlo VIII. Firenze visse, così, quattro anni di lotte tra i seguaci del frate domenicano Girolamo Savonarola (i “piagnoni”) e i suoi avversari (gli “arrabbiati”, sostenitori di una repubblica oligarchica, e i “palleschi”, sostenitori del ritorno dei Medici). Savonarola voleva una città purificata dal peccato, con un regime popolare guidato dal Consiglio Maggiore, predicava la penitenza, fomentando roghi degli oggetti di lusso. Ma il suo predicare non piaceva a papa Alessandro VI Borgia che lo scomunicò e lo condannò a morte per eresia.

Caduto il domenicano, la Repubblica resuscitò con la creazione del gonfaloniere a vita, nella persona di Pier Soderini. Ma la repubblica (celebrata dal David che Michelangelo scolpì in questi anni) si appoggiava alla corona di Francia e, nel clima europeo caratterizzato dalle guerre tra Francia e Spagna, non durò a lungo. Infatti, nel 1512 un esercito spagnolo riportò in città i Medici e Firenze cadde in mano a un altro figlio del Magnifico, il cardinale Giovanni de’ Medici, e l’anno successivo passò al fratello Giuliano, duca di Nemours, quando il primo fu eletto papa Leone X. Nel 1516, alla morte di Giuliano, il governo passò al figlio di Piero (che era stato cacciato), Lorenzo duca d’Urbino, il quale però morì due anni dopo. Il governo allora toccò a suo figlio Alessandro e al cugino, il cardinale Ippolito (figlio di Giuliano di Nemours). Grazie ai posti occupati nello stato pontificio da Leone X prima e da Clemente VII poi (al secolo, Giulio de’ Medici, figlio del fratello del Magnifico, Giuliano), l’economia di Firenze rifiorì. Ma nel 1527, quando Clemente VII si alleò con la Francia contro Carlo V che saccheggiò Roma, Firenze insorse e cacciò nuovamente i Medici: il popolo non avrebbe più tollerato un sovrano. Il papa, però, non era felice di questo nuovo esilio, così, dopo la riappacificazione con Carlo V, gli chiese di riportare l’ordine nella sua città. I fiorentini resistettero per undici mesi agli assalti dell’esercito spagnolo, con Michelangelo in prima fila a dirigere i lavori di fortificazione. Tuttavia, dovette arrendersi, ma l’ardore popolare dimostrato dalla città fece capire al papa che serviva qualcosa di più forte dei meccanismi politici con cui avevano governato in precedenza. Così, nel 1532, Firenze fu trasformato dall’imperatore in ducato e la corona fu affidata ad Alessandro figlio di Lorenzo di Urbino. Cinque anni dopo, egli fu assassinato, estinguendo la discendenza diretta di Cosimo. Il ducato, allora, passò a un esponente del ramo cadetto della famiglia, Cosimo I, figlio di Giovanni dalla Bande Nere. Cosimo governò con saggezza e creò uno stato toscano uniforme, con fortezze e regge in tutta la Toscana di cui divenne granduca, grazie alla nomina pontificia a granducato. Avviò grandi lavori di bonifica, sviluppò l’urbanistica, favorì il porto di Livorno, fondò l’Ordine di Santo Stefano per combattere i pirati, trasferì la corte a Palazzo Pitti, creò l’Accademia fiorentina e quella della Crusca. Furono gli anni del Giambologna e di Benvenuto Cellini, dell’Ammanati e di Vasari. Anni che chiusero i secoli d’oro di Firenze, quelli in cui fu costruito e realizzato tutto ciò che, oggi, migliaia di turisti da tutto il mondo vengono a vedere con i propri occhi.

D’ora in avanti, quando passeggerete per le strade di Firenze, fermatevi un secondo e provate a tendere l’orecchio. Vi sembrerà di sentire le urla del popolo durante gli scontri tra i guelfi e i ghibellini, il tintinnare dei fiorini sui banchi delle famiglie di banchieri, le prediche di Savonarola, il rumore degli scalpelli sul marmo. Vi sembrerà di scorgere Michelangelo davanti a Palazzo Vecchio, intento a controllare il suo David (che oggi è custodito alla Galleria dell’Accademia), o Lorenzo il Magnifico che varca il portone del suo palazzo in via Larga (oggi è via Cavour).

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Fatti storici

La battaglia di Lepanto

È il 7 ottobre 1571 e, nel Mediterraneo, sta per svolgersi la più grande battaglia navale che le sue acque abbiamo mai ospitato.

Due flotte gigantesche, da duecento galere ciascuna, stanno per scontrarsi; a bordo ci sono cinquanta mila uomini per ogni flotta: da una parte, le navi musulmane dell’Impero ottomano, dominatore dei mari, dall’altra quelle cristiane della neonata Lega Santa, voluta da papa Pio V (al secolo Antonio Ghisleri) e stretta con la Repubblica di Venezia e l’impero spagnolo, governato da Filippo II, che riunisce sotto lo stesso comando anche la repubblica di Genova, i cavalieri di Malta, i ducati di Savoia, Urbino e Lucca e il granducato di Toscana.

È il momento che Pio V aspettava da anni: è la grande occasione per coalizzare le potenze cristiane per sconfiggere i turchi; “È la volta che spezzeremo le corna a quell’indomita bestia”, disse, riferendosi al Sultano. E l’appiglio per realizzare l’impresa venne dalla presa di Famagosta, la città veneziana sull’isola di Cipro assediata dai turchi e strenuamente difesa dalla guarnigione locale comandata da Marcantonio Bragadin e Astorre II Baglioni. Cipro è, infatti, l’estrema punta del dominio veneziano e i turchi la rivendicano, anche perché divenuta ormai base per i pirati cristiani che attaccano le navi turche. L’impero ottomano è all’apice del suo splendore e vuole riprendere il dominio dell’isola e si sente legittimato a farlo anche dal favore della popolazione locale che percepisce un’eccessiva ingerenza da parte dei veneziani.

Occorre, quindi, soccorrere materialmente Famagosta. Ma questo è soltanto il pretesto; in gioco c’è il controllo del Mediterraneo. Il dominio ottomano, infatti, è in crescente espansione e minaccia i governi dell’occidente, soprattutto i possedimenti veneziani del Mare Nostrum; inoltre, la pirateria turca lede gli interessi spagnoli. E queste preoccupazioni sono ciò che il papa aspettava per la sua nuova Crociata.

Nel settembre del 1571, la flotta della Lega si raduna, così, a Messina e prende il largo verso il Levante. Qui, vengono raggiunti dalla notizia che Famagosta è caduta in mano ai musulmani, i quali hanno riservato una fine orribile al senatore Bragadin: lo hanno mutilato al viso, mozzandogli naso e orecchie, poi lo hanno rinchiuso per dodici giorni in una minuscola gabbia lasciata al sole, con pochissima acqua e cibo; al quarto giorno, gli hanno proposto la libertà in cambio della conversione all’Islam, ma lui ha rifiutato, quindi lo hanno appeso all’albero della nave e lo hanno massacrato con cento frustate, poi lo hanno costretto a portare in spalla per le strade di Famagosta una cesta piena di sabbia e pietre finché non ha avuto un collasso; allora, lo hanno incatenato a una colonna nella piazza principale e lo hanno scuoiato vivo, partendo dalla testa e poi lo hanno decapitato. La sua pelle è stata poi riempita di paglia, innalzata sulla galea del Pascià e portata a Costantinopoli come trofeo.

Il 6 ottobre le navi cristiane giungono davanti al golfo di Lepanto. Gli ammiragli sanno che la flotta turca è in difficoltà, provata dalla campagna appena conclusa nel Mediterraneo per la conquista dei porti veneziani: il malcontento serpeggia nelle navi, la flotta è logora, sono stremati dal tifo, hanno consumato molte munizioni. La Lega Santa invece è intatta, le galere non hanno ancora sparato un solo colpo. All’alba del 7 ottobre, i turchi eseguono l’ordine di Costantinopoli di affrontare i miscredenti ed escono dal porto. Al mattino, entrambe le flotte si vedono avanzare l’una contro l’altra.

La battaglia ha inizio!

I cristiani portano avanti le sei galeazze veneziane, ossia galere più grandi ma pesantemente armate con quaranta cannoni ciascuna, allo scopo di rompere la formazione nemica. Centrano l’obiettivo mandando a picco alcune galere turche. Quando, a mezzogiorno, le navi si avvicinano e si speronano, inizia la battaglia tra le fanterie: i giannizzeri turchi si scontrano, a bordo delle galere, con la fanteria cristiana più potente e corazzata. Ora, si combatte su galere lunghe quaranta metri e larghe cinque. I soldati cristiani sparano con gli archibugi, mentre i giannizzeri rispondono soprattutto con le frecce. L’obiettivo è riuscire ad abbordare il nemico e combattere sul suo ponte a colpi di spada fino a uccidere o gettare in mare tutti gli avversari. In questo modo, i cristiani hanno la meglio e, progressivamente, conquistano e catturano le galere del nemico.

All’ora di sera, la flotta ottomana è distrutta (ad eccezione della squadra dei pirati algerini, che prende il largo portando con sé qualche galera cristiana), mentre la flotta della Lega Santa ha perso pochissime galere. Delle cinquanta mila persone a bordo delle navi turche, solo qualche migliaio di schiavi cristiani viene salvato, mentre il resto muore nella battaglia.

La Lega Santa ha riportato un’importantissima vittoria sull’Impero ottomano! Tuttavia, la battaglia di Lepanto non riuscì a segnare una svolta importante nel contenimento dell’espansionismo turco. Ebbe, però, un importante valenza psicologica in quanto fu la prima grande vittoria di una flotta cristiana occidentale contro l’Impero ottomano.

Consigli di lettura: se volete leggere un romanzo relativo a questa battaglia, vi consiglio “Leoni da Mar” di Andrea Zanetti, edito da Piazza Editore; se preferite un saggio, è perfetto per voi “Lepanto. la battaglia dei tre imperi” di Alessandro Barbero, edito da Laterza Edizioni.

Fatti storici

La fine del Rinascimento: il Sacco di Roma del 1527

“Il 6 maggio 1527, un formidabile esercito imperiale composto da quasi trentamila mercenari spagnoli, tedeschi e italiani prese Roma d’assalto.
Da troppo tempo i soldati non erano pagati, erano rabbiosi e affamati, e privi di comando. Sfondarono le resistenze improvvisare dai romani e saccheggiarono la città per tre mesi consecutivi, occupandola per un anno intero.
Durante il lungo Sacco, i soldati violentarono le giovani vergini e le vecchie matrone, le donne sposate e le e le suore che avevano fatto voto di castità. Torturarono gli uomini che potevano pagare un riscatto: dai commercianti ai banchieri, dai nobili agli ecclesiastici, moli dei quali morirono dopo aver pagato più volte. Appiccarono il fuoco alle case e alle chiese. Rubarono una quantità eccezionale di oggetti preziosi e opere d’arte. Distrussero gli articolo sacri e i paramenti, sfregiarono io crocefissi, calpestarono le reliquie e le eucarestie, aprirono le tombe dei cardinali, gettarono nel Tevere gli ammalati dell’Ospedale di Santo Spirito e i neonati nei falò in cui bruciavano i libri e i registri della Chiesa. Per mesi le strade di Roma furono insanguinate e piene di cadaveri divorati dai cani. Durante i mesi torridi dell’estate del 1527, una feroce epidemia di peste si portò via buona parte della popolazione rimasta e dei soldati.
La calamità mise fine alla fase più brillante del Rinascimento e segnò l’inizio della Controriforma, in cui presero il sopravvento i puristi della religione e gli inquisitori del pensiero.” Tratto da “Vita di Pantasilea” di Luca Romano.

Nel 1526, la Francia di Francesco I e il Sacro Romano Impero di Carlo V si scontrarono in una guerra per il predominio sull’Italia. Il conflitto terminò con la vittoria degli imperiali a Pavia, alla quale seguì la stipulazione del Trattato di Madrid, con cui il re di Francia si impegnava a rinunciare ad ogni pretesa di conquista sulla penisola.
Subito dopo la firma, però, Francesco I violò il trattato, creando la Lega di Cognac ai danni dell’Imperatore, in accordo con Roma, Milano, Venezia, Firenze e Genova. Con tale alleanza, papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, tentò di evitare che Carlo V riuscisse a governare l’Italia intera. Inoltre, a seguito della riforma religiosa voluta da Martin Lutero, nei paesi di Germania, Austria e Svizzera, si diffuse un odio nei confronti di Roma e del papato, considerati simboli di vizio e corruzione.
Nel settembre del 1526, l’Imperatore tentò di ottenere la fiducia del Papa per consolidare le proprie conquiste nel nord Italia, ma Clemente rifiutò, scatenando l’ira della famiglia Colonna, braccio armato dell’Impero: nella notte tra il 19 e il 20 settembre, truppe mercenarie al soldo della famiglia perpetrarono stupri, saccheggi e stragi a Roma.
A seguito di questi fatti, il Papa negoziò la tregua con Carlo V, impegnandosi a sciogliere la Lega di Cognac, in cambio della cessazione delle ostilità. Nonostante l’abbandono della città da parte dei soldati, però, Clemente VII non rispettò gli accordi e chiese aiuto al re di Francia, Francesco I.
Carlo V, tradito, ordinò così l’intervento armato contro Roma. Nell’inverno del 1526, il generale Georg Von Frunderberg reclutò dodicimila lanzichenecchi, i soldati mercenari più temuti e spietati, e scese verso Mantova, dopo essere stato respinto a Milano. Arrivato a Governolo trovò l’intrepido Giovanni dalle Bande Nere ad opporlo; il coraggio del condottiero italiano, però, non riuscì a fermare la calata dei lanzichenecchi: il tentativo di fermarli gli costò la vita e la sua sconfitta permise all’esercito straniero di proseguire verso Roma. Lungo il cammino, le truppe dei lanzichenecchi furono raggiunte da soldati spagnoli e da alcuni mercenari italiani che si arruolarono nelle loro file.
Alla fine di marzo del 1527, Clemente VII firmò una tregua con l’Impero, ma ormai Carlo di Borbone, luogotenente dell’Impero, a capo dell’esercito di Carlo V, aveva promesso il Sacco ai suoi soldati e non poteva più tornare indietro. Inoltre, i soldati erano stremati da lunghi mesi di marcia in condizioni precarie. Il freddo non cessava, mancava il cibo, non venivano pagati da diverso tempo, il malcontento iniziava a serpeggiare tra le truppe, tanto che iniziarono a ribellarsi ai propri ufficiali. Rimasti senza prostitute, che avevano lasciato l’esercito a causa della precarietà della situazione, e senza tutte le figure che accompagnavano le truppe, come vivandieri, artigiani e commercianti, i soldati erano sul punto di esplodere: nulla più poteva trattenerli.
Il 25 marzo 1527, l’imperatore Carlo V mandò al suo esercito la notizia della pace concordata con Clemente, insieme all’ordine di ritirarsi e ad un’offerta scarsa e tardiva, costituita da una minima parte della paga dovuta, distribuita solo in rate nei mesi successivi: tre ducati a testa e la legge di Maometto, ovvero il saccheggio illimitato, era l’offerta dall’Imperatore. Volutamente, Carlo V lasciava i soldati nelle condizioni in cui si trovavano al fine di trasformarli in belve inferocite, nella speranza che la minaccia di un attacco da parte loro fosse sufficiente a costringere il papa a rinunciare all’alleanza con la Francia, senza pertanto muovere un ufficiale attacco a Roma
Nel frattempo, il Papa, convinto di aver raggiunto la pace, licenziò le truppe delle Bande Nere che proteggevano Roma, lasciando, così, la città incustodita.
Il 6 maggio 1527, circa trentamila soldati assetati d’oro e sangue arrivarono a Roma, trovando solo cinquemila uomini impreparati a contrastarli e cogliendo di sorpresa una città convinta della pace. I lanzichenecchi, desiderosi di annientare la città, saccheggiando, distruggendo e depredando, scatenarono un vero e proprio inferno. Roma attese per giorni l’intervento degli alleati che non arrivò mai.
Mentre le strade della città venivano messe a ferro e fuoco, Clemente si rifugiò a Castel Sant’Angelo. Il sacco continuò per un mese intero, nel quale i Lanzi furono spietati: profanarono chiese, violentarono donne e monache, incendiarono palazzi e sterminarono la popolazione, depredando le abitazioni, sfogando tutta la propria furia contro la Roma che odiavano. La popolazione fu sottoposta a ogni tipo di violenza e di angheria. Le strade erano disseminate di cadaveri e percorse da bande di soldati ubriachi che si trascinavano dietro donne di ogni condizione, e da saccheggiatori che trasportavano oggetti rapinati.
Le ragioni che indussero i mercenari germanici ad abbandonarsi a un saccheggio così efferato e per così lungo tempo risiedono nella frustrazione per una campagna militare fino ad allora deludente e, soprattutto, nell’acceso odio che la maggior parte di essi, luterani, nutrivano per la Chiesa cattolica. Inoltre, a quei tempi i soldati venivano pagati ogni cinque giorni, cioè per “cinquine”. Quando però il comandante delle truppe non disponeva di denaro sufficiente per la retribuzione delle soldatesche, autorizzava il cosiddetto “sacco” della città, che non durava, in genere, più di una giornata. Il tempo sufficiente, cioè, affinché la truppa si rifacesse della mancata retribuzione. Nel caso specifico, i lanzichenecchi non solo erano rimasti senza paga, ma erano rimasti anche senza il comandante. Infatti il Frundsberg era rientrato precipitosamente in Germania per motivi di salute e il Borbone era rimasto vittima sul campo. Senza paga, senza comandante e senza ordini, in preda a un’avversione rabbiosa per il cattolicesimo, fu facile per i soldati abbandonarsi al saccheggio per un così lungo tempo della non più eterna Roma. Se Carlo di Borbone non fosse morto il giorno in cui hanno invaso Roma, forse il sacco sarebbe finito in breve tempo e i danni sarebbero stati minori.
A gran voce, i Lanzi chiesero la deposizione del Papa, ma Carlo non lo fece: a Clemente fu chiesta un’enorme somma di denaro per far cessare l’Apocalisse. Il 5 giugno, il Papa acconsentì al pagamento della somma richiesta e si arrese, lasciandosi imprigionare in un palazzo in attesa che venisse versato quanto pattuito. Il 7 dicembre, un gruppo di cavalieri assaltarono il palazzo e liberarono il pontefice.
Roma restò occupata fino a dicembre, quando tra le file dei Lanzi scoppiò la peste. Alla fine di quell’anno tremendo, la popolazione romana fu ridotta quasi alla metà dalle circa ventimila morti causate dalle violenze o dalle malattie. Al tempo del “Sacco”, infatti, la città di Roma contava, secondo il censimento realizzato tra la fine del 1526 e l’inizio del 1527, poco più di cinquantacinquemila abitanti: una tale esigua popolazione era difesa da circa cinquemila uomini in armi e dai 189 mercenari svizzeri che formavano la guardia del pontefice e che si fecero trucidare per permettere a Clemente VII di mettersi in salvo. Le carenze manutentive all’antica rete fognaria avevano trasformato Roma in una città insalubre, infestata dalla malaria e dalla peste bubbonica. L’improvviso affollamento causato dalle decine di migliaia di lanzichenecchi aggravò pesantemente la situazione igienica, favorendo oltre misura il diffondersi di malattie contagiose che decimarono tanto la popolazione, quanto gli occupanti. I palazzi furono depredati, le opere d’arte rubate o distrutte. Il ritiro vero e proprio dei saccheggiatori, però, avvenne solo a metà febbraio dell’anno successivo, dopo che era stato saccheggiato il saccheggiabile e non vi era più possibilità di ottenere riscatti, ma anche a causa della peste diffusasi dopo mesi di bivacco e delle diserzioni di molti soldati

Dopo questo gravissimo episodio, si determinò un periodo di povertà nella Roma del XVI secolo, tanto che il 6 maggio 1527 viene ricordato come il giorno che pose fine al Rinascimento. Un evento tremendo che segnò gravemente la Città Eterna, fino ad allora scrigno di ricchezza, bellezza e maestosità.

Fatti storici, recensione

Vita di Pantasilea

Ora siamo arrivati sul Gianicolo, accaldati, stanchi, sporchi. Nessun esercito moderno ha mai attraversato una distanza così grande in così poco tempo. Ma non siamo un bello spettacolo. Le nostre divise di solito così brillanti e sgargianti, le nostre maniche a sbuffo, i nostri panhosen aderenti gialli e marrone sono lerci e strappati. Abbiamo le barbe lunghe e i capelli arruffati e aggrovigliati di sozzume. La fame continua a darci i crampi allo stomaco. Ma siamo arrivati. Roma si stende ai nostri piedi. Fra poco s’inchinerà alla nostra potenza!” 

Vita di Pantasilea”, scritto da Luca Romano ed edito da Neri Pozza, racconta due vicende che si intersecano nella Roma del primo Cinquecento. 

Da una parte, troviamo la cortigiana onesta Pantasilea, incinta e innamorata dell’artista Benvenuto Cellini, che viene incaricata dal cardinal Alessandro Farnese di “corrompere con i piaceri della carne” il giovane Marcello Cervino; dall’altra, c’è l’esercito imperiale, comandato da Carlo di Borbone, pronto a marciare su Firenze e Roma. Da due punti di vista differenti, quello del narratore esterno in terza persona nella vicenda di Pantiselea e quello in prima persona del comandante dei lanzichenecchi Sebastian Schertlin, assistiamo ad un momento storico fondamentale per la l’Italia, nel quale la vita della giovane cortigiana si intreccia alle vicende del Sacco di Roma del 1527. 

Infatti, la trama si muove sullo sfondo dell’imminente attacco alla città di Roma, da parte dell’esercito dell’imperatore Carlo V, formato da trentamila soldati lanzichenecchi, spagnoli e italiani; un assedio che durò diversi mesi e che mise a ferro e fuoco la capitale della cristianità, sulla quale governava papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici. Un papa che, come si intuisce già dalle prime pagine del romanzo, veniva additato come avaro e sanguisuga e verso il quale i romani mostravano un chiaro malcontento a causa del governo opprimente, della severa e irragionevole applicazione dei bandi, delle molte tasse che aveva introdotto, dei disordini provocati dai soldati in ozio che riempivano le strade di Roma. Nonostante le rimostranze nei confronti di Clemente VII e la consapevolezza di possibili venti di guerra, il popolo era convinto che gli eserciti cristiani non avrebbero mai osato invadere la capitale della cristianità. E questa convinzione, unite alle illusorie trattative di pace, favorì gli invasori che colsero Roma sorpresa e impreparata.  In questo romanzo l’autore è estremamente abile nel riprodurre ogni sfumatura di questo evento. 

La ricostruzione dell’ambientazione è minuziosa, con descrizioni accurate e suggestive dei luoghi, degli abiti, delle usanze, della condizione delle prostitute. Con grande maestria, l’autore riesce a far trasparire il modo di pensare dell’uomo del Cinquecento in molti ambiti. Il ricco utilizzo di dettagli, insieme alle chiare differenti voci di ogni personaggio, rende il racconto suggestivo, tanto che al lettore pare di partecipare in prima persona agli eventi narrati. Il linguaggio ricercato e adatto all’epoca nella quale si svolge la  trama aumenta la sensazione di coinvolgimento. Caratteristiche che denotano il grande studio e la profonda conoscenza, da parte dell’autore, del periodo raccontato. Inoltre, egli è abile nel mostrare il clima sociale nel quale si innesta il sacco di Roma; attraverso la vicenda della cortigiana riviviamo la quotidianità dell’epoca, le credenze, i problemi sociali, grazie ad un affresco divinamente dipinto delle condizione delle meretrici in epoca rinascimentale; invece, con il racconto del comandante dei Lanzi assistiamo ai retroscena del Sacco. 

Il racconto è perfettamente aderente alla verità storica e la narrazione fluida e coinvolgente permette al lettore di percepire tutte le emozioni e le sensazioni provate dai personaggi. Il ritmo dell’esposizione è incalzante e si sviluppa in un crescendo di tensione, che corre parallela allo stupore. 

La caratterizzazione dei personaggi è precisa ed efficace nel consentire al lettore di distinguere le differenti personalità di ognuno. 

La descrizione delle scene, come ad esempio quella relativa al procedimento penale e alla tortura o ai malati di mal francese, è accurata ed estremamente suggestiva, scandita da un tempo di narrazione perfetto per amplificare il coinvolgimento del lettore. Meticolosa è anche la rappresentazione della città di Roma che sembra di percorrere a piedi, tra i quartieri e i suoi abitanti. Per questo motivo, il romanzo si rivela adatto anche a chi voglia approfondire la conoscenza della vita quotidiana e cittadina in questo frangente storico, che qui traspare nettamente. E così apprendiamo, ad esempio, delle prigioni della Torre Annona, vediamo dove venivano esposti i corpi dei condannati a morte, come monito per i cittadini, quale erano i rimedi per curare le coliche, quali Santi venivano pregati, quali erano i prezzi delle merci.

Ma ciò che colpisce maggiormente il lettore è l’intenso e crudo racconto dell’inferno scatenato dall’esercito imperiale per le strade di Roma, che vennero invase dai cadaveri di migliaia di romani innocenti. “L’anarchia è peggio, infinitamente peggio, della tirannia”, dice il comandante dei Lanzi, e l’esercito senza disciplina fu, infatti, il peggior male dell’assedio. Luca Romano riesce a trasmettere tutto l’orrore e la disperazione di quei giorni, attraverso la pungente descrizione di ciò che accadde quel 6 maggio 1527 e per l’intero mese successivo, in cui l’esercito al soldo di Carlo V, saccheggiò, depredò, uccise e distrusse per sempre parte della storia precedente di Roma. 

Vita di Pantasilea” è un libro splendido, scritto con smisurata competenza e grande capacità, che chiunque ami la Storia non può non apprezzare; nel quale la Roma del Cinquecento si dischiude davanti agli occhi del lettore per farsi conoscere in ogni suo aspetto. Rappresenta un incredibile viaggio nel tempo, nel quale la realtà che circonda il lettore improvvisamente scompare per lasciare spazio a luoghi, personaggi ed eventi narrati che nel romanzo tornano a vivere, nonché un encomiabile connubio tra conoscenza storica ed esposizione narrativa. 

Un romanzo notevole, che trasuda Storia e che catapulta il lettore nella Roma del Sacco in modo nitido ed emozionante, dimostrando di essere un ottimo testo su questo importante evento del passato che ha spezzato la gloria del Rinascimento. 

Fatti storici

La congiura dei Pazzi. Parte 2

Eccomi alla seconda tappa del progetto dedicato alla Congiura dei Pazzi, ossia l’attentato alla vita di Lorenzo de’ Medici, avvenuto nell’aprile del 1478, che provocò la morte del fratello Giuliano. Nel primo articolo dedicato a questa vicenda, avevo parlato dell’evento in sé, mentre questa volta voglio dedicarmi al coinvolgimento nel complotto di un personaggio di grande rilievo: Federico da Montefeltro, duca di Urbino.

Per raccontare questo aspetto, ho letto “L’enigma Montefeltro” di Marcello Simonetta, che ripercorre tutta la vicenda, illustrando anche cause e conseguenze della congiura.

Nella seconda metà del XV secolo, Federico da Montefeltro era il più grande condottiero e capitano di ventura, ingaggiato dai più potenti Signori.

La sua amicizia con Lorenzo de’ Medici nacque nel 1472, quando l’urbinate fu assoldato da Firenze nella guerra contro Volterra, che non voleva condividere le miniere di allume.

Dopo pochi anni, però, il Montefeltro maturò un’acredine nei confronti del fiorentino che si sviluppò di pari passo con quella tra quest’ultimo e papa Sisto IV, che prese le mosse dal rifiuto del Medici al prestito chiesto dal Papa per l’acquisto della città di Imola, nel 1473. Tale diniego da parte della Banca che aveva in gestione i conti dello Stato Pontificio, costrinse il Papa a rivolgersi ad un’altra banca fiorentina, diretta concorrente di quella medicea: quella dei Pazzi, gestita da Jacopo e Francesco Pazzi, uomini molto ambiziosi e desiderosi di rimpiazzare i Medici come signori di Firenze e come banchieri papali.

L’anno successivo, un altro evento significativo creò un’ulteriore crepa nei rapporti tra Sisto e Lorenzo: la questione di Città di Castello. Dopo l’espansione del dominio ecclesiastico su Imola, alcune città iniziarono a ribellarsi e la prima a farlo fu proprio Città di Castello. Il Papa mandò suo nipote, il cardinale Giuliano della Rovere, ad assediare la città, il quale però non vi riuscì soprattutto a causa dell’appoggio che il capo della ribellione Nicolò Vitelli riceveva da Lorenzo de’ Medici, che percepiva l’iniziativa di Sisto come un’aggressiva interferenza nel controllo dell’Italia centrale. Il Papa ritenne il comportamento del Medici come un offensivo tradimento e, nell’agosto del 1474, chiamò il Montefeltro per dirimere la questione. Egli marciò sulla città, che si arrese immediatamente, probabilmente per evitare la stessa sorte di Volterra. Quando ciò accadde, Federico era appena stato nominato duca da Sisto con una cerimonia molto simbolica, che evocava il potere della Chiesa di mettere l’arma della giustizia nelle mani del potere secolare.

Un potere che il nuovo duca di Urbino prese molto seriamente, tanto che iniziò a vedere Lorenzo come un nemico potenziale del Papa, da distruggere. Il suo obiettivo divenne il rovesciamento del regime mediceo su Firenze. Con i rapporti rovinati tra Sisto IV e Lorenzo de’ Medici, Federico da Montefeltro si schierò apertamente con il pontefice, tanto da dare in sposa una delle sue figlie al nipote del Papa, Giovanni della Rovere.

Alla fine di quell’anno così teso, arrivò anche lo “schiaffo morale” da parte del Montefeltro nei confronti del Magnifico, allorchè quest’ultimo chiese un cavallo per la giostra del 1475: il duca rispose che lo aveva già dato ad un membro della famiglia Pazzi.

In quei mesi, l’odio del duca di Urbino nei confronti di Lorenzo crebbe tanto da mettere in guardia anche Cicco Simonetta, il quale intercettò una lettera del Montefeltro in cui scriveva che il re di Napoli avrebbe dovuto cacciarlo da Firenze o farlo tagliare a pezzi. Il suo intento era quello di usare tutto il suo peso politico per mettere in difficoltà il Medici davanti alla corte di Napoli.

Una nuova frattura nei rapporti tra Montefeltro e Medici si creò all’indomani della morte del duca di Milano Galeazzo Sforza, alla fine del 1476. In quell’occasione, Cicco Simonetta, braccio destro del defunto duca e nuovo reggente del ducato, chiese aiuto a Federico per rinsaldare il potere ducale su Milano, ma Lorenzo lo impedì nel timore che la garanzia militare e politica del condottiero diminuisse l’influenza che aveva sulla città in virtù del rapporto di grande amicizia che lo legava a Galeazzo, e favorì il suo diretto concorrente, Ludovico Gonzaga.

Federico, così, iniziò a screditare la figura del Magnifico agli occhi di Milano, nel tentativo di portare il Simonetta dalla parte del re di Napoli, al fine di indebolire la lega tra Milano, Firenze e Venezia. Infatti, Urbino si trovava proprio al centro tra due alleanze: da una parte la Lega citata e dall’altra l’asse Napoli e Stato Pontificio; Federico serviva entrambe in qualità di mercenario.

Una prova del coinvolgimento del duca di Urbino nella congiura, la diede, a fatti avvenuti, proprio il soldato Gian Battista Conte di Montesecco (assoldato dai congiurati per uccidere Lorenzo), quando, al momento della confessione prima di essere giustiziato, riportò la conversazione avuta con Riario e Salviati, il quale gli disse che fuori Firenze avevano il favore del duca. Nella stessa confessione si evince anche che il primo a voler la morte dei fratelli Medici, oltre a Riario e Salviati, era proprio Papa Sisto IV.

Quest’ultimo, infatti, sigillò con Montefeltro il patto per l’eliminazione dei Medici attraverso un dono, una catena d’oro, regalata al figlio del duca, Guidobaldo, con un significato ben preciso: Sisto, dopo aver conferito a Federico il titolo ducale, riconosceva così la legittimità dinastica dei Montefeltro, che in questo modo ricevevano l’investitura ecclesiastica per le generazioni future. Questo rapporto tra papa e duca ben chiarisce quale fosse la convenienza del Montefeltro nel sostenere il papato e la congiura contro Lorenzo.

Una prova ulteriore la diede proprio il duca di Urbino, in una lettere inviata a Cicco Simonetta pochi giorni dopo l’attentato, quando si sparse la voce che il conte Montesecco aveva confessato, nella quale fu chiaro quanto fosse coinvolto.

Tuttavia, quando aveva accettato di contribuire al complotto, Federico lo aveva fatto contando di diventare il “salvatore di Firenze”, in quanto credeva nel sostegno popolare del partito antimediceo, che avrebbe permesso alle sue truppe di entrare in città facilmente, senza spargimenti di sangue. Ma non andò così, pertanto, quando poco tempo dopo si presentò un’altra occasione di assediare Firenze, egli rifiutò. Ciò avvenne perché il Montefeltro avrebbe voluto liberare la città da Lorenzo, ma senza metterla a ferro e fuoco, come era accaduto a Volterra. Non voleva risultare agli occhi del popolo come un invasore e, per questo, si oppose ad un sacco della città, mantenendo però salda la volontà di rovesciare il regime di Firenze minando l’autorità di Lorenzo dall’esterno.

Ma il Rinascimento è stata un’epoca nella quale le alleanze e gli equilibri politici furono quanto mai fragili e volubili e ben presto Federico da Montefeltro si accorse che l’odiato Medici rappresentava il male minore. Solo un anno dopo la congiura, infatti, un altro pericolo iniziò ad aleggiare sulla sua città: la sfrenata ambizione del conte Girolamo Riario. Così il duca di Urbino si trovò a trattare proprio con Lorenzo per frenare Riario che ambiva a diventare l’uomo più influente della penisola: se Firenze avesse perso potere, tutta l’Italia centrale sarebbe stata in balia del papato e Urbino avrebbe potuto diventare la prima facile preda del Papa; la legittimazione dei Montefeltro dipendeva proprio da Sisto, il quale avrebbe potuto revocarla in qualsiasi momento.

E questo suo voltafaccia nei confronti di Sisto IV si palesò all’indomani della pace siglata a Napoli da Lorenzo nel 1479: il Papa reputò Federico regista occulto di un accordo di pace che non teneva in considerazione gli interessi della Chiesa e lo iscrisse nel suo libro nero. Federico da Montefeltro, fino a poco tempo prima paladino degli interessi del Papa, nel 1482 smise di essere condottiero della Chiesa; Sisto non rinnovò il suo contratto.

La ritrovata interessata amicizia con il Magnifico provocò una spaccatura profonda tra Federico e i suoi precedenti complici, Sisto IV e Riario. Lorenzo, ormai armai alleato del re di Napoli e del nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, offrì al Montefeltro un contratto d’oro per la difesa della città di Ferrara, entrata nelle mire di Girolamo Riario. Gli equilibri erano cambiati ancora una  volta e Roma era spalleggiata da Venezia.

Ma poco importò per Federico da Montefeltro che morì di malaria all’età di sessant’anni nelle paludi ferraresi proprio mentre si trovava nel mezzo della difesa di Ferrara dall’assedio di Venezia, forse pentendosi di essersi allontanato dal Papa e dalla Chiesa proprio poco prima di morire.

Tutto questo e molto di più lo potete trovare ne “L’enigma Montefeltro” di Marcello Simonetta, un saggio molto approfondito che spiega e racconta molte vicende del primo Rinascimento. Una lettura davvero appagante e intrisa di informazioni importanti per tutti gli appassionati di Storia.

Vi aspetto alla prossima tappa in cui vi racconterò come cambiò per sempre Lorenzo il Magnifico dopo il terribile attacco in Santa Maria del Fiore.

Federico da Montefeltro nel ritratto di Piero della Francesca
Fatti storici

La Congiura dei Pazzi. Parte 1

Nella storia di Firenze c’è un avvenimento che attira molto la mia curiosità, la Congiura dei Pazzi. Ho così deciso di dedicarmi alla lettura di tre saggi che affrontano questo argomento: il volume “Giuliano de’ Medici” della collana del Corriere della Sera “Grandi delitti nella Storia”, “La congiura. Potere e vendetta nella Firenze dei Medici” di Franco Cardini e Barbara Frale e “L’enigma Montefeltro” di Marcello Simonetta. Dopo la lettura di ognuno di questi testi, vi racconterò un aspetto diverso legato alla vicenda, partendo dal racconto del fatto, passando dal ruolo di Federico di Montefeltro nel complotto, per arrivare al cambiamento della personalità di Lorenzo de’ Medici in seguito alla morte del fratello. Ho iniziato dal volume “Giuliano de’ Medici”, un piccolo saggio che ripercorre motivazioni ed esecuzione della congiura e dà una panoramica sulla famiglia Medici. Da questa lettura, vi racconto il fatto.


Il complotto passato alla Storia come Congiura dei Pazzi nacque da un gruppo di personaggi i quali avevano, ognuno, una motivazione differente per desiderare la fine del dominio della famiglia Medici su Firenze. Era indubbio, infatti, il grande potere del Magnifico, che, nonostante fosse amato e acclamato dal popolo, stava stretto a molte persone, dentro e fuori la città.
Vi era, in primis, una fazione fiorentina anti Lorenzo capitanata dalla famiglia Pazzi; poi Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, a cui era stato negato l’ingresso nella città; Papa Sisto IV che, fin dai contrasti sorti con Lorenzo sulla questione di Città di Castello, aveva creato una spaccatura nei rapporti con il Magnifico; e, infine, Girolamo Riario, nipote del Papa, che vedeva Firenze come una possibile conquista per allargare i propri domini. Ad essi, si aggiunsero una serie di personaggi minori, che furono anche autori materiali dell’omicidio. Inoltre, pare abbia avuto un ruolo in questa vicenda anche il padrino di battesimo di Lorenzo, Federico da Montefeltro.
Questo complotto culminò nell’assassinio del fratello minore di Lorenzo, Giuliano, appena venticinquenne, perpetrato nella basilica di Santa Maria del Fiore, a Firenze, al termine della messa pasquale, il 26 aprile 1478. Un delitto terribile sfociato nella blasfemia, consumato in un luogo sacro e durante la più importante funzione cattolica, al cospetto di Dio.
Tuttavia, questo aspetto sacrilego fu la salvezza di Lorenzo. Infatti, il primo obiettivo dei congiurati, che mirava al rovesciamento della fazione medicea e all’annientamento della cripto signoria che si era formata,  era proprio il Signore de facto di Firenze. Incaricato del suo omicidio era il condottiero marchigiano Giovanni Battista Conte di Montesecco, il quale, una volta appreso che, in ultimo, l’agguato si sarebbe tenuto in una chiesa, si rifiutò, lasciando il compito a due inesperti.
I congiurati, infatti, avevano una sola certezza: entrambi i fratelli dovevano essere eliminati fisicamente, altrimenti, alla morte del solo Lorenzo, Giuliano, anch’egli molto amato dal popolo e capace forse più del fratello, avrebbe assunto le redini della Signoria.
Così, in principio, l’omicidio fu previsto in occasione di un viaggio di Lorenzo a Roma, che però venne rimandato; successivamente si decise per due banchetti, ai quali però Giuliano non presenziò. Infatti, in quel periodo, difficilmente i due fratelli si presentavano insieme in pubblico, forse proprio perché doveva essere trapelata qualche notizia di un’intesa segreta ai loro danni. Fin dall’inizio dell’organizzazione, quindi, circa un anno prima dell’esecuzione, si rivelò un piano approssimativo, continuamente rimaneggiato a causa dei continui impedimenti.
Anche la decisione di agire durante la messa rischiò di risultare vana, in quanto Giuliano non si presentò nemmeno quella volta. Ma Francesco de Pazzi decise di andare a prenderlo a casa e accompagnarlo in chiesa a funzione iniziata, trascinato tra motti scherzosi e infidi abbracci (volti a verificare l’eventuale utilizzo di protezioni) proprio dai suoi sicari.
I due fratelli ascoltarono la messa a ridosso dell’ottagono che corre intorno all’altare maggiore, uno sul lato destro e uno sul lato sinistro, come erano soliti fare proprio per ridurre il rischio di attentati.
Al termine della liturgia, proprio nel momento in cui l’officiante, che quel giorno era il sedicenne neo cardinale Raffaele Riario, nipote del Papa, pronunciò l’Ite missa est, Bernardo Bandini Baroncelli e Francesco de Pazzi estrassero il pugnale e colpirono il povero Giuliano. Contemporaneamente, Antonio Maffei da Volterra e Stefano da Bagnone si avventarono contro Lorenzo, che riuscì a salvarsi proprio grazie all’inesperienza dei due, che lo colpirono soltanto di striscio, permettendogli, così, di nascondersi nella sagrestia insieme ad alcuni amici e sostenitori.
Giuliano, invece, fu massacrato dalle 19 coltellate inferte con estrema ferocia da Francesco de Pazzi, il quale, nella foga, si ferì ad una gamba. Fu lasciato a terra, in una pozza di sangue, mentre i presenti scappavano e scortavano Lorenzo, ancora ignaro della sorte dell’amato fratello, nel palazzo di famiglia in quella che era Via Larga, oggi via Cavour.
Questo evento ebbe l’effetto opposto a quello perseguito dai congiurati: il popolo di Firenze si strinse intorno al suo Signore, scagliandosi contro gli esecutori del delitto e accrescendo così il potere di Lorenzo che, in quel momento decisivo, venne sancito e ribadito con la forza di un patto di sangue.
Mandanti ed esecutori materiali subirono la violenta e spietata vendetta del Magnifico. Vennero catturati, torturati e condannati alla pena capitale; i ritratti dei loro corpi impiccati vennero commissionati a Sandro Botticelli e dipinti secondo il canone delle pitture infamanti.
In questo modo, Lorenzo aprì anche una vendetta contro Papa Sisto IV, che sfociò in una guerra che si concluse con una pace siglata dal pontefice il 13 marzo 1479.
Da quel momento, però, nonostante fosse riuscito a vendicare la morte di Giuliano, Lorenzo cambiò per sempre. Ma di questo vi parlerò nei prossimi articoli.

A cura di Deborah Fantinato

Giuliano de’ Medici in un ritratto di Sandro Botticelli