Fatti storici

I secoli d’oro di Firenze. Storia della città del giglio nei secoli XII-XVI

Firenze. La culla del Rinascimento. Patria di Lorenzo de’ Medici, Michelangelo Buonarroti, Filippo Brunelleschi. Una delle più belle città del mondo. Città ricca di Arte e di Storia, in cui il visitatore ha l’impressione di viaggiare nel tempo.

Uno splendore costruito in tre secoli, tra il XIII e il XVI. Nonostante sorga in un ambiente poco felice, in una conca umida, dalle estati roventi e dai gelidi inverni, Firenze ha saputo conquistarsi la gloria eterna. Non senza fatica, soprattutto quando, nel Medioevo, la costruzione della Via Francigena fuori dalla sua portata la estromesse dai traffici commerciali. Ma la città riuscì ad affermarsi comunque negli affari, in particolar modo nella lavorazione della lana.

Ma come è arrivata ai giorni nostri questa splendida città?

Florentia nacque in epoca romana, nel 59 a.C. come un insediamento modellato a castrum militare, ossia un quadrangolo cinto da mura in cui vivevano circa quindicimila abitanti, costruito sulle due grandi strade del cardo maximus e del decumanus, al cui incrocio c’era il Campidoglio (oggi piazza della Repubblica). Verso il 570 cadde in mano dei Longobardi, periodo in cui si costruì la via Francigena che metteva in comunicazione la pianura padana con Roma e che lasciò la città fuori dal suo corso. Iniziò, così, un periodo di buio per Firenze, che durò fino al IX secolo quando il favore di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana alleata di papa Gregorio VII contro l’imperatore Enrico IV, consentì l’affermazione della città e la sua crescita economica. Ma Firenze restava, in Toscana, un centro ancora modesto, in cui la manifattura e il commercio superavano di poco il livello della sussistenza. Così, nel XII secolo partì alla conquista del contado e all’assoggettamento dei castelli dei dintorni, i cui casati dei cavalieri detentori venivano obbligati a diventare cittadini e ad abitare all’interno delle mura. La classe dirigente della città si arricchì delle famiglie guerriere del contado, che potarono a Firenze le case-torri e i costumi di faida e violenza. Con il contado pacificato e sicuro, prosperarono le attività mercantili e, nel 1182, si costituì la prima organizzazione dei mercanti, chiamata Arte. I mercanti acquistavano i panni di lana e il materiale tintorio e li raffinavano nelle botteghe per poi esportarli a prezzi maggiorati. E fu così che alla manifattura si affiancò l’attività di prestito del denaro. Con la crescita economica, anche la popolazione incrementò, tanto che lungo le strade che dalle porte andavano verso la campagna si crearono dei borghi, in cui si insediavano i nuovi arrivati. Empori, opifici e nuove case torri crebbero fuori dalle mura.

Quanto all’aspetto politico, dopo la morte di Matilde di Canossa, le istituzioni cittadine decollarono, determinando un governo autonomo de facto, distaccato da quello del Sacro Romano Impero, a cui Firenze era fedele. Fu creato il collegio dei consoli, al quale si aggiungeva il parlamento, ossia l’assemblea generale dei cittadini, con la funzione di ratifica delle decisioni. Ma a governare tra i consoli erano sempre le famiglie aristocratiche, le quali avevano difficoltà a governare in modo collegiale. Questa fu la motivazione che determinò una tensione continua che sfociava in frequenti episodi di violenza. Firenze era un campo continuo di battaglia in cui ci si contendeva il potere, il predominio di una famiglia sull’altra. I gruppi parentali si riunivano in associazioni che avevano tra loro rapporti matrimoniali, di affari o di amicizia e che abitavano nella stessa zona della città, che veniva fortificata con un sistema di edifici collegati e coronati da torri alte settantacinque metri. Era la cosiddetta società delle torri, i cui caratteri principali erano l’uso delle armi, le case-torri (ispirate alla pratica di guerra del contado) e il diritto alla vendetta. Le lotte interne tra le famiglie assunsero presto connotazioni più ampie e la lotta tra impero e papato servì come alibi per mascherare le lotte interne.

Oltre alla rivalità tra le famiglie aristocratiche che si alternavano nella gestione del potere, vi era anche il malcontento di quelle famiglie che restavano al di fuori delle consorterie e che ambivano a entrarvi o a rovesciare i meccanismi di potere. I primi furono gli Uberti che, nella seconda metà del XII secolo, si scagliarono contro il regime consolare, il quale si rivelò incapace di contenere queste ribellioni e che fu, perciò, abolito e sostituito con il regime podestarile. Il potere esecutivo venne quindi affidato a un magistrato forestiero, al quale si affiancarono un consiglio ristretto e uno allargato di cui facevano parte i capi delle Arti (ossia delle associazioni professionali). Il podestà doveva essere di condizione cavalleresca, buon capitano di guerra e avere conoscenze giuridiche, le quali si conseguivano all’università, frequentata solo dai membri delle famiglie aristocratiche; il podestà era, perciò, sempre un aristocratico. Con il consiglio allargato, però, entrarono nel panorama politico anche gli esponenti del Popolo, membri delle corporazioni. Prima fu l’Arte della Calimala (dei mercanti), poi fu la volta di quella del Cambio (banchieri), della Lana, della Seta e altre.

Nonostante l’ingresso del Popolo nel governo, gli scontri tra le fazioni non si attutirono e, nel 1216, l’incidente tra i Buondelmonti e i Fifanti polarizzò le antiche inimicizie in un sistema binario, che divenne la faida tra guelfi e ghibellini. Le scelte degli Uberti diedero agli schieramenti una connotazione ultra-cittadina: la loro fedeltà all’impero fece chiamare ghibellino il loro partito, al quale si contrappose quello dei guelfi, che significava generalmente anti-ghibellino e che, poi, passò a indicare i sostenitori del papa. A questi scontri, però, non partecipava il Popolo, anche se ne era coinvolto, soprattutto perché i popolani più alti che ambivano a una vita aristocratica e alcune famiglie di illustri natali ma di poco denaro, si imparentarono tra loro creando un nuovo ceto: i magnati. Nonostante l’instabilità politica, il moltiplicarsi delle attività economiche richiamò a Firenze una selva di uomini che andarono a incrementare la manodopera di opifici e botteghe e che costruirono nuovi borghi, dagli assetti miserabili e dalla posizione malsana, soprattutto a causa di zone paludose e inquinate. Al loro soccorso arrivarono gli Ordini mendicanti che si posizionarono in diversi punti della città, ognuno attorno a una piazza con la rispettiva chiesa: francescani, domenicani, serviti, carmelitani e agostiniani.

Gli scontri tra guelfi e ghibellini si intensificarono e ad essi si affiancarono le lotte con i grandi nobili del contado, quelle con le altre città (soprattutto Pisa e Siena) e quella contro i catari, svolta dall’Inquisizione gestita dagli Ordini mendicanti. Nel 1250, il partito ghibellino che governava la città venne rovesciato da un’insurrezione guelfa e le grandi famiglie che lo avevano appoggiato furono mandate in esilio, dando vita al periodo detto “del Popolo Vecchio”. L’assetto istituzionale mutò di nuovo e venne formato da due parti: da un lato il comune, guidato dal podestà, e i due consigli, dall’altro il Popolo guidato dal Capitano, forestiero e cavaliere, affiancato da altri due consigli (dei dodici, eletto dalle compagnie militari, e dei ventiquattro, di cui facevano parte i consoli delle Arti). Negli anni di questo governo guelfo fu riorganizzata la milizia, vennero create le nuove circoscrizioni, i sestieri, fu costruito il palazzo del Popolo (il Bargello), venne presentato il fiorino.

Ma circa dieci anni dopo, la battaglia di Montaperti, sfociata a causa del rifiuto della città di accettare l’egemonia di Manfredi di Svevia (che volle assoggettare la Toscana all’Impero), causò una crisi di governo. Nella battaglia, infatti, l’esercito guelfo fu sterminato, dando modo ai ghibellini esiliati di tornare in patria e di darsi a feroci vendette. Il governo di Firenze tornò nelle mani del partito ghibellino, guidato da Farinata degli Uberti. Non durò a lungo. Nel 1266, la caduta di Manfredi nella battaglia di Benevento e la conseguente vittoria di Carlo d’Angiò, sostenuto da papa Urbano IV, fece cadere i ghibellini. Tuttavia, alcuni pontefici successivi, in particolar modo Niccolò III, cercarono di arginare il potere di Carlo e favorirono alcuni ghibellini, i quali tornarono a Firenze, in un precario equilibrio con il governo guelfo. Questo assetto delicato portò il Popolo a premunirsi per non essere cacciato di nuovo dal potere, così i maggiorenti delle Arti della Calimala, del Cambio e della Seta ottennero che i loro rappresentanti affiancassero il governo comunale. Fu istituito il collegio dei sei priori delle Arti (uno per ogni sestiere) e venne riconosciuto il diritto delle Arti maggiori e mediane di avere un capo, detto gonfaloniere, un consiglio e dei reparti armati, e il diritto per i capi delle Arti di entrare nel consiglio del podestà. Era la vittoria di imprenditori e banchieri che erano riusciti a creare un governo in cui le associazioni professionali avevano una voce forte.

Tuttavia, questo nuovo governo popolano non piaceva ai membri dell’antica aristocrazia cavalleresca e alle famiglie che con loro si erano imparentate. Si creò, così, un conflitto sociale tra i magnati (ossia, non solo gli aristocratici, ma anche chiunque potesse attentare alla supremazia del Popolo nel governo cittadino grazie a ricchezza e prestigio) e il Popolo. I primi cercarono di recuperare lo svantaggio politico alimentando la guerra contro i ghibellini che era rinata nel 1288 e che portò, con la battaglia di Campaldino dell’anno successivo, a una nuova ascesa delle famiglie guelfe magnatizie (ricche). Ma contro di esse, nacque un movimento popolano volto sottrarre loro il potere, che portò all’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293, ossia una serie di norme che stabilirono l’impossibilità di essere eletti come priori o membri dei consigli per i magnati. Il Popolo voleva evitare che le famiglie ricche potessero, attraverso il prestigio, il peso politico e il denaro, attentare alla sua supremazia nel governo. Tuttavia, l’alleanza con il papa delle famiglie guelfe portava grande afflusso di denaro alle banche fiorentine, pertanto i guelfi andavano in qualche modo tollerati. Gli Ordinamenti vennero così emendati due anni più tardi, permettendo ad alcuni magnati di accedere alle Arti e, perciò, al governo.

A garanzia di questo nuovo assetto di governo, per impedire che i magnati guelfi approfittassero della loro posizione nei consigli, fu posto il gonfaloniere di giustizia, un magistrato supremo del collegio dei priori. Si formò così una élite composta da antiche famiglie e nuovi ricchi che aspiravano alla vita aristocratica e che si proponevano come banchieri e appaltatori di tasse, riunendosi in compagnie, ossia società bancarie e commerciali che prendevano il nome dalla famiglia che contava di più. All’inizio del Trecento non esistevano più le consorterie di famiglie guelfe e ghibelline, ma le compagnie di ricchi pronti a egemonizzare il governo delle Arti. Esse gestivano anche i depositi di speculatori stranieri e degli istituti ecclesiastici, nonché il prestito internazionale di importanti somme.

La lotta politica, però, non si era attenuata. Dopo Campaldino, il partito guelfo si era scisso in due fazioni: la famiglia dei Cerchi guidava i guelfi bianchi, mentre i Donati, guidavano i guelfi neri. Nel 1302, i guelfi neri uccisero ed esiliarono i bianchi, ma una serie di problematiche tra loro e con i ghibellini portò, nel 1325, il Popolo Grasso (ossia i membri delle famiglie più influenti) a chiedere aiuto al re di Napoli, il quale affidò la signoria di Firenze a suo figlio Carlo d’Angiò per dieci anni.

Si chiuse, così, uno dei periodi più splendidi per la vita artistica, urbanistica e culturale della città, nel quale Arnolfo di Cambio fu protagonista. Firenze era diventata una delle città più popolose dell’Occidente, erano stati costruiti una nuova cinta muraria, il palazzo dei Priori (Palazzo Vecchio), il battistero, la basilica di Santa Maria del Fiore. Era stata la Firenze di Dante, Cimabue e Giotto.

A metà del Trecento, le compagnie fiorentine prestavano denaro ai papi, ai re di Francia e Inghilterra e a tutti i signori d’Europa; le botteghe raffinavano il 10% di tutti i panni di lana prodotti in Occidente. Banca, commercio e manifattura si sostenevano a vicenda. Calimala, Cambio e Lana dominavano la città. Eppure, l’avvio della guerra dei Cent’anni portò all’insolvenza del re inglese Edoardo III, a cui le compagnie avevano concesso ingenti prestiti, e molte di esse fallirono, prostrando la città. La situazione era difficilissima. Per un breve periodo, la signoria fu affidata a un nobile francese (che venne poi abbattuto con una serie di congiure), nella speranza di rimediare alla situazione di emergenza. Dopo la sua cacciata, la signoria tornò nelle mani del Popolo Grasso e i suoi organi fondamentali furono il gonfaloniere, gli otto priori, il consiglio dei Buoniuomini (degli anziani) e quello dei sedici, i gonfalonieri di compagnia. Tuttavia, le difficoltà politiche ed economiche avevano determinato una fase di rallentamento in tutti gli aspetti della vita cittadina, aggravati anche dall’epidemia di peste del 1348. La città fu flagellata, poi, da annate di grave carestia e da frequenti passaggi delle Compagnie di Ventura e questo stato di cose provocò agitazioni dei ceti subalterni, che vivevano in condizioni miserabili, come il tumulto dei Ciompi del 1378. I ciompi, ossia i sottoposti all’Arte della Lana, si rivoltarono per ottenere salari e condizioni di vita migliori, nonché il riconoscimento giuridico e istituzionale del loro stato. Questa rivolta portò alla creazione di tre nuove Arti, dei ciompi, dei farsettai e dei tintori.

Tuttavia, pochi anni dopo, il Popolo Grasso ristabilì un ordine oligarchico, in cui i protagonisti erano gli Albizzi, i quali smantellarono gli schieramenti famigliari opposti, finché la lotta si radicalizzò tra gli Albizzi, che rappresentavano la vecchia oligarchia, e i Medici, capi della compagnia della Calimala, a cui guardavano i nuovi cittadini e gli esponenti di Arti mediane e minori. A questa lotta si legò l’istituzione del catasto, ossia il sistema organico di tassazione basato sui capitali e sui redditi mobili e immobili. Esso sovvertiva il precedente sistema basato su imposte indirette e tasse sul patrimonio, in cui la finanza pubblica si reggeva sui dazi alle merci e ai comuni. Con il catasto, si andò ad attingere ai forzieri delle grandi famiglie e il primo sostenitore del nuovo sistema fu Giovanni de’ Medici. Egli si inimicò, così, ancor di più gli Albizzi che, a quel punto, erano obbligati a pagare.

Quando Giovanni morì, la guida della compagnia e della fazione medicea passò al figlio Cosimo, con il quale iniziò la fortuna politica della casata. Egli, infatti, nonostante l’avversione di Rinaldo degli Albizzi che riuscì a farlo incolpare di fallimento e a farlo esiliare, godeva del pieno favore della signoria. Fu un grande mecenate e un abile banchiere e politico. Alla sua morte, gli succedette il figlio Piero, anch’egli abile in affari e politica, ma di salute cagionevole. Dopo cinque anni, morì lasciando il comando ai giovani figli Lorenzo e Giuliano. Se Giuliano restò un po’ nell’ombra, Lorenzo il Magnifico fu un grande statista e diplomatico, un cultore delle lettere e ottimo mecenate, ma purtroppo non era abile negli affari e, sotto la sua guida, fallirono alcune filiali del banco mediceo. In questo periodo, Firenze non crebbe né in popolazione né in perimetro urbano, ma si arricchì di magnifiche opere d’arte e visse in un’atmosfera allegra e giocosa, grazie all’incoraggiamento del Medici alle feste.

Due anni dopo la morte di Lorenzo, nel 1494, il banco dei Medici fallì e suo figlio Piero, che ne aveva preso il posto, fu cacciato dalla città per non essersi opposto alla discesa delle truppe del re francese Carlo VIII. Firenze visse, così, quattro anni di lotte tra i seguaci del frate domenicano Girolamo Savonarola (i “piagnoni”) e i suoi avversari (gli “arrabbiati”, sostenitori di una repubblica oligarchica, e i “palleschi”, sostenitori del ritorno dei Medici). Savonarola voleva una città purificata dal peccato, con un regime popolare guidato dal Consiglio Maggiore, predicava la penitenza, fomentando roghi degli oggetti di lusso. Ma il suo predicare non piaceva a papa Alessandro VI Borgia che lo scomunicò e lo condannò a morte per eresia.

Caduto il domenicano, la Repubblica resuscitò con la creazione del gonfaloniere a vita, nella persona di Pier Soderini. Ma la repubblica (celebrata dal David che Michelangelo scolpì in questi anni) si appoggiava alla corona di Francia e, nel clima europeo caratterizzato dalle guerre tra Francia e Spagna, non durò a lungo. Infatti, nel 1512 un esercito spagnolo riportò in città i Medici e Firenze cadde in mano a un altro figlio del Magnifico, il cardinale Giovanni de’ Medici, e l’anno successivo passò al fratello Giuliano, duca di Nemours, quando il primo fu eletto papa Leone X. Nel 1516, alla morte di Giuliano, il governo passò al figlio di Piero (che era stato cacciato), Lorenzo duca d’Urbino, il quale però morì due anni dopo. Il governo allora toccò a suo figlio Alessandro e al cugino, il cardinale Ippolito (figlio di Giuliano di Nemours). Grazie ai posti occupati nello stato pontificio da Leone X prima e da Clemente VII poi (al secolo, Giulio de’ Medici, figlio del fratello del Magnifico, Giuliano), l’economia di Firenze rifiorì. Ma nel 1527, quando Clemente VII si alleò con la Francia contro Carlo V che saccheggiò Roma, Firenze insorse e cacciò nuovamente i Medici: il popolo non avrebbe più tollerato un sovrano. Il papa, però, non era felice di questo nuovo esilio, così, dopo la riappacificazione con Carlo V, gli chiese di riportare l’ordine nella sua città. I fiorentini resistettero per undici mesi agli assalti dell’esercito spagnolo, con Michelangelo in prima fila a dirigere i lavori di fortificazione. Tuttavia, dovette arrendersi, ma l’ardore popolare dimostrato dalla città fece capire al papa che serviva qualcosa di più forte dei meccanismi politici con cui avevano governato in precedenza. Così, nel 1532, Firenze fu trasformato dall’imperatore in ducato e la corona fu affidata ad Alessandro figlio di Lorenzo di Urbino. Cinque anni dopo, egli fu assassinato, estinguendo la discendenza diretta di Cosimo. Il ducato, allora, passò a un esponente del ramo cadetto della famiglia, Cosimo I, figlio di Giovanni dalla Bande Nere. Cosimo governò con saggezza e creò uno stato toscano uniforme, con fortezze e regge in tutta la Toscana di cui divenne granduca, grazie alla nomina pontificia a granducato. Avviò grandi lavori di bonifica, sviluppò l’urbanistica, favorì il porto di Livorno, fondò l’Ordine di Santo Stefano per combattere i pirati, trasferì la corte a Palazzo Pitti, creò l’Accademia fiorentina e quella della Crusca. Furono gli anni del Giambologna e di Benvenuto Cellini, dell’Ammanati e di Vasari. Anni che chiusero i secoli d’oro di Firenze, quelli in cui fu costruito e realizzato tutto ciò che, oggi, migliaia di turisti da tutto il mondo vengono a vedere con i propri occhi.

D’ora in avanti, quando passeggerete per le strade di Firenze, fermatevi un secondo e provate a tendere l’orecchio. Vi sembrerà di sentire le urla del popolo durante gli scontri tra i guelfi e i ghibellini, il tintinnare dei fiorini sui banchi delle famiglie di banchieri, le prediche di Savonarola, il rumore degli scalpelli sul marmo. Vi sembrerà di scorgere Michelangelo davanti a Palazzo Vecchio, intento a controllare il suo David (che oggi è custodito alla Galleria dell’Accademia), o Lorenzo il Magnifico che varca il portone del suo palazzo in via Larga (oggi è via Cavour).

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Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Primo appuntamento: Guglielmo il Maresciallo e i cavalieri medievali

Molto di ciò che conosciamo a proposito della cavalleria medievale è dovuto a una canzone, un poema, scritto dopo la morte di uno dei più grandi e importanti cavalieri della Storia: Guglielmo il Maresciallo. Il maresciallo, conte di Pembroke, era considerato già dai suoi contemporanei il migliore cavaliere del mondo, emblema della cavalleria stessa, uomo che si è creato da solo la propria fortuna, cavaliere dalla carriera esemplare: da scudiero di Guglielmo signore di Tancarville, in Normandia, a tutore del re Enrico il Giovane, per finire reggente del Regno d’Inghilterra per conto del novenne Enrico III, che lo portò ad essere uno degli uomini più potenti dell’Occidente all’inizio del XIII secolo.

Ripercorriamo questa carriera sfolgorante.

Personaggio dalla genealogia pressocché sconosciuta, probabilmente nipote di uno degli avventurieri che seguirono Guglielmo il Conquistatore, da bambino, il Maresciallo fu mandato dal padre in Normandia, dal signore di Tancarville, feudatario del re d’Inghilterra, per essere educato da guerriero. Era, infatti, figlio cadetto a cui non sarebbe spettata alcuna eredità: la scelta era tra la strada del mondo o la carriera ecclesiastica. Divenuto cavaliere, dimostrò grande valore bellico, sia per audacia che per tecnica, e iniziò a partecipare ai tornei, in cui perfezionò il suo apprendistato e nei quali si distinse sempre più. Una volta affermato, tornò in Inghilterra, ma non nella famiglia d’origine, bensì in quello dello zio materno, Patrizio conte di Salisbury, intimo di re Enrico II. E questa fu la sua prima fortuna. Infatti, la consorte di Enrico, la regina Eleonora d’Aquitania, colpita dal rispetto e dalla capacità di sacrificio che Guglielmo aveva dimostrato in un’occasione, lo inserì tra i cavalieri del suo seguito. Il giovane divenne così membro di una corte reale. Due anni dopo, nel 1170, poi, un altro grande passo per la sua carriera. Enrico II, infatti, incoronò re il figlio quindicenne, Enrico il Giovane. Ma questi, maggiorenne solo da un anno, non ancora cavaliere, aveva bisogno di una guida, un istruttore d’armi. Il padre scelse proprio Guglielmo come mentore del figlio, mettendolo al vertice dei cavalieri della casa reale. Diventò così maestro del suo signore. Aveva il giovane re nelle sue mani. Per tenere il figlio occupato, Enrico II ne sostenne le imprese cavalleresche, che si tradussero nel continuo vagabondare per tornei. L’esperienza e la bravura di Guglielmo furono qui fondamentali, tanto che gli valsero l’amore del giovane re. Addirittura, Enrico il Giovane gli chiese di armarlo cavaliere. Un compito importantissimo che sarebbe spettato, in teoria, a un altro re, probabilmente Luigi VII di Francia, suo signore feudale. La posizione di Guglielmo si elevò ulteriormente, grazie anche all’intimità con il re, che però gli procurò molte invidie tra gli altri cavalieri, i quali ordirono una congiura ai suoi danni. Le voci di un suo rapporto adulterino con la moglie del re, Margherita, gli fecero perdere l’affetto del sovrano, così abbandonò la corte per riprendere i tornei, nei quali era ambito e conteso. Quando, però, Enrico il Giovane entrò in guerra contro il padre, lo richiamò a corte. Tuttavia, poco tempo dopo, il re morì e Guglielmo ne eseguì l’ultima volontà, partendo per la Crociata al suo posto. Quando tornò, entrò nel seguito di Enrico II per fronteggiarne l’altro figlio, Riccardo, che gli muoveva guerra. Durante uno scontro, coprì la ritirata del suo re (che poco dopo morì), umiliando Riccardo abbattendone il cavallo, il quale lo accusò di avere tentato di ucciderlo. Tuttavia, il nuovo re, Riccardo Cuor di Leone, lo perdonò, gli concesse in sposa una ricchissima nobile e lo inserì nel suo seguito. Grazie al matrimonio con Isabella di Clare, Guglielmo divenne signore potentissimo e vassallo del re. Quando Riccardo partì per la Crociata, il Maresciallo rimase in Inghilterra a sorvegliare il fratello del re, Giovanni Senza Terra, che divenne re a sua volta alla morte di Riccardo nel 1199. Ma fu nel 1216 che Guglielmo raggiunse l’apoteosi. Prima di morire, Giovanni gli affidò la tutela del figlio Enrico di nove anni, salito al trono come Enrico III d’Inghilterra. Guglielmo il Maresciallo, diventò così uno degli uomini più importanti dell’Occidente. Tre anni dopo, morì.

Come dicevamo all’inizio, alla sua morte, nel maggio del 1219, il suo primogenito commissionò a un troviero, tal Giovanni, la realizzazione di una canzone che narrasse la vita e le gesta del genitore. Giovanni il Troviero impiegò sette anni per raggiungere il suo scopo. In centoventisette fogli di pergamena e in quasi ventimila versi, egli restituì il Maresciallo alla memoria, basandosi su fonti precise e, in particolar modo, sulla testimonianza diretta di Giovanni d’Early, persona molto vicina al defunto signore di Pembroke. Giovanni era stato, infatti, il suo fido scudiero che, anche una volta divenuto cavaliere, mai si era separato dal Maresciallo e lo aveva servito per trentun anni, divenendone quasi l’alter ego. Nella canzone del troviero, intitolata “Storia di Guglielmo il Maresciallo, conte di Striguil e Pembroke, reggente di Inghilterra” Giovanni d’Early racconta ciò che ha visto con i propri occhi e ciò che il suo signore gli raccontava, facendo risplendere i ricordi personali di un cavaliere contemporaneo di Eleonora d’Aquitania. E, grazie a questi ricordi, la canzone diviene preziosa testimonianza dell’epoca cavalleresca, nonché la più antica biografia scritta in lingua anglonormanna. Questo testo è fondamentale per la comprensione della cavalleria medievale, perché in esso ne emergono i principi, i tabù, le liturgie, le aspirazioni. Attraverso gli episodi della vita del Maresciallo, infatti, gli storici hanno potuto ricostruire i principi, il costume e l’ideologia di quella società guerriera.

Dalla scarsissima presenza di donne all’interno del poema (solo tre accenni), si intuisce come fosse un mondo maschile, in cui solo gli uomini contavano. Un episodio ci racconta come erano considerate le donne nella mentalità cavalleresca. Guglielmo, seduto nell’erba a riposare, viene svegliato dalla voce di una dama, verso la quale si precipita. Scopre che è accompagnata da un bel monaco, con cui la fanciulla sta scappando. Il nostro cavaliere si preoccupa che abbiano denaro sufficiente e il monaco gli mostra una borsa piena di monete che metterà in rendita in una grande città. Vivranno di usura, dunque! Nel peccato. Guglielmo fa sequestrare i denari e manda al diavolo i due amanti. La morale del cavaliere imponeva di correre al soccorso delle donne nobili di nascita quando erano in pericolo, ma al pari gli vietava di obbligare una donna con la forza; in amore, doveva rispettarne la volontà. Tuttavia, la cavalleria voleva tenere per sé tutte le donne del suo sangue, vietando ai maschi di ogni altra condizione di prenderle. Pertanto, le donne che non rifiutavano l’amore di chiunque non fosse cavaliere, meritavano il rogo, ma il cavaliere non si sentiva in diritto di alzare la mano su di lei o sul suo amante. Questo episodio mostra anche come il cavaliere disprezzasse l’usura (che era bandita dalla Chiesa): l’uomo di qualità guadagnava con la sua audacia, impadronendosi del bottino a rischio della vita e non approfittandosi delle difficoltà altrui.

Il modo in cui Guglielmo reagisce alla calunnia dei congiurati, che lo additavano come amante della regina Margherita, ci mostra come la verità e l’onore fossero più importanti della vita stessa. Egli, infatti, si offrì di andare a duello, di prestarsi all’ordalia, in cui Dio avrebbe distinto il colpevole dall’innocente. Pronto a sfidare i tre campioni più valorosi, avrebbe accettato la pena di morte in caso non li avesse sconfitti tutti. Anche gli uomini, però, non sono tutti uguali. Per il cavaliere contano solo i cavalieri e solo i nobili, soltanto i combattenti designati da Dio.

E i figli dei cavalieri? Contava solo il primogenito, e nemmeno poi molto. Lo capiamo quando il Torniero racconta dei tempi in cui il padre di Guglielmo, Giovanni, osteggiava re Stefano. Durante un assedio, il re chiese una garanzia alle trattative: voleva in ostaggio un figlio di Giovanni. Questi, scelse proprio Guglielmo, il quartogenito, ma ciò non gli impedì di rafforzare le difese, mettendo il figlio in pericolo, che venne minacciato di impiccagione. Come rispose il padre? “Possiedo ancora incudine e martello per farne uno più bello”. Inoltre, i figli dei cavalieri lasciavano presto la casa paterna, per iniziare l’apprendistato, per non farvi più ritorno, ad eccezione dei primogeniti. Intorno agli otto, dieci anni venivano separati dalla madre e da tutte le donne del loro sangue, per essere catapultati in un mondo fatto di cavalcate, scuderie, armi e divertimenti da uomini, in cui il signore diventava il nuovo padre, fino a cancellare la memoria di quello vero. Un padre fittizio che rimarrà tale soltanto fino al termine dell’apprendistato, ossia all’investitura a cavaliere, quando i novelli cavalieri non venivano più mantenuti dal signore, ma dovevano partire alla ricerca del proprio destino. Con la vestizione, il cavaliere diventava uomo e in quel momento iniziavano la libertà e il pericolo. Soprattutto, per i figli cadetti, i quali partivano senza nulla, senza quell’equipaggiamento che il padre forniva al primogenito per far risplendere la casata.

Così, il neocavaliere partiva alla volta del mondo e ciò voleva dire anche andare per tornei. Non tanto per prestigio, come facevano i primogeniti, quanto per guadagnare, per crearsi una possibilità di vita. Vincere. Questo era l’obiettivo di ogni cavaliere, per migliorare l’equipaggiamento, per partire in posizione migliore nei tornei successivi. E ognuno doveva avere il proprio seguito, perché colui che cavalcava senza compagnia faceva la figura del povero o dell’esiliato, in quanto la solitudine, nel Medioevo, era vissuta con dolore, come una penitenza.

E Guglielmo il Maresciallo fu molto abile a diventare, in poco tempo, l’idolo dei tornei, ma fu un episodio di vera battaglia che gli portò la prima grande fortuna. Quando, tornato in Inghilterra, si aggregò alla famiglia dello zio materno, il conte di Salisbury, lo seguì a Poitou, nella scorta della regina Eleonora d’Aquitania. Qui, lo zio fu colpito a morte alle spalle da uno dei baroni ribelli. Tradimento! Il barone aveva infranto due morali: quella del cavaliere, che vietava di non uccidere i cavalieri e, soprattutto, non di spalle, e quella feudale che condannava il vassallo che colpiva il suo signore. L’eroico Guglielmo vendicò il delitto, anche seguendo la morale del lignaggio, che prevedeva di lavare l’offesa arrecata alla sua famiglia nel sangue del nemico. Si lanciò a capo scoperto, contro sessantotto guerrieri armati di spiedi; uccise sei dei loro cavalli, ma fu colpito alla coscia e portato via gravemente ferito. Fu qui che si vide il valore del cavaliere! Non stava giostrando, non aveva agito per la gloria o per il bottino, ma aveva affrontato il male, rischiando davvero la vita. Aveva vendicato lo zio, ma anche il re, di cui il conte era luogotenente. E la regina lo inserì tra i suoi cavalieri.

Ma quali erano le virtù del cavaliere? Erano di tre tipi. La fedeltà. Tenere fede alla parola data, non tradire i giuramenti e porre, davanti a esigenze contrastanti, la fedeltà al diretto signore. La prodezza. Combattere e vincere, conformandosi alle leggi, perché il cavaliere non combatteva come i villici. “Il prode non cerca altra protezione oltre la bravura del suo cavallo, la qualità della sua armatura e la devozione dei compagni del suo rango, la cui amicizia lo protegge. L’onore lo obbliga a mostrarsi impavido, fino alla follia.” La liberalità. Tutto ciò che arrivava nelle mani del cavaliere, lui lo regalava; non teneva nulla per sé, doveva essere generoso. Anche se quest’ultima virtù si scontrava con la realtà che vedeva indispensabile il denaro per l’equipaggiamento che si logorava velocemente, soprattutto per i cavalli che si perdevano nei tornei, che si rovinavano nelle cariche o morivano, così come era necessario al mantenimento del rango. E il cavaliere era logorato, ogni giorno, dall’eterno dilemma: il denaro è indispensabile all’onore, ma l’onore esige di disprezzarlo.

Ma torniamo ai tornei. Guglielmo visse in un periodo in cui il fanatismo per questo sport era al culmine, uno sport che non si praticava ovunque, ma soprattutto in Francia. Il torneo più riuscito fu quello di Lagny, a cui parteciparono tremila cavalieri, ognuno con il proprio seguito, oltre ad alcune compagnie di mercenari di umili origini che, nonostante fossero disprezzati, erano molto usati perché abile nel maneggio di armi ignobili (picche e ganci). I tornei, ai quali non partecipavano i re (a eccezione di Enrico il Giovane), ma che erano organizzati dai baroni, erano annunciati con quindici giorni di anticipo e si svolgevano durante tutto l’anno, con alcune interruzioni dovute alla pioggia (che rovinava usberghi e cotte di maglia) e per la Pasqua, Pentecoste e Ognissanti. Per la diffusione della pubblicità erano fondamentali gli araldi, ossia quei professionisti dell’identificazione dei cavalieri attraverso le insegne araldiche, capaci anche di comporre canzoni con le quali esaltavano i cavalieri e le casate. I giocatori arrivavano al campo di battaglia raggruppati in bande (per i cavalieri erranti) e in corpi (per le grosse casate). I baroni, poi, formavano le due grandi squadre dell’incontro, il quale era preceduto da un mercanteggiare per il reclutamento dei grandi campioni. La partita si giocava in una giornata, in due campi, in campagna. Il campo non aveva limiti precisi, oltre alle lizze, ossia barriere che delimitavano dei rifugi in cui i combattenti potevano riprendere fiato per qualche momento. Vi erano degli ostacoli accidentali, come boschetti, monticelli di terra o granai, che rendevano il gioco più interessante perché utili per tendere imboscate o scappare. Il torneo iniziava quando un gruppo avanzava verso l’altro, cercando di restare il più compatti possibile, perché l’obiettivo era quello di sfiancare e sfondare l’altra squadra. La vittoria, quindi, dipendeva dalla disciplina e dall’autocontrollo, più che dall’impeto. Si giocava solo per l’onore. Ci si andava come in guerra per impadronirsi di armi, cavalli e uomini. Il gioco nel torneo consisteva nel fare prigionieri e il modo migliore era quello di disarcionare l’avversario con un colpo di lancia. Ed era necessario colpirlo alla testa, in quanto ogni cavaliere sapeva tenersi saldamente in sella. Una volta a terra, l’avversario veniva trascinato in spalla (schivando i suoi compagni di squadra che lo difendevano) al margine del campo e la cavalcatura era conquistata. Il torneo terminava quando una delle due squadre era sparpagliata o quando si decideva di smettere e si attribuiva la vittoria ai punti. A questo punto, il torneo diventava una festa: si commentava il gioco, ci si medicava le ferite, si redigeva l’albo d’oro dei giocatori e si distribuiva il bottino; gli araldi sarebbe spettata la pubblicità.

Ma non era il denaro a contare davvero in quella società. Era il potere ad avere importanza. E il potere, quello vero, era esercitato dagli uomini sposati. Dopo la vestizione, ossia la consegna della spada, la nomina a cavaliere (che avveniva dopo i vent’anni), il giorno delle nozze era il secondo vero spartiacque della vita del cavaliere. Se è vero, infatti, che l’uomo valeva molto più della donna, è altrettanto vero che l’uomo non valeva quasi nulla se non aveva una legittima moglie. L’ordine del potere nella società feudale era basato sulla disuguaglianza, sul servizio e sulla lealtà. I gentiluomini erano al di sopra di tutti i laici, ma tra di loro vi erano delle differenze di potere: il capofamiglia dominava sulla casata, il primogenito era favorito rispetto ai cadetti, il signore stava al di sopra di chi gli aveva reso omaggio e i rapporti politici erano basati sulla gerarchia degli omaggi. Questi rapporti, a volte, interferivano gli uni sugli altri e i conflitti erano risolti con l’amicizia reciproca che obbligava a rendersi servigi e ad aiutarsi. In questo modo si manteneva la pace tra pari e impegnava chi stava al di sotto alla reverenza e chi stava al di sopra alla benevolenza. Il matrimonio poteva cambiare le posizioni di potere, proprio come accadde a Guglielmo che, sposando Isabella (che portò in dote ben sessantotto feudi!), passò da semplice cavaliere a barone reale. Questo significò farsi amicizie estese, guadagnare appoggi e mettere le spalle al sicuro da gelosie e rivalità, anche grazie ai matrimoni che combinò per i suoi figli.

Molto probabilmente tutto ciò non lo avremmo conosciuto se Guglielmo il Maresciallo non fosse esistito e suo figlio non avesse deciso di renderlo eterno facendo comporre un poema in suo onore.

REVIEW PARTY, Romanzo storico

“Tre insoliti delitti” di Matteo Strukul – Review party

“Stanotte sarò io a uccidere il diavolo. Oppure sarà lui a strapparmi l’anima.”

Bari, metà dicembre 1199. Il cavaliere templare Kaspar Trevi arriva a Bari. Il reggente del Regno di Sicilia, Marcovaldo di Annweiler, lo fa convocare per affidargli un’importante missione. Insieme al vescovo di Troia, Gualtiero di Palearia, chiede al monaco guerriero di trovare una donna e consegnarla alla giustizia. Filomena Monforte, fervida sostenitrice di Costanza d’Altavilla, la precedente reggente, è accusata di stregoneria e dell’omicidio del nobile Giuseppe Filangeri. Kaspar non può rifiutare l’incarico, così parte per una lunga e sanguinosa ricerca che lo porterà ad attraversare Bari, Roma e Venezia. Riuscirà nell’impresa?

Questa è la trama del nuovo romanzo di Matteo Stukul, “Tre insoliti delitti”, edito da Newton Compton Editori, un thriller storico cupo che ci porta nei meandri del Medioevo.

Siamo alle fine del XII secolo e il regno di Sicilia è guidato da Marcovaldo di Annweiler. La vedova di Enrico IV di Svevia, Costanza d’Altavilla, è morta da un anno e il nuovo re, Federico II di Hohenstaufen, è solo un bambino. Marcovaldo ne è il reggente, il curatore degli interessi del re infante. Eppure, si comporta come se fosse il legittimo sovrano. E proprio per questo, insieme a Gualtiero di Palearia, vescovo di Troia e Gran Cancelliere del Regno di Sicilia, suo braccio destro, vuole assicurarsi che la legge venga rispettata. In questo contesto storico, l’autore fa partire l’avventura del protagonista, un personaggio di fantasia dalle splendide tinte gotiche.

Mescolando, così, con maestria personaggi realmente esistiti e personaggi inventati, in un contesto preciso e fedele, l’autore ci porta dentro a un’avventura avvincente. Una lotta contro il tempo, intrisa di sangue e mistero, in cui un ruolo primario è dato alla figura di San Nicola, e che racconta il Natale in chiave medievale. Una storia in cui Strukul non manca di sottolineare la condizione della donna nel Medioevo, l’alone di sospetto che le circondava, la debolezza della loro posizione, facilmente attaccabile con qualsiasi pretesto. Un romanzo che intreccia il genere cavalleresco, la religione, la mitologia e la demonologia; in cui la fantasia si fonde in modo perfetto con la Storia, con un protagonista forte e impavido, giusto e leale, che incarna l’archetipo dell’eroe. Pregevole è, poi, il modo in cui l’autore ricrea le atmosfere delle città. In particolare, l’affresco della Roma medievale di papa Innocenzo III è stupefacente.

Tre insoliti delitti” è una cupa novella in cui ritroviamo tutti gli elementi del mondo medievale. Cavalieri, streghe, castelli, duelli, delitti e intrighi prendono vita in un’atmosfera lugubre che si fonde con quella del Natale. Una lettura perfetta per tutti gli amanti del Medioevo e dell’avventura. Un romanzo in cui ritroverete il Natale come nessuno lo ha mai raccontato.

recensione, Romanzo storico

“Paolo e Francesca” di Matteo Strukul

“Perché Francesca, ne era certo, rappresentava per lui un pericolo. E con la sua avvenenza, l’avrebbe portato all’Inferno.”

Ravenna, seconda metà del Duecento. Il guelfo Guido da Polenta, finalmente, riesce a sconfiggere i suoi acerrimi rivali, i Traversari e, con un colpo di mano, conquista Ravenna, divenendone podestà. Determinante nella vittoria, è l’aiuto della cavalleria di Giovanni Malatesta, figlio di Malatesta da Verucchio, signore di Rimini. E Giovanni, il suo ruolo in quella vittoria, vuole farlo valere. Non vuole terre né denari. Solo una cosa ha in mente: la bella figlia del da Polenta, la giovane Francesca. Come può Guido rifiutare un tale partito per la sua terzogenita? Ben disposta ad assecondare il volere di quel padre al quale è così tanto legata, Francesca sposa Giovanni per procura. Al suo posto, alla celebrazione presenzia il bellissimo fratello dello sposo, Paolo Malatesta.

Ha inizio così la vicenda di uno dei più celebri amori della Storia, la cui memoria è arrivata fino a noi grazie a Dante Alighieri. L’amore imperituro tra Paolo e Francesca, celebrato nel nuovo romanzo di Matteo Strukul, edito da Nord Sud Edizioni.

Una fanciulla forte e fiera, istruita, coraggiosa eppure avveduta. Un amore traditore, nato per caso ed esploso per passione. Due anime impegnate, ma incapaci di sottrarsi l’una all’altra; due cuori incatenati da un beffardo incantesimo d’amore.
Francesca è indipendente, intelligente e lungimirante, colta e coraggiosa, consapevole del suo ruolo nel mondo degli uomini, vive il suo matrimonio cercando di rinnegare il sentimento che prova per Paolo. Paolo, cavaliere senza macchia, è pronto a difendere a fil di spada la donna che ama oltre ogni ragionevole convenienza, brama di una passione malcelata, che lo divora fin nel profondo. Due giovani che hanno creduto di poter ingannare la mentalità del loro tempo e le insidie di una corte. Due giovani, però, che hanno avuto l’audacia e la sfrontatezza di avventarsi contro il destino avverso. Due anime affini e complementari, due corpi e un solo, unico cuore.
Eppure, ogni corte, grande o piccola che sia, pullula di pericoli, invidie, gelosie, spie. Soprattutto per una donna forte e indipendente, con un grado di istruzione che fa paura ha chi quell’istruzione non ce l’ha. E che segna, in modo ineluttabile, la vita della giovane Francesca.

Nel narrare questo amore, Strukul ci porta a comprendere la mentalità dell’uomo medievale, i suoi valori e le sue consuetudini. Un viaggio che permette al lettore di provare un briciolo di empatia con Giovanni Malatesta. Quello che brucia in lui non è tanto il tradimento della moglie, quanto quello dell’amato fratello, la ferita nell’orgoglio e nella dignità, il legame di sangue reciso. Giovanni dall’animo brutale e guerriero, provato dalla vita, che lo ha menomato nel fisico inasprendone il cuore. Roso da un amore non corrisposto, che colma con l’ira e con il distacco il suo senso di inferiorità nei confronti di una moglie che troppo è per lui.

Paolo e Francesca tornano a vivere tra le pagine di questo romanzo emozionante e struggente, denso di sentimenti e di Storia. La prosa fluida è così romantica da dare l’impressione di leggere uno dei manoscritti cavallereschi che tanto amava la protagonista. Il modo in cui Strukul dipinge le scene è poetico, delicato e potente allo stesso tempo e, a ogni pagina, sorprende come riesca a creare immagini sublimi e precise. Il modo in cui gioca con le parole è magistrale.

“Nei suoi occhi, sospettosi per natura, albergava anche la cupidigia più fine, depositata sul fondo acquoso delle iridi come sabbia, pronta a intorbidire lo sguardo non appena qualcuno l’avesse agitata.”

“Amor, c’ha nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’abbandona” diceva Dante nel V canto dell’Inferno. Un amore che non abbandona Francesca nemmeno tra le spire della dannazione. È proprio quello che Matteo Strukul ci regala in questo romanzo. Un sentimento così forte da vincere la morte e la paura, che non abbandona mai, nemmeno per un solo istante, e resta vivo fino alla fine i due giovani amanti.

“Per un’ultima volta voleva abbandonarsi a lui e lasciarsi amare in quel modo tutto suo, come se si fosse trattato della fine del mondo. Come se non esistesse un domani. Come se quel momento fosse l’ultimo rimasto al genere umano e loro rappresentassero due anime sopravvissute troppo a lungo, due creature che avevano rubato il filo delle parche.”

Paolo e Francesca” è un romanzo che celebra l’amore, quello che divora il cuore, che brucia l’anima. Quello rinnegato, osteggiato, ma impossibile da estinguere. E, pur conoscendo a fondo la storia di Paolo e Francesca, è un libro che si divora.

recensione, Romanzo storico

“L’eredità degli Sforza” di G.L. Barone

Cosa fa di un thriller storico un romanzo appassionante?

Una trama intrigante, uno stile fluido e strascinante e un’ottima ricostruzione storica. “L’eredità degli Sforza” di G.L. Barone, edito da Newton Compton Editori, possiede tutte queste caratteristiche. La trama ricca di movimento si svolge tra le vie della Milano quattrocentesca, sulla quale governa Ludovico Sforza, detto il Moro, duca reggente in vece del nipote Gian Galeazzo. Con le truppe dell’imperatore Carlo VIII che attraversano l’Italia e Leonardo da Vinci che sperimenta nuove macchine per il ducato, tre personaggi molto diversi tra loro dovranno cavarsela tra intrighi e misteri, pericoli e congiure, per portare la verità nel Ducato di Milano. La marchesa Marianna Tomaino Zandemaria, il bargello del podestà Salvo Lecce e il giovane curato Don Isacco sono chiamati a far luce su un mistero che fa parlare la città: il duca Gian Galeazzo Sforza è stato avvelenato? E chi potrebbe essere il mandante della congiura? Tra personaggi storici e altri di fantasia, l’autore trasporta il lettore tra le nebbie della Lombardia del primo Rinascimento in modo davvero sorprendente. La ricostruzione dell’ambientazione, infatti, è molto curata ed efficiente e riesce a far volare il lettore sopra gli intrecci politici delle istituzioni medievali. La trama è ricca di colpi di scena. Un giallo ben intrecciato che riesce a tenere alta l’attenzione del lettore e a sposare la vicenda di fantasia, che ruota intorno a uno dei misteri di quel periodo, con il contesto storico al quale l’autore si è attenuto in modo fedele . La narrazione è fluida ed estremamente scorrevole e la prosa è perfettamente coerente con il periodo in cui si svolge la vicenda.

L’eredità degli Sforza” è una lettura davvero piacevole, che mischia una trama avvincente al nitido affresco di un’epoca lontana, che dà al lettore la reale impressione di trovarsi tra le strade della Milano di fine Quattrocento.

recensione, Thriller

“Chi muore e chi uccide” di Vincenzo Padovano

Chi muore e chi uccide” di Vincenzo Padovano, edito da Nua Edizioni, è un thriller frenetico e adrenalinico.

Nella cornice di una Puglia alle prese con la pandemia di Covid-19, le vicende di tre persone si mescolano in un intreccio al cardiopalma dal quale sarà impossibile tornare indietro. Un poliziotto, un sicario e una madre sono invischiati in una lunga scia di delitti. Ognuno con i propri segreti, ognuno con il fardello dei propri errori sulle spalle. Una storia in cui il confine tra vittima e carnefice è davvero sottile. Una storia che porta il lettore a interrogarsi su molte delle proprie convinzioni.

Attraverso una narrazione molto scorrevole e incalzante, l’autore ci svela una trama intricata, che però riesce a rendere lineare al lettore; un intreccio molto ben costruito, ricco di colpi di scena. Grazie anche ai capitoli brevi e ricchi di suspense, questo romanzo si legge tutto d’un fiato. Davvero appassionante il modo in cui l’autore ha aggrovigliato le vicende dei personaggi, impossibile da intuire in anticipo.

I personaggi, di cui non è possibile rivelare molto senza cadere in spoiler, sono ben caratterizzati, tanto da risultare piacevolmente contrastanti e molto umani.

Chi muore e chi uccide” è un thriller in cui nulla è scontato, dalla forte carica emotiva, in grado di coinvolgere facilmente il lettore. Mentre leggerete questo romanzo solo una domanda fenderà la vostra mente: dove sta davvero il Male?

Luoghi della Storia, Medioevo

Milano medievale. Il volto della città in epoca comunale

Milano è una delle più importanti città del mondo; per secoli, è stata uno dei ducati maggiori d’Italia. Tutti conosciamo la sua celebre e bellissima Piazza del Duomo, il Castello Sforzesco o piazza dei Mercanti. Ma com’erano questi luoghi in epoca medievale?

Per raccontare l’aspetto del centro di Milano nel Basso Medioevo e capirne lo sviluppo, dobbiamo fare un lungo viaggio nel tempo, fino all’XI secolo, quando la città era sotto il dominio dell’Imperatore Federico I, detto il Barbarossa. In quel momento storico, il comune di Milano non esisteva ancora. Infatti, il governo del territorio spettava all’Imperatore. Ciò nonostante, l’Arcivescovo, seppur sprovvisto dei diritti comitali (ossia dei diritti di governo derivanti dalla nomina, da parte dell’imperatore, a capo di un territorio), godeva di fatto di una grande autorità che gli permetteva di reggere la città e di esserne riconosciuto come unico signore. L’Arcivescovo, però, si occupava soltanto delle questioni di grande importanza, lasciando gli affari di ordinaria amministrazione ai suoi vassalli, i capitanei, che appartenevano all’aristocrazia feudale. Pertanto, il governo della città era affidato anche a un consiglio di cittadini (i consoli) del quale, con il passare del tempo, entrarono a far parte anche i valvassori e i cives, ossia gli appartenenti alle ricche famiglie di origine non feudale, dediti alle libere professioni, come notai, mercanti o giudici. Questi cittadini, grazie alla copertura giuridica dell’Arcivescovo, iniziarono a governare, seppur in modo provvisorio e illegale, e lo facevano dal “consolato dei cittadini”, ossia il luogo dove si riunivano questi rappresentanti del nuovo regime comunale, ormai pratichi delle competenze di governo civico apprese nella curia.

Dove si trovava questo luogo? Ovviamente, nei pressi dell’Arcivescovado, ossia in quella che oggi è Piazza del Duomo. All’epoca, in quell’area si trovavano due cattedrali, ognuna con il proprio battistero: quella di Santa Maria Maggiore (la cattedrale invernale), posta all’incirca nel punto in cui oggi sorge il Duomo, anche se era molto più piccola, e quella di Santa Tecla (la cattedrale estiva), che sorgeva sul lato opposto della piazza (il lato che, oggi, dà verso Piazza dei Mercanti) ed era molto più grande dell’altra. Ecco, il “consolato”, si trovava proprio presso Santa Maria Maggiore. Ma perché in questo luogo? Il motivo è semplice: questo era il centro della vita cittadina. Qui si trovavano banchi e botteghe di mercanti e artigiani e, a ridosso delle due chiese e della curia, vi erano la pescheria, il macello e il mercato pubblico di generi alimentari e di altri prodotti di uso comune. Dove ora trovate l’immenso Duomo, nell’XI secolo, avreste potuto comprare della verdura, scegliere merci sui banchi disposti lungo i vicoli, sentire il suono degli zoccoli dei cavalli. Poco più là nel tempo, all’inizio del XII secolo, i consoli fecero costruire delle tribune in un prato, detto “brolo”, sito vicino all’Arcivescovado. Da questo termine, che significa appunto “prato” deriverà il termine “broletto”, con il quale sarà chiamato, più avanti, il palazzo del comune.

Resti del battistero di San Giovanni

Ad ogni modo, i rappresentanti dei cittadini iniziarono, così, a sganciarsi della copertura dell’Arcivescovo, fin quando in seguito alla Pace di Costanza del 1183 (con la quale terminò il lungo conflitto tra l’Imperatore e la coalizione di comuni lombardi, detta Lega Lombarda), il Barbarossa concesse ai comuni alcuni diritti di spettanza regia, tra i quali il diritto di battere moneta, di riscuotere tasse e tributi, di amministrare la giustizia e di darsi delle leggi. Da questo momento, i comuni furono legittimati a governarsi da soli. Fu così che qualche anno dopo, tra il 1188 e il 1193, non lontano dalle cattedrali, iniziò a crearsi la sede del potere civile della città. Infatti, nel luogo in cui oggi ammiriamo Palazzo Reale, fu edificato il Broletto Vecchio (o Arengo), chiamato così per distinguersi da quello nuovo che vide la luce da lì a qualche anno. Fino al 1228, questo edificio fu la nuova sede dei consoli, i quali si spostarono in seguito nel Broletto Nuovo, di cui parleremo tra poco. L’Arengo, però, non venne abbandonato del tutto. Divenne, infatti, la sede del potere visconteo quando Matteo Visconti, divenuto Signore di Milano per aver sconfitto i Della Torre nel 1287, vi si insediò. Da questo momento, l’Arengo divenne il palazzo della Signoria, in cui vissero ed esercitarono i propri poteri tutti i duchi di Milano, fino a Galeazzo Maria Sforza che si trasferì nel Castello di Porta Giovia (ossia il Castello Sforzesco).

Palazzo Reale

Ma torniamo in epoca comunale. Nel 1228 il comune si trasferì poco lontano, oltre la cattedrale di Santa Tecla, in quella che oggi è la Piazza dei Mercanti. Dopo aver espropriato alcuni terreni, qui venne costruito un quadrilatero a portici chiuso, a cui vi si accedeva attraverso sei valichi, posti in corrispondenza delle sei porte della città, dalle quali prendevano il nome, a loro volta, i sei sestieri in cui era divisa. Innanzitutto, fu costruito il Palazzo della Ragione (ancora visibile), formato da un solarium, ovvero un piano superiore in cui si radunava il Consiglio generale del comune, e da un portico aperto in cui si svolgevano i commerci, si radunava il popolo e si assisteva alla vita politica della città. Da questo momento, il Broletto nuovo divenne il centro cittadino, in cui si svolgevano le esecuzioni nobiliari, alloggiava il podestà, si pronunciavano le sentenze di morte o le pene esemplari, venivano esposti i cadaveri dei nemici come monito per la popolazione. Ma anche il luogo in cui si mercanteggiava, si facevano affari e ci si divertiva. Qui avreste potuto vedere banchi dei cambiavalute, botteghe affollate con domestici dai panieri colmi, avreste potuto leggere i bandi esposti nella Loggia degli Osii, oppure avreste potuto assistere agli ultimi giorni di vita di un condannato richiuso in una gabbia appesa ed esposta agli eventi atmosferici.

Palazzo della Ragione

La Loggia degli Osii (tutt’ora visibile) era il luogo in cui si riunivano i consoli di giustizia All’inizio del Trecento, Matteo Visconti abbellì la facciata con gli stemmi del Comune e le insegne dei quartieri e fece aggiungere un balcone dal quale venivano proclamati bandi e sentenze (entrambi ancora visibili).

Loggia degli Osii

Qualche anno più tardi, furono terminate la Casa del Podestà e le Carceri da lui governate (entrambe non più esistenti e che si trovavano sul lato che dà verso Piazza del Duomo), che si aggiungevano alle altre nove della città. Ma chi era il podestà? Nei primi anni del comune, ai consoli, ossia coloro che gestivano gli interessi della città e amministravano la giustizia, si affiancarono due associazioni di cittadini liberi interessati a gestire gli interessi pubblici: la Motta, formata da mercanti (che avevano acquistato un grande peso nella società cittadina), piccoli nobili e proprietari fondiari, e la Credenza di Sant’Ambrogio, formata invece dai membri delle classi borghesi e popolari, soprattutto artigiani e bottegai, volta alla tutela dei diritti della classe lavoratrice. Questa coesistenza di voci portò inevitabilmente a frequenti contrasti tra le parti che dovevano essere, in qualche modo, risolti. A questo scopo, nacque la figura del podestà, un esperto di leggi forestiero che non abolì le strutture amministrative del comune, ma si mise a capo di esse per gestirne affari e interessi. Alla fine del XII secolo, il governo consolare si avviò alla decadenza, sostituito quindi da quello podestarile.

Negli stessi anni in cui si terminò la casa del podestà, fu costruito anche il palazzo della Credenza di Sant’Ambrogio (dove poi fu costruito il Palazzo dei Giureconsulti, tutt’ora visibile, voluto da Pio IV de’ Medici nel Cinquecento), sul lato opposto a quello della Loggia degli Osii. Da questa associazione, emerse Napo Torriani, che si impossessò a titolo perpetuo della carica di anziano della Credenza, attuando così il controllo della famiglia della Torre su Milano, instaurando la prima forma di governo signorile. E, nel 1272, fece erigere nel Broletto una torre (poi inglobata nel Palazzo di Giureconsulti), che divenne la torre civica della città, in sostituzione della precedente, quella dei Faroldi sul lato opposto della piazza.  

Palazzo dei Giureconsulti

Sullo stesso lato della Loggia degli Osii, Azzone Visconti fece costruire un portico destinato alle operazioni commerciali e di banca, che poi divennero le Scuole Palatine nel Seicento (tutt’ora visibili). Dall’altro lato della Loggia, nello stesso periodo, il podestà Beccaria, fece costruire il Portico della Ferrata, uno spazio chiuso da inferriate in cui si tenevano le aste dei beni dei mercanti falliti.

Scuole Palatine

Nel Quattrocento, inoltre, venne costruito il Palazzo della Congregazione dei Mercanti, che ospitava l’ufficio degli statuti, la cui mansione era la registrazione e la trascrizione dei decreti ducali. Questa casa venne poi chiamata Casa dei Panigarola (tutt’ora visibile), dal nome della famiglia gallaratese che svolse questo compito fino al Settecento.

Casa dei Panigarola

Il Broletto, quindi, oltre a essere luogo di incontro per la popolazione, era il luogo del potere civile e della giustizia, dove sedevano i tribunali dei giudici del podestà e di tutti gli altri giudici di Milano, compresi quelli del consolato dei Mercanti. Qui la giustizia veniva anche custodita e comunicata al popolo attraverso l’affissione di sentenze scritte e liste di bandi, prima alla Casa del Podestà e poi alla Loggia degli Osii. Inoltre, ospitava cicli delle cosiddette “pitture infamanti”, che raffiguravano i condannati in contumacia, esposti all’onta della vergogna pubblica. E la giustizia veniva anche eseguita nel Broletto, perché venivano eseguite le punizioni esemplari, dalle condanne capitali alla gogna. Ma era anche il centro delle contrattazioni e di scambi di alto livello, data la presenza dei banchi dei notai, dei cambiatori, del mercato del grano e delle riserve di sale. Era l’espressione del potere comunale e non signorile, e fu per questo motivo che i Visconti, divenuti signori, si trasferirono all’Arengo.

Quanto, invece, al Castello Sforzesco, non era presente in epoca comunale. In quel periodo, infatti, lì dove ora sorge il castello avreste trovato una pusterla, ossia una porta minore: la pusterla Giovia. A metà del Trecento, questa fu inglobata nel Castello di Porta Giovia, costruito a cavallo delle mura, per volere di Galeazzo II Visconti. Il castello venne distrutto nel periodo della Repubblica Ambrosiana (ossia dopo la morte dell’ultimo duca Visconti, Filippo Maria, a metà del Quattrocento), ma poi fatto ricostruire pochi anni dopo dal duca successivo, Francesco Sforza.

Il centro di Milano, così come è stato descritto finora, era racchiuso in una cinta muraria, costruita dopo l’assedio del 1162 a opera del Barbarossa, che rase al suolo la città, distruggendo anche le mura precedenti. L’accesso avveniva attraverso sei porte e undici pusterle, ossia piccole porte di accesso ai camminamenti per le guardie di ronda che potevano essere usate come uscite o ingressi di emergenza in caso di assedio. Volendo semplificare in modo estremo, possiamo dire che Milano era divisa in sei sestieri, ossia in divisioni a spicchio che avevano il centro nel Broletto e che sviluppavano in direzione delle porte. Al centro, vi era la piazza con le due basiliche, l’Arengo e il Broletto nuovo; oltre al centro si sviluppavano le contrade (che formavano i sestieri) fino alle mura. Oltre ad esse, vi era il contado.

Ma cosa potete vedere di questi edifici oggi? In realtà, non molto. Per quanto riguarda Piazza del Duomo, nel percorso sotterraneo della cattedrale, è possibile visitare l’area archeologica con i resti del battistero di San Giovanni (quello di Santa Maria Maggiore) e della basilica di Santa Tecla. In piazza dei Mercanti, se vi ponete con le spalle al Palazzo della Ragione (quello al centro) e girate in senso orario, potete vedere la Loggia degli Osii, le Scuole Palatine, la casa dei Panigarola e il palazzo dei Giureconsulti con la torre. Quanto alle porte e alle pusterle di epoca medievale, rimangono soltanto l’Arco di Porta Ticinese e gli Archi di Porta Nuova. Invece, la pusterla di Sant’Ambrogio (che si trova accanto alla basilica omonima) non è di epoca medievale, ma è stata ricostruita, seppur fedelmente, nel 1939.

Dopo avervi raccontato qualcosa della Milano comunale, non mi resta che darvi qualche consiglio di lettura. Se volete assaporare in modo vivido l’atmosfera della città in epoca medievale, vi suggerisco “Il filo di luce” di Valeria Montaldi, edito da Rizzoli. La competenza dell’autrice nella ricostruzione dell’ambientazione e del contesto storico è in grado di catapultarvi nel modo dei setaioli milanesi del Quattrocento e di farvi vivere quella città che vi ho descritto in questo articolo. Il secondo romanzo che vi consiglio è “L’eroe di Milano” di Andrea Frediani, che ambienta la vicenda di due ragazzi, Alberto da Giussano e Alberto da Cairate, nel periodo del conflitto tra il Barbarossa e la Lega Lombarda. Una lettura perfetta per chi voglia approfondire il periodo dei Comuni.

recensione, Romanzo storico

“Quindici secondi per volta” di Camillo Bignotti

“Non è possibile giudicare le persone dalla divisa. A volte la indossano perché ci credono, altre sono costretti, ed altre ancora semplicemente gli conviene.”

Varese, 1944. Dopo l’armistizio del settembre 1943, la situazione in Italia è confusa. La nazione è spaccata in due: il sud è controllato degli americani, mentre al nord, seppur con meno convinzione, spadroneggiano i nazisti, aiutati dai fascisti. Varese non ha ancora sperimentato in prima persona i bombardamenti nemici. Fino a quel primo aprile. È in questo momento che i cittadini vengono sorpresi per la prima volta dalle bombe che bruciano la città. Per la prima volta, l’allarme suona a ragion veduta e i quindici secondi che intervallano il fischio di una sirena da quello successivo si fanno più interminabili che mai. Uomini, donne, bambini e anziani vengono sorpresi dal fragore delle detonazioni che danneggiano la città, già flagellata dalle conseguenze economiche di anni di guerra. Camillo Bignotti, nel romanzo “Quindici secondi per volta. Amore e morte al Palace Hotel” racconta l’intreccio delle vicende di alcuni di loro. Una zia con due nipotini, due detenuti, un reduce della Grande Guerra e altri personaggi si confrontano con la paura e l’incertezza. Quei quindici secondi che scandiscono la loro vita, quei fischi che ormai sono divenuti una costante alla quale non riescono ad abituarsi.

L’autore ci regala, così, uno scorcio della Seconda Guerra Mondiale vissuta in città, della quale ha saputo restituirci l’atmosfera grazie a un’ambientazione curata e una ricostruzione del contesto storico precisa. Il coprifuoco, i razionamenti, i partigiani, i rifugi antiaerei, le proibizioni… Tutto riemerge in queste pagine. Anche la prosa risulta adeguata all’epoca narrata. La narrazione è molto scorrevole, grazie anche ai capitoli brevi. La caratterizzazione dei personaggi è ben fatta. Tuttavia, la presenza di un coro di almeno tredici voci distinte crea un po’ di confusione, che rischia di rendere un po’ fumosa la trama.

Quindici secondi per volta. Amore e morte al Palace Hotel” è un romanzo che racconta la Guerra, la Resistenza e le vicende umane in uno dei periodi più difficili della Storia.

recensione, Romanzo storico

“Il cavaliere del giglio” di Carla Maria Russo

“La mattina successiva, all’alba, Farinata degli Uberti confermò ai capitani dei sesti il piano di battaglia e le disposizioni comunicate la sera precedente. Scambiò, com’era loro abitudine prima di un combattimento, un ultimo cenno di saluto con Neri, come reciproco augurio di buona fortuna e addio, quindi passò in rassegna l’esercito schierato in ordine di battaglia. Giunto di fronte al gonfalone della città, si inchinò e ne baciò un lembo. Poi, con voce alta e sicura, salutò gli uomini prima del combattimento. «Soldati! Noi siamo il popolo della gloriosa Firenze. Oggi e sempre, mostriamoci degni di questo onore». I soldati, sguainata la spada e sollevatala al cielo, risposero al capitano levando all’unisono il grido di guerra dell’esercito del Giglio: «San Giovanni!». Tutta la valle ne risuonò. Gli stessi senesi, asserragliati dentro le mura, lo udirono con raggelante chiarezza.”

È il 1216 quando il racconto de “Il cavaliere del giglio” ha inizio. Nella Firenze dei guelfi e dei ghibellini, Carla Maria Russo ci racconta la vita di un uomo straordinario, un cavaliere valoroso, Farinata degli Uberti. Firenze è governata dai guelfi, fedeli a papa Innocenzo III, ai quali si oppone il partito ghibellino, che supporta l’imperatore Federico II. Ha dodici anni, Farinata, ultimo figlio di una delle più importanti famiglie ghibelline di Firenze, ma già mostra il carattere che farà di lui uno dei più gloriosi cavalieri della città. Iniziato alla carriera militare in giovanissima età, Farinata dimostra di un coraggio e un’abilità senza pari. Bellissimo, gentile, leale e dal cuore nobile, prudente ma audace, umile ma autorevole, astuto e intelligente. Un soldato dall’impareggiabile valore militare, dalla grande rettitudine morale e dal forte senso dell’onore. Un capitano vittorioso con un’indomabile fierezza e un immenso senso dell’onore, caratterizzato dallo sconfinato amore per la patria.

“Il capitano Farinata non si sarebbe mai tenuto al di fuori della mischia, limitandosi a seguire l’azione dalla cima del colle più vicino: avrebbe condiviso con i suoi commilitoni ogni istante della battaglia e combattuto in prima fila, davanti a tutti. Per sapere cosa fare, bastava seguirlo.”

Con la sua prosa impeccabile e coinvolgente, l’autrice ci porta all’origine della faida tra le fazioni guelfa e ghibellina, accompagnandoci nelle guerre e nelle battaglie, mostrandoci in modo chiaro e preciso questi scontri. Un torto subito, un matrimonio per riparare all’errore, una promessa infranta, un omicidio d’onore: questi sono gli ingredienti che trascinano Firenze nel vortice delle lotte tra fazioni opposte. Carla Maria Russo ci mostra come da una faida tra famiglie rivali si scatena una guerra tra schieramenti all’interno della città e quanto questa divisione si rifletta anche sulle altre città. L’impero contro il papato: guelfi e ghibellini, fedeli sostenitori di papi e imperatore, in precario equilibrio, sempre a un passo dalla guerra per la lealtà a un’entità superiore. Come su una bilancia, in cui la tensione aumenta quando un piatto si alza in favore dell’altro; ciechi obbedienti, sordi alle ragioni della pace, uomini d’onore senza timori, solo la prevalenza della fazione di appartenenza ha importanza. Casati in lotta, faide intestine che offrono il fianco ai nemici esterni; lotte tra singole famiglie che degenerano in guerre tra fazioni avverse. Una città sempre sull’orlo della guerra civile, che scoppia a tratti, portando distruzione e miseria; una popolazione che subisce le conseguenze delle azioni di uomini incapaci di agire per il bene della gloriosa Firenze.

Fondamentale nella vita del giovane cavaliere è il ruolo del grandioso nonno, Schiatta degli Uberti. “Abbiamo un debito verso gli antenati che ci hanno consegnato un nome onorato di cui andare fieri. E un dovere verso i posteri: non infangarlo e consegnarlo a loro intatto e ancora più grande”. Questo gli ha sempre ripetuto nonno Schiatta e di questo motto Farinata ne ha fatto una ragione di vita, insieme alla ferrea volontà di anteporre il bene di Firenze all’orgoglio e al tornaconto personale. Fedeltà all’Impero e a Firenze, all’Aquila e al Giglio, due fedi immensamente profonde nell’animo di Farinata. Così come è importante il bellissimo rapporto con il fratello maggiore Neri, che tanto ricorda quello tra altri due straordinari esponenti della politica fiorentina: Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Due giovani belli ed eroici, modelli di virtù cavalleresche, che sono braccio e cuore l’uno dell’altro, la cui nobiltà dell’animo è pari a quella del loro lignaggio. “Tra di noi deve valere il patto di sempre. Se uno dei due dovesse cadere nella trappola, l’altro deve salvarsi.” Uniti da un legame forte, fatto di sangue, onore e cuore. Troviamo poi, il commovente amore tra Neri degli Uberti e Gemma di Ranieri Zingane dei Buondelmonti: un ghibellino e una guelfa, uniti dal cuore ma divisi dall’onore della famiglia.

Tanta Storia, in questo romanzo, riportata con precisione e competenza, ma anche molti sentimenti ed emozioni, come solo la penna di Carla Maria Russo riesce a restituirci, con quel suo modo di raccontare forte e dolce allo stesso tempo, dal sapore di una novella narrata da un cantastorie.

Un romanzo intenso e appassionante, oltreché istruttivo, che permette al lettore di calarsi nella mentalità dell’uomo medievale e di comprendere i meccanismi della rivalità tra le due fazioni politiche, mostrandoci una parte della storia di Firenze. Tra assedi, battaglie, amori, congiure e tradimenti “Il cavaliere del giglio” è un libro che dovrebbe essere letto a scuola.

P.s. Se ne avete la possibilità, leggetelo ascoltando l’intero album “I Medici” di Paolo Buonvino. È una colonna sonora perfetta per questo libro denso di Storia.

recensione, Romanzo storico

“Il fermaglio di perla” di Antonio Forcellino

Il Fermaglio di perla” di Antonio Forcellino, edito da HarperCollins, è il terzo capitolo della saga “Il secolo dei giganti” ambientata nel Rinascimento. In questo volume, l’autore, basandosi sulle “Storie fiorentine” e sulla “Storia d’Italia” di Guicciardini, ripercorre gli avvenimenti che segnarono l’Europa tra il 1519 e il 1549.

E così, dalla morte di Raffaello, passando per il sacco di Roma e il succedersi di quattro papi, nonché lo scisma della chiesa inglese, Martin Lutero e il concilio di Trento, l’autore ci accompagna verso il tramonto di un’epoca straordinaria. L’Europa è al centro della guerra tra Farancesco I e Carlo V ed è nelle mire insistenti dell’imperatore ottomano Solimano. Un periodo di grande instabilità e forti incertezze, un periodo in cui la precarietà regna e la pace è solo un lontano ricordo. L’Europa è allo sbando, “in preda alle convulsioni e alle manovre più infami”, terreno fertile per il forte e determinato Solimano.
Tra i biechi giochi di potere, le traballanti alleanze, le forzature e gli albori di una nuova inquisizione romana, vediamo scorrere questi trent’anni del Cinquecento in cui l’Occidente è al centro della lotta tra Francia e Impero e la Chiesa di Roma è nel tritacarne della riforma. I luterani, gli spirituali, gli anglicani… Il mondo sembra volersi affrancare dell’immoralità della Chiesa, prestando il fianco ai turchi che mirano alla conversione di tutti i cristiani.
L’unica costante è l’occhio stanco di Michelangelo Buonarroti, l’artista che ha vissuto tutto questo e la cui presenza sembra volerci ricordare i fasti del Rinascimento.
E in questo mondo che cade a pezzi emergono, come lumi nella notte, donne potenti e audaci, come Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga e donne avide di potere come Roxane, l’amata moglie di Solimano. Donne che contrastano con uomini che hanno come unico scopo la difesa degli interessi dinastici, pronti a tutto pur di portare prestigio alla propria famiglia. Uomini incapaci di agire per il bene, ma abili solo a promuovere gli interessi di figli e nipoti, anche quando si dimostrano ignobili.

Con uno stile semplice, in un contesto storico ricreato con precisione e competenza, tra cardinali, principi, artisti, spie e nobildonne, Forcellino ci trasporta nel Rinascimento, presentandoci personaggi come Alessandro Farnese, Gian Pietro Carafa, Clemente VII, Eleonora Gonzaga e tantissimi altri, e facendoci vivere ogni avvenimento come se fossimo presenti in quel momento storico. In particolare, colpisce molto il modo in cui mostra la nascita delle opere, come la Sagrestia Nuova della chiesa di San Lorenzo a Firenze, a opera di Michelangelo. Sembra quasi di essere accanto all’artista mentre crea, pensa, dubita…

Il secolo dei giganti” è una delle migliori saghe ambientate nel Rinascimento, in cui la competenza storica e l’abilità narrativa si mescolano donandoci un mezzo efficace per un grandioso viaggio nel tempo.