Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento. Appuntamento bonus: la mobilitazione dell’esercito.

Come si radunava un esercito in previsione di una battaglia nei Comuni di metà Duecento? Possiamo farci un’idea esaminando la mobilitazione di Firenze alle soglie della battaglia di Montaperti.

La mobilitazione veniva decisa da un consiglio di guerra che affiancava il podestà in periodo bellico e che era formato da dodici capitani, che si occupavano dell’organizzazione, e ventiquattro consiglieri. Il consiglio era coadiuvato da una serie di notai che controllavano e annotavano ogni passaggio. La coscrizione era obbligatoria per ogni maschio tra quindici e i settant’anni, ad eccezione di coloro che avevano palesi disabilità fisiche e di un uomo per famiglia titolare di un mulino. Ogni parrocchia compilava il registro degli arruolabili e chi non si faceva iscrivere rischiava multe salate: cinquanta lire per i cavalieri (ed era una somma molto ingente dato che ci si poteva comprare una casa modesta) e venticinque per i fanti. Anche per renitenti e i disertori era prevista una multa, anche se inferiore (dieci lire per cavalieri e cinque per fanti) e le parrocchie erano obbligate a denunciarli, a pena di pesanti multe collettive. La mobilitazione non comprendeva mai tutte le forze disponibili, ma era il capitano della guerra a decidere, volta per volta e a rotazione, quale Sesti cittadini armare (da tre a cinque), perché una parte delle milizie doveva rimanere sempre a guardia della città e di riserva. Ogni Sesto ripartiva gli uomini in vexilla che organizzavano le venticinquine fornite da ogni parrocchia. Erano parte integrante dell’esercito anche i medici e i notai.

Veniamo ora all’equipaggiamento dei soldati, che era tutto a loro carico. I fanti dovevano essere protetti da cervelliera d’acciaio, gorgiera per la gola, corazza di ferro o di cuoio ben imbottito per il busto, maniche di ferro per le braccia, lancia e scudo di legno e cuoio. La mancanza di uno qualsiasi degli elementi comportava una multa di dieci soldi, pari a cinque giornate di salario. I cavalieri, invece, dovevano anzitutto avere il cavallo (di cui era stabilito anche il valore minimo, pari a 45 lire) accessoriato di sella e coperta. Gli uomini dovevano avere elmo di ferro, usbergo di maglia di ferro, corazza, lancia, spada e scudo. In caso di elementi mancanti o non a norma, il cavaliere veniva sanzionato. La multa venti soldi (ossia la paga di una giornata) se mancava la sella, sessanta se il cavallo non aveva la coperta di protezione, cento soldi se mancava l’elmo e venti per ogni altra parte di armamentario mancante. Erano, inoltre, previste multe relative alla vendita dei cavalli. Se qualcuno vendeva un cavallo senza licenza del podestà a un acquirente che non era di Firenze o del contado rischiava cinquanta lire di multa se era un cavallo da guerra. Peggio ancora se vendeva un cavallo che aveva in affidamento, ma la cui proprietà era del Comune. In questo caso la multa ammontava ad almeno cento lire.

L’esercito era composto, innanzitutto da fanti e cavalieri. Questi ultimi erano organizzati in sei o sette squadre, composte da un capitano e da venticinque cavalieri e ogni venticinquina era strutturata in cinque poste da cinque uomini; e il loro schieramento era controllato da dodici ufficiali detti distringitores. Poi, vi erano i berrovieri, ossia soldati stranieri ingaggiati dal Comune con ferma di tre mesi.  Le clausole di ingaggio prevedevano che venissero, rimanessero prestassero servizio e tornassero a casa a loro rischio e pericolo quanto alla loro persona, cavalli, armi e oggetti di loro proprietà. Il Comune avrebbe indennizzato solo i cavalli uccisi o danneggiati durante il servizio reso a Firenze. Il bottino fatto in guerra era riconosciuto interamente a loro, così come il guadagno tratto dal mercato dei prigionieri. Inoltre, per ogni nemico consegnato al Comune, questi avrebbe pagato dieci lire; se il Comune non avesse voluto pagare, il prigioniero sarebbe rimasto nelle mani di chi lo aveva catturato, il quale poteva liberarlo dietro riscatto o venderlo a un altro soldato. L’esercito era poi composto da arcieri, balestrieri e pavesari, ossia i soldati che portavano i grandi scudi dietro a cui si riparavano i tiratori in battaglia. Vi erano, poi, quarantotto soldati (guidati da un gonfaloniere e due distringitores) incaricati di scortare il carroccio con lo stendardo del Comun, che comprendevano i popolani migliori e più forti. Erano presenti anche i guastatori (comandati da sei ufficiali) e i marraioli, ossia coloro che spianavano il terreno davanti all’esercito in marcia con una sorta di zappa, chiamata marra.

Oltre a concentrare gli armati in città, si provvedeva anche alla mobilitazione del territorio. Si adottavano, pertanto, misure affinché il contado non restasse sguarnito di uomini e si costruiva una rete di difesa territoriale di armati, sia per rinforzare le milizie cittadine, ma soprattutto lasciati in loco come presidi locali. Inoltre, si formalizzava un sistema di segnalazioni con fuoco e fumo per far capire alle sentinelle sulle mura e sulle torri ciò che accadeva al confine della loro terra.

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Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Quarto appuntamento: la battaglia di Montaperti

Nei pressi di Montaperti, località a una decina di chilometri da Siena, il 4 settembre 1260, l’esercito ghibellino senese, appoggiato dai cavalieri di Manfredi di Svevia, sbaragliò i fiorentini e i loro alleati guelfi. Una battaglia molto importante nel contesto toscano, che ebbe una lunghissima incubazione. Proviamo a ricostruirne gli antefatti e le cause.

Partiamo dalla situazione tra le due città interessate e, per farlo, dobbiamo tornare indietro di una decina d’anni. Iniziamo da Firenze. Nel 1251, Federico II è morto da circa un anno e la sua dipartita ha galvanizzato i guelfi, che hanno rialzato la testa e preso il governo di Firenze. Già da qualche tempo, la resistenza guelfa si era acuita, tanto che, nei due anni precedenti, i filopapali fiorentini erano insorti prima contro il rappresentante imperiale in città, Federico d’Antiochia, costringendolo a fuggire, poi contro i nobili ghibellini che controllavano la città. Il governo è quindi passato alla fazione guelfa, che costituisce ora il “Primo Popolo”, con al vertice il capitano del popolo (con potere esecutivo e legislativo) e il podestà (con potere giudiziario e di comando dell’esercito). I fuoriusciti ghibellini non sono però rimasti con le mani in mano, anzi. Hanno stretto un patto con le città toscane filoimperiali, Siena, Pisa e Pistoia, per muovere guerra a Firenze. Tuttavia, i successi bellici di Firenze dell’anno successivo, convincono i ghibellini fiorentini a tornare in patria, pacificati.

Il 1251 è un anno importante anche per la ghibellina Siena. Ha, infatti, siglato una pace che permette la stabilizzazione sotto la sua guida e la sua egemonia del quadrante sud della Toscana, grazie al controllo di una serie di castelli concesso da Grosseto e dai nobili della Maremma.

Nel 1254, mentre Firenze conquista mezza Toscana, il popolo di Siena sembra voler cambiare direzione politica e, l’anno successivo, le due città stipulano un trattato di pace, in teoria perpetuo e irrevocabile, con cui si stabilisce la libertà per Firenze di muoversi nei confronti dei castelli della Val d’Elsa, di Empoli, Montevarchi, Poggibonsi, Volterra e San Giminiano, e per Siena di perfezionare il controllo del sud della Toscana su cui già aveva l’egemonia, rinunciando però a Montalcino e Montepulciano. L’accordo prevede, inoltre, per entrambe l’impegno a non accogliere ribelli o banditi dell’altra città. Sembra si sia siglata la pace nella regione. Tuttavia, nessuno ci crede davvero.

E a ragione. Tre anni più tardi, infatti, tutto precipita. A Firenze, i ghibellini, capitanati da Farinata degli Uberti, tentano un colpo di Stato che, però, fallisce, costringendoli a lasciare la città e a rifugiarsi a Siena, che li accoglie violando gli accordi. Della pace del 1255 non è rimasto niente. Firenze e Siena tornano a essere nemiche. E l’obiettivo di Firenze è di nuovo quello di bloccare l’espansione della rivale, che sta vantando diritti su Montalcino (ai quali aveva rinunciato in virtù del trattato del 1255). Il suo territorio è, infatti, ricco di minerali e di ampi spazi per la coltivazione di cereali. La cittadina, però, resiste alle pressioni senesi, rivendicando la propria autonomia di appoggiarsi a Firenze, la quale si mobilita in suo soccorso. Ma è solo una scusa. Firenze sta muovendo guerra alla sua nemica Siena, radunando un esercito pronto a combattere.

Alla fine dell’estate del 1260, Firenze ha schierato trentacinquemila soldati e con loro marcia fino alla porta Camollia di Siena. I senesi sapevano che Firenze si stava preparando alla guerra e lo hanno fatto anche loro, ma gli uomini a disposizioni sono in numero inferiore a quello fiorentino (probabilmente diecimila o diciottomila soldati, a seconda della fonte). Sullo svolgimento della battaglia, sappiamo poco, in quanto fonti storiche che la raccontano, sia senesi che fiorentine, sono state scritte a metà Trecento.

Secondo fonti senesi, i guelfi fiorentini accampati fuori Siena, inviano due ambasciatori in città con un ultimatum: si arrenda entro tre giorni o apra tre varchi nelle mura per far passare l’esercito guelfo. Siena si mobilita, raduna i soldati, tra i quali primeggiano gli ottocento cavalieri tedeschi inviati da Manfredi di Svevia (ultimo figlio dell’imperatore Federico II, ormai passato a miglior vita da dieci anni), il quale si è da poco fatto incoronare sovrano di quel regno con l’inganno, attirando su di sé e ire di papa Alessandro IV. Questo papa ha, infatti, proseguito nella stessa linea del suo predecessore Innocenzo IV che, alla morte di Federico II, aveva rivendicato il regno di Sicilia come proprio territorio e che, pertanto, non aveva mai legittimato il testamento dell’imperatore circa la Sicilia. Manfredi, però, vuole riappacificarsi con il pontefice e, per questo, la sua città di riferimento in Toscana è proprio Siena che, pur essendo da sempre filoimperiale, non è ostile al papa. Ed è questo il motivo per il quale, nei mesi precedenti alla battaglia, egli aveva accettato di prestare l’aiuto richiesto da Farinata degli Uberti, il capitano ghibellino fiorentino che aveva trovato rifugio in Siena all’indomani del mancato colpo di Stato a Firenze del 1258.

Prima dello scadere dei tre giorni, all’alba del 4 settembre, i cavalieri ghibellini scatenano l’assalto contro le schiere guelfe che prendono posizione con difficoltà e che iniziano a ritirarsi cadendo subito nelle mani dei senesi. Al tramonto, i fiorentini, provati, vedono sorpresi da un fresco contingente di cavalleria tedesca (gli abilissimi cavalieri mandati da Manfredi) che li abbatte in modo definitivo, attaccando anche carroccio di Firenze, dal quale strappano lo stendardo. L’esercito guelfo si sbanda e i soldati fuggono cercando di sottrarsi alla mattanza che ne segue. Alla fine della battaglia, il corteo dei vincitori sfila per le strade della città, meditando la punizione di Montalcino, colpevole di aver causato quel disastro, sulla quale marceranno il 22 settembre e che metteranno al sacco dopo otto giorni di assedio.

Le fonti fiorentine sono, invece, tese a giustificare la disfatta attribuendone le cause a fattori esterni e, in particolare, a due: la buonafede dei fiorentini vittime della furbizia di Farinata degli Uberti e un tradimento interno. Farinata, infatti, dopo aver ottenuto i cavalieri da Manfredi invia a Firenze due frati che recano con loro alcune lettere segrete. I religiosi vengono convinti che a Siena si è stanchi del governo attuale e che, in cambio di diecimila fiorini d’oro, consegnerebbero la città a Firenze. I governanti fiorentini abboccano e la trappola scatta. In un secondo momento, Farinata invia altre lettere nella sua città, destinate ai ghibellini rimasti a Firenze: durante lo scontro, dovranno assalire i loro concittadini. Ed è quello che fanno al momento indicato, dando un forte contributo all’esercito nemico che già aveva agito di sorpresa, prendendo alla sprovvista i fiorentini.

Dopo la sconfitta in questa battaglia e in seguito alla presa da Montalcino da parte di Siena, Firenze rinuncia, in favore della rivale, ai diritti acquisiti anche su altre città come Montepulciano, sui castelli di Maremma e Valdorcia. In sostanza, sui territori nei quali avrebbe voluto fermare l’espansione senese. I guelfi sono sconfitti e tutta la Toscana, con l’unica eccezione di Lucca, è in mano alla fazione ghibellina. Ora, Siena e le altre città ghibelline vorrebbero la distruzione di Firenze, ma la città del giglio viene difesa dai fuoriusciti ghibellini, in particolare Farinata degli Uberti, i quali vogliono il rovesciamento del regime guelfo e non la distruzione della città. Intanto, a Firenze i guelfi scappano, rifugiandosi a Lucca. Tra loro ci sono importanti famiglie come i Pazzi, i Cavalcanti, i Soderini, i Bardi. La minoranza che resta in città, perché ancora non ha ben compreso la portata della sconfitta di Firenze, subisce rappresaglie. Quando i filosvevi fuoriusciti rientrano in città, iniziano i sei anni di governo ghibellino. Guido Novello diventa podestà come vicario di Manfredi e le istituzioni cittadine subiscono significativi cambiamenti, che però non operano un’occupazione totale del partito ghibellino, in quanto non pochi guelfi rimasti in città si accordano con i nuovi governanti.

Le fonti fiorentine riportano anche il modo in cui la città ha mobilitato la popolazione per la formazione dell’esercito in vista della battaglia contro Siena. Ve lo racconterò martedì 14 marzo in un appuntamento bonus di questa rubrica. Stay tuned!

Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Terzo appuntamento: Giovanni Acuto e i condottieri medievali.

Per i figli cadetti nati nell’Inghilterra di inizio Trecento, in un’epoca che non era più quella della cavalleria di Guglielmo il Maresciallo, la strada più comune era quella delle armi. Dovevano imparare il mestiere del soldato, iniziando come scudieri, paggi o soldati di condottieri e aspettando di mettersi in mostra in qualche occasione per diventare uomini d’arme. Da questo momento potevano mettersi sul mercato, arruolare soldati e mettere la loro spada al servizio del miglior offerente.

Ed è ciò che fece John Hawkwood, ribattezzato Giovanni Acuto dai fiorentini, colui che divenne uno straordinario condottiero per moltissimo tempo al soldo della Signoria di Firenze. Quando iniziò la sua carriera, era in corso la Guerra dei Cent’anni, tra Inghilterra e Francia. È proprio in Francia, dai primi anni Quaranta del Trecento, che Giovanni combatté, terminando il suo apprendistato. Ma nel 1360 finì la prima parte della guerra e iniziò un periodo di pace, in cui i soldati dovettero riorganizzarsi per sopravvivere.

Nel frattempo, la struttura dell’esercito basato sulla fedeltà vassallatica e incentrato sulla cavalleria era entrato in crisi. Già nel Duecento, in Inghilterra i vassalli rifiutavano la dignità cavalleresca per non essere tenuti agli obblighi militari. In Francia, invece, i vassalli seguivano il signore solo entro in confini del feudo; oltre questo limite esigevano si essere rimborsati di tutte le spese. In Italia, soprattutto nelle zone in cui i Comuni crescono più velocemente, le compagnie cittadine (formate in prevalenza da cittadini che avevano più confidenza con gli strumenti dei loro mestieri che con le armi) non erano sufficienti a condurre guerre di conquista. Per questo, le milizie vennero integrate con soldati di professione. E questa professione poteva essere una soluzione per tanti, soprattutto durante la crisi economica di fine Duecento. Fu in questo contesto sociale che i soldati come Giovanni facevano fortuna, formando bande di soldati-avventurieri (mercenari), pronti a offrire il proprio lavoro a quanti avessero bisogno di soldati. Quella a cui Hawkwood si unì era la Compagnia Bianca.

I soldati di professione erano presenti negli eserciti già in pieno Medioevo, dove venivano ingaggiati con contratti a termine che si concludevano nel momento in cui finiva la guerra per cui erano stati assunti. In Italia, a loro ricorrevano i Comuni e il podestà, che aveva bisogno di una forza di polizia stabile. Un’accelerazione al fenomeno lo diedero le vicende dei guelfi e dei ghibellini nella seconda metà del XIII secolo. Ovviamente, ciò non significa che gli eserciti erano formati solo da mercenari, però erano loro a fare la differenza. Ad essi ricorrevano anche i sovrani d’Europa che, fino al Duecento, assoldavano il singolo uomo con i suoi collaboratori, mentre dalla metà del secolo si avvalsero di un tecnico, il conestabile, per trovare le truppe. Egli reclutava contingenti che oscillavano tra i venticinque e i cento soldati, per poi passare a intere compagnie di centinaia di uomini nel Trecento. Un altro fattore che contribuì a professionalizzare i soldati fu l’introduzione di nuove armi, l’arco e la balestra, che richiedevano una specializzazione nel loro uso e che trasformarono le tecniche di combattimento. Infatti, fino a quel momento i cavalieri (che costituivano la maggioranza degli eserciti) avevano dovuto difendersi solo dai colpi ravvicinati di spada, mazza e lancia, mentre ora dovevano riorganizzare le armi di difesa per le frecce che arrivavano da lontano e avevano una diversa capacità di perforazione. Questo comportò l’inspessimento di scudi e corazze, la formazione di una leva più robusta e una forma di combattimento più lenta.

La figura centrale della compagnia era il condottiero, ossia il comandante, al quale i soldati erano legati da vincoli di dipendenza, ma anche di fiducia e fedeltà. Era il condottiero (che, nella maggior parte, proveniva da famiglie aristocratiche) a reclutare i guerrieri, ognuno con il proprio reparto di armati. Sul loro operato, vigilava colui che li aveva ingaggiati, ossia il signore o un organismo apposito, come gli Ufficiali della Condotta a Firenze o i Savi della Terraferma a Venezia. Spesso il soldato mercenario è ricondotto a stereotipi, che però sono da rivedere. Primo fra questi, l’immagine dei soldati che, nelle città in cui passano, lasciano solo tracce sgradevoli. Ciò non era sempre vero, in quanto molti di loro si legavano alle città nelle quali passavano più tempo, ad esempio sposando ragazze del posto o facendo erigere chiese. Un altro stereotipo è quello del rapporto tra soldati e popolazione locale, le cui testimonianze sono sempre negative, come i soldati di Francesco Sforza che avevano l’abitudine di mangiare e bere senza pagare nelle osterie. Ma la presenza di un esercito significava anche circolazione di denaro e, soprattutto, guadagno sicuro per chi prestava loro soldi. Spesso i soldati finivano nel giro dell’usura oppure impegnavano armi e cavalli per avere contante. Inoltre, alcuni di loro investivano i guadagni presso uomini d’affari locali. Pertanto, nonostante sia indubbio che tra le file degli eserciti ci fossero uomini di bassa moralità e delinquenti abituali, la figura del soldato di professione non può essere ricondotta a stereotipi assoluti.

Ma come era strutturata una compagnia? Iniziamo col precisare che, nel momento in cui il condottiero accettava la condotta, non sempre aveva a disposizione gli uomini necessari. Doveva quindi procedere con l’arruolamento che poteva avvenire contattando soldati con cui aveva già combattuto, con l’unione a compagnie più piccole guidate da altri condottieri, con l’arruolamento per strada oppure ancora convincendo mercenari prigionieri di altre compagnie o sottraendo soldati al nemico in difficoltà economica. Detto ciò, la compagnia era formata da un insieme di piccole cellule. Un esempio utile è quello della compagnia di Michelotto degli Attendoli, della prima metà del Quattrocento. Vi erano 561 lance, che corrispondevano a 1129 combattenti e 561 paggi, e 104 cavalli (ossia singoli combattenti), per un totale di 1229 cavalieri, integrati da 177 fanti. Questo contingente era diviso in 87 squadre eterogenee e ognuna di esse era divisa in gruppi di lance, per un totale di almeno 167 uomini di comando (quindi un comandante ogni 6 uomini). Oltre agli uomini d’arme, la compagnia era formata anche da amministratori e contabili, necessari per amministrare le spese anticipate che il condottiero si accollava per l’equipaggiamento dei suoi uomini. Inoltre, vi era la casa, formata dai più stretti commilitoni e dai famigli del comandante, i quali, però, non seguivano gli spostamenti della compagnia, ma operavano in una sede fissa. Invece, si spostavano con i soldati tutte quelle figure che servivano a garantire un livello di quotidianità accettabile alle truppe: servi, cuochi, buffoni, medici, religiosi, prostitute, barbieri, sellai, mulattieri, corrieri, garzoni di stalla, fornai, ecc. Il comandante aveva, inoltre, giurisdizione piena sui suoi uomini (legibus soluti), sui quali amministrava la giustizia, con premi e punizioni. Quindi, ad eccezione di qualche rara occasione, non erano le magistrature della signoria committente a far valere la legge tra i soldati.

Uno dei problemi più fastidiosi per chi ingaggiava le compagnie era il loro costo, molto ingente, che spesso veniva sostenuto grazie all’introduzione di nuove tasse. Infatti, chi si rivolgeva ai mercenari, in genere, si impegnava a corrispondere la paga in denaro e gli anticipi per cavalli, armi e armature, a indennizzare i cavalli morti o feriti e a riscattare eventuali prigionieri. Ma in Europa del Duecento Trecento e Quattrocento, i mercenari erano indispensabili. È interessante osservare, ad esempio, i patti del 1390 tra Giovanni Acuto e Firenze per capire come funzionasse il loro ingaggio. Essi prevedevano una ferma annuale, con diritto di opzione per un altro anno; il condottiero si impegnava a svolgere le operazioni di guerra e una serie di servizi di guardia e sicurezza in città. Alla fine della condotta, il comandante prometteva di non combattere contro Firenze per due anni in proprio o per sei mesi al servizio di un altro capitano (clausola comune, ma spesso non rispettata). Una forma di ingaggio che si sviluppò nel Trecento, è il soldo d’attesa: in tempo di pace, i soldati ricevevano una paga ridotta ma si tenevano a disposizione in caso di necessità. Durante l’attesa, il condottiero era libero di far combattere i suoi soldati per altri committenti fino a che non fossero richiesti dal primo. Quanto alla durata dell’ingaggio, inizialmente era prevista per qualche mese, per poi allungarsi a un anno di ferma con un anno di rinnovo, sviluppando il fenomeno per il quale, molto spesso, i condottieri si legavano allo Stato che li aveva ingaggiati. Il soldo era ovviamente integrato dal bottino, dato che i soldati avevano libertà di commettere ruberie, estorsioni e chiedere riscatti. Alle paghe (che poteva essere sostituita, in caso di difficoltà del committente, da altri generi, come stoffa, sale, gioielli…), inoltre, si univano spesso privilegi, come esenzioni fiscali o lasciapassare.

Come combattevano le compagnie? Tra Duecento e metà Trecento in Italia, si usavano i corpi di cavalleria, fanti e balestrieri. Fanti e balestrieri formavano il reparto d’appoggio per la cavalleria, decisiva per lo scontro, che in genere consisteva in una serie di urti successivi di cavalieri. Nel Trecento, però, le modalità di battaglia si modificarono, dando sempre più spazio alla fanteria, che smise di essere carne da macello per diventare un reparto decisivo. Ma, durante le battaglie, mercenari erano davvero spietati? La risposta è no. Erano feroci e spietati con le popolazioni che subivano i loro soprusi, ma contro i nemici si dimostravano coraggiosi e determinati, mai spietati. E ciò perché quei professionisti nemici sarebbero potuti diventare loro alleati o parte della stessa compagnia. Pertanto, il nemico doveva essere sconfitto ma non distrutto, perché i soldati erano una risorsa da gestire nel migliore dei modi.

Come detto in precedenza, alla fine del Trecento le compagnie iniziarono a cambiare, in quanto si legarono sempre più agli Stati. Ma anche la figura del condottiero cambiò, che da avventuriero si trasformò in gentiluomo. Questo avvenne anche perché spesso i condottieri ricevevano come pagamento la concessione di terre su cui, in alcuni casi, esercitavano una signoria. Un bel modo per trasformare i condottieri in fedeli sudditi del signore che li aveva ingaggiati.

Giovanni Acuto proprio il prototipo di questo cambiamento.

Il contesto italiano nel quale approdò a Firenze era caratterizzato da un’estrema dinamicità politica, soprattutto al centro-nord, dove le protagoniste erano Verona, Milano e Venezia. La politica aggressiva del signore di Verona, Mastino della Scala, preoccupava Venezia che nel 1363 stipulò un’alleanza con Firenze. Ma quando Giovanni Visconti, signore di Milano, conquistò Bologna, Firenze iniziò a consolidare la sua posizione in Toscana. Ma la minaccia del pericolo derivante da Milano non fece passare in secondo piano le rivalità tra le città toscane e quando Pisa, nel 1365, chiuse il porto ai fiorentini si aprì una ghiotta occasione per i soldati in cerca di ingaggio. Quando la Compagnia Bianca arrivò in Toscana, fu contesa tra Pisa e Firenze. Il comandante scelse i quaranta mila fiorini offerti dalla prima, nella guerra contro Firenze. A un certo punto dell’ingaggio, però, buona parte della Compagnia abbandonò Pisa per passare dalla parte di Firenze che aveva fatto un’ulteriore ghiotta offerta. Giovanni Acuto non seguì i suoi compagni e rimase con Pisa, decretando così il distacco dalla Compagnia Bianca. Dopo Pisa, combatté al soldo di Bernabò Visconti, di papa Urano V e di Padova. Nel 1387, approdò a Firenze e vi restò in modo definitivo, fino alla sua morte, attuando quel cambiamento che vide i condottieri legarsi sempre più spesso a una sola città.

recensione, Romanzo storico

“Omicidio nel ghetto. Venezia 1616” di Raffaella Podreider

Aveva appena smesso di piovere, in quel tardo pomeriggio nella Venezia del 1616, quando sior Contarini e sior Vanin entravano nel ghetto ebraico. Già, i due uomini d’affari veneziani si recavano al Banco Rosso, proprio poco prima dello Shabbat. Cosa volessero due cristiani nel ghetto ebraico è ben intuibile. Denaro. Dovevano parlare con il vecchio Avraham Hirsh, che teneva uno dei banchi di pegno del ghetto. Con lui, i due nobili avevano grossi debiti aperti. Ma proprio quando il vecchio apriva la porta ai due, sior Vanin cadeva morto in una pozza di sangue. E la colpa non poteva che cadere sull’ebreo. Quando, sul posto, arrivava l’avogador Zante Venier, Signore della Notte al Criminal, il nobile Contarini è certo che sia stato l’ebreo a uccidere il suo socio. Ma è stato davvero Avraham Hirsh? Oppure c’era qualcun altro che voleva morto Vanin? Il compito di scoprire come sono andate le cose viene affidato a Beniamino, il figlio dell’accusato, il quale chiede aiuto a Sebastiano, il giovane orfano Vanin. In una corsa contro il tempo per salvare il padre dalla morte, Ben e Sebastiano, tenteranno il tutto per tutto.

Così inizia il romanzo storico di Raffella Podreider, “Omicidio nel ghetto”, edito da Il Ciliegio Edizioni.

Sullo sfondo della Venezia di inizio Seicento, si svolge la trama di questo giallo storico, molto ben scritto, grazie a una prosa chiara e semplice, ma d’effetto. Oltre all’intrigo investigativo, ciò che si apprezza maggiormente sono due aspetti. Da una parte, l’ottima e immersiva ricostruzione dell’ambientazione, che ci permette di ammirare l’affascinante città lagunare nel periodo barocco. Dall’altra, l’interessante racconto della cultura e della religione ebraica, il quale è coadiuvato da utilissime e molto apprezzate note che permettono al lettore di meglio comprendere gli aspetti dell’ebraismo, senza dover interrompere la lettura.

La trama si sviluppa su una doppia linea temporale. Nel 1616 si svolgono i fatti del presente della storia, mentre nel 1611 si ripercorrono gli studi dell’avogador Zante Venier, attraverso il quale il lettore può addentrarsi nella religione ebraica. Ed è proprio grazie a Venier che l’autrice riesce a mostrare come, anche in epoche difficili e cariche di paure e pregiudizi, sia possibile l’integrazione e il superamento dei preconcetti, attraverso la conoscenza e l’empatia.

È molto interessante vedere come i due giovani improvvisati investigatori riescano a mettere da parte ostilità e pregiudizi per la ricerca del vero colpevole; come riescano a capire che proprio mettendo in discussione le proprie certezze, sia possibile giungere alla verità. Come loro due, anche tutti gli altri personaggi sono ben caratterizzati e l’autrice è riuscita a mettere in risalto le loro emozioni e sensazioni, che il lettore non ha difficoltà a percepire.

Omicidio nel ghetto. Venezia 1616” è un romanzo appassionante, consigliato a tutti coloro che amano la storia della Serenissima e a coloro che vogliono conoscere o approfondire l’argomento dell’ebraismo.

ANTICA ROMA

Il mestiere del gladiatore. Alla scoperta della vita dei combattenti del Colosseo

Il celebre film Il gladiatore di Ridley Scott racconta di come il generale romano Massimo Decimo Meridio, dopo essere scampato alla condanna a morte da parte dell’imperatore Commodo, riesca a tornare a Roma per vendicarsi, in veste di gladiatore acclamato dal popolo. Dalla pellicola intuiamo che i gladiatori erano uomini che non potevano sottrarsi a quel destino. In realtà, a Roma, quella del gladiatore poteva una scelta, che portava grande fama, proprio come nel caso dell’auriga, che correva nel Circo Massimo.

I giochi gladiatorii si diffusero a Roma in epoca repubblicana, tra la fine del IV e l’inizio del III secolo, accanto ad altre due forme di divertimento popolare, le corse dei carri e il teatro. Tre forme di intrattenimento organizzate e offerte dallo Stato. Tuttavia, i primi combattimenti tra gladiatori erano di natura privata. Riguardavano, infatti, le cerimonie funebri in onore di personaggi importanti, a cui i parenti volevano facilitare il passaggio nel regno dei morti e che volevano, al contempo, dimostrare ricchezza, prestigio e potere. Nel corso del II secolo a.C., però, questa pratica si trasformò in un potente mezzo per ottenere il favore popolare. Le famiglie dell’alta società romana, infatti, iniziarono a investire in questi spettacoli quantità sempre maggiori di tempo e denaro. Nel 42 a. C., la sottile linea di separazione tra i ludi organizzati dallo Stato e quelli privati venne meno. In un momento di preoccupazione per le sorti della Repubblica si pensò che le corse dei carri non fossero più sufficienti a rendere propizi gli dèi, così vennero sostituiti con i combattimenti tra gladiatori. Da quel momento, vennero organizzati a spese di Roma, anche se ancora mancava un luogo adatto a questi giochi, che si svolgevano al Foro Romano. A far costruire un anfiteatro apposito (imitato in altri luoghi dell’Impero), ci pensò l’imperatore Vespasiano: nell’80 d.C., nacque l’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto come il Colosseo, e gli spettacoli dei gladiatori diventarono ancora più popolari.

Ma come si diventava gladiatori?

Attraverso l’addestramento nei ludum gladiatorum, le scuole per gladiatori, gestite dai maestri privati, i lanisti. Nell’Impero ce n’erano oltre cento, ma le più importanti erano le quattro scuole di Roma, tutte posizionate nei pressi del Colosseo e gestite dai procuratores dell’imperatore. La più grande tra questa era il ludus magnus (i cui resti sono ancora visibili), direttamente collegata al Colosseo. Poi vi erano il ludus dacius, per l’addestramento dei Daci, il ludus gallicus, dove si addestravano i Galli, e il ludus matutinus, dedicato ai gladiatori che combattevano contro gli animali feroci, i venatores e i bestiarii.

Erano tre le tipologie di uomini che si potevano trovane nei ludus. Innanzitutto, i prigionieri di guerra, poi gli schiavi condannati per reati gravi, come omicidio, avvelenamento o profanazione del tempio (paradossalmente, in questo modo, veniva loro offerto un modo per riscattarsi, dato che potevano anche comprarsi la libertà con i guadagni dei combattimenti), e uomini liberi che si arruolavano volontariamente, perché attratti dalle forti emozioni e dai guadagni. Questi ultimi erano soprattutto soldati in congedo che faticavano a tornare alla vita cittadina oppure uomini che non avevano di che vivere, dato che l’essere parte della scuola garantiva vitto, alloggio e cure mediche. Si può dire che, dal I secolo, gli uomini liberi costituivano la metà dei gladiatori. Tra questi, vi erano anche figli di senatori e cavalieri che, per qualche ragione, erano divenuti pecore nere delle famiglie. Inoltre, ci sono stati anche diversi imperatori che hanno vestito i panni del gladiatore, come l’imperatore Commodo. Fino al 200 vi furono anche gladiatrici, i cui combattimenti vennero poi vietati perché considerati un insulto alle virili virtù militari.

Oltrepassata la soglia della scuola, l’aspirante gladiatore veniva esaminato da un medico che ne analizzava fisionomia e personalità. Erano ammessi solo gli uomini che risultavano adatti all’arena. Superato l’esame, veniva sottoposto all’addestramento e a ripetuti esami da parte dei medici che li affiancavano. Il gladiatore rappresentava, infatti, un investimento per il lanista, che quindi aveva interesse a che si mantenesse in salute. Il gladiatore veniva affidato a uno speciale allenatore, di solito un ex gladiatore, ed era assegnato a una particolare arma, scelta dal lanista, alla quale veniva allenato con esercizi massacranti, che gli permettevano di imparare certi automatismi utili a diventare una vera e propria macchina da combattimento. In questo modo, all’interno della scuola si creava una gerarchia tra i gladiatori che, per tutta la vita, cercavano di raggiungere la vetta.

La maggior parte di loro moriva tra i ventuno e i trent’anni, con all’attivo da cinque a trentaquattro combattimenti, i quali potevano essere svolti da una a quattro volte l’anno, sia perché dovevano avere il tempo di riprendersi dalle ferite, sia per non annoiare il pubblico. I combattenti ultratrentenni erano pochi ed erano i migliori, nonché i più fortunati per aver avuto più volte la grazia. Infatti, il combattimento per il gladiatore poteva finire in cinque modi: poteva vincere, poteva essere ucciso, poteva essere giustiziato dopo essersi arreso (per volere dell’imperatore o del pubblico), poteva ottenere la grazia e uscire vivo, oppure poteva uscire insieme all’avversario se il combattimento finiva in parità. Alcuni tra i gladiatori più forti e famosi combatterono anche oltre i quarant’anni e fino addirittura ai sessanta. Erano valorosi e rappresentavano un modello di virilità, che esercitava un grandissimo fascino sulle le donne, sia del popolo che dell’alta società.

I gladiatori vivevano all’interno della scuola e combattevano nelle arene dell’Impero. A Roma, i giochi erano organizzati dal procurator munerum dell’imperatore. Egli trattava con i lanisti e sborsava ingenti cifre per garantirsi la presenza dei guerrieri famosi. Queste cifre, che andavano dai mille-duemila sesterzi per i gregarii, ossia i gladiatori di ultima categoria, fino ai quindicimila sesterzi per i campioni, finivano, per la maggior parte, nelle tasche del maestro della scuola. Al gladiatore era infatti lasciata solo una misera mancia ed egli non riusciva ad arricchirsi nemmeno con i premi che, il più delle volte, erano costituiti da corone o ramoscelli d’ulivo e qualche moneta. Erano rari gli spettacoli in cui venivano assegnati premi corposi, dei quali, comunque, spettava una percentuale al lanista (gli schiavi potevano tenere solo il 20% del premio, mentre i liberi il 25%, il resto spettava al maestro). Per questi motivi, erano pochi gli schiavi che riuscivano a pagarsi la libertà con i guadagni e, anche nel caso in cui riuscivano, spesso stipulavano contratti per continuare a esibirsi anche dopo la liberazione. Per gli ex gladiatori, le possibilità al di fuori dell’arena erano, infatti, limitate, perché sapevano solo combattere, ma la carriera militare era loro preclusa. Potevano ambire a un lavoro come guardia del corpo di qualche cittadino (cosa che avveniva di frequente in epoca repubblicana) o a un impiego presso l’imperatore, ma la stragrande maggioranza rimaneva all’interno della scuola fino alla morte. Se non morivano in giovane età, restavano come allenatori o guardiani o addetti alle pulizie.

Nell’arena, ogni gladiatore combatteva con l’arma alla quale era stato addestrato e che rimaneva la stessa per tutta la carriera. Poteva essere la lancia, il giavellotto, la spada o il pugnale, di diversi generi. Erano previsti elmi, scudi, protezioni per le gambe e per il braccio che impugnava l’arma e anche corazze, le quali però non venivano usate. I gladiatori, infatti, si esibivano a petto nudo in segno di sottomissione, in quanto erano l’imperatore e il pubblico a disporre della loro vita, e anche per essere pronti a offrire la schiena o il collo per il colpo di grazia in caso di condanna a morte. Vediamo le categorie dei gladiatori in base alle armi usate:

  • I traci, muniti di spada ricurva abbastanza corta e scudo,
  • I mirmilloni, con lo scudo allungato e la spada a doppio taglio; impiegati soprattutto contro il reziario,
  • Gli oplomachi, muniti di un piccolo scudo di bronzo, che iniziavano a combattere con la lancia, per poi passare alla spada corta,
  • I reziari, senza elmo, scudo e gambali, ma solo con una fasciatura sul braccio sinistro e una protezione in bronzo sulla spalla, muniti di una rete tonda a maglie larghe e un tridente,
  • I secutores, con l’elmo che proteggeva tutto il viso, lasciando solo due piccoli fori per gli occhi. Avevano campo visivo limitato e, per questo, dovevano avvicinarsi il più possibile all’avversario,
  • Gli equites, che gareggiavano solo tra di loro, iniziavano il combattimento a cavallo e usavano spade e lance,
  • I provocatores, con un lungo scudo rettangolare, corazza, un solo gambale e una spada corta,
  • I paegnarii, che si esibivano nell’intervallo di mezzogiorno con spettacoli tragicomici, senza elmo né scudo, ma solo con un’armatura di cuoio, muniti di una frusta e di un bastone dalla punta a uncino. Erano, per lo più, gladiatori anziani con difetti fisici,
  • Gli andabatae, con gli occhi bendati o con fori dell’elmo coperti che si affrontavano con la spada.

Ora che conosciamo coloro che combattevano nel Colosseo, vediamo come si svolgevano i giochi. Il programma del grande anfiteatro romano era suddiviso in tre parti: al mattino i combattimenti tra animali; a mezzogiorno le esecuzioni di criminali e schiavi che avevano tentato la fuga ed esibizioni più leggere, come gare di atletica o numeri comici; al pomeriggio i combattimenti tra gladiatori.

Il programma mattutino era, a sua volta, diviso in tre parti. Si iniziava con i combattimenti tra animalidiversi, soprattutto nella combinazione orso-toro, in cui anche il vincitore veniva poi abbattuto. Dopo questo spettacolo, si passava ai numeri circensi con gi animali addestrati e, infine, si assisteva alla venatio, ossia il confronto tra animali e uomini: i venatores, cioè i cacciatori, e i bestiarii, ossia gli uomini che combattevano contro le belve. Erano i cacciatori a iniziare con una battuta collettiva ad animali innocui, per poi passare a quelli feroci. Terminata la caccia, era la volta dei bestiarii che davano vita due tipologie di spettacoli: quello che assomiglia molto al rodeo texano, in cui il combattente saltava in groppa a un toro per cercare di immobilizzarlo torcendogli il collo, e quello in cui l’uomo combatteva contro un orso, un leone o una tigre munito solo di un giavellotto.

Arrivati a mezzogiorno, chi non si allontanava per il pranzo, assisteva alle esecuzioni. I condannati a morte (che avevano trascorso la loro ultima notte in una cella nelle catacombe) venivano divisi in due gruppi: da una parte i romani colpevoli di omicidio, dall’altra i non cittadini e gli schiavi. La prima esecuzione era quella dei cittadini di Roma che venivano uccisi con la spada, quindi velocemente. Gli altri, invece, venivano condannati al supplizio della croce, bruciati vivi o dati in pasto alle belve; alle volte, venivano combinate due modalità (ad esempio, potevano essere inchiodati alla croce e poi dati alle fiamme oppure venivano appesi alla croce in modo che le belve potessero arrivare a sbranarli). In alcuni casi, però, anche per i cittadini l’esecuzione poteva avvenire in altro modo. Due di loro venivano buttati nell’arena: uno disarmato scappava mentre l’altro lo inseguiva armato di spada, finché non lo uccideva. L’inseguitore veniva poi giustiziato a sua volta. Tuttavia, le esecuzioni erano probabilmente noiose per il pubblico e, per questo, gli organizzatori ne collocavano una parte in un contesto mitologico, in esibizioni che presentavano miti celebri.

Terminate le esecuzioni e rientrati quanti erano usciti per pranzare in una delle bancarelle che circondavano l’anfiteatro, si arrivava allo spettacolo più atteso: i combattimenti tra gladiatori. Iniziava tutto con una processione in pompa magna, che proveniva dalle catacombe accompagnata dal suono di trombe, corni e doppi flauti, sostava al centro dell’arena (in cui i gladiatori toglievano elmo e scudo per far ammirare i loro fisici possenti), per poi scomparire di nuovo nelle catacombe. Terminata la processione, a cui prendevano parte l’organizzatore dei giochi e i suoi servitori, iniziava il riscaldamento dei gladiatori, chiamato preludio, con le armi di legno. Al segnale degli arbitri, i gladiatori lasciavano l’arena e venivano introdotte le armi ufficiali. La prima coppia di combattenti entrava con un sottofondo musicale molto trascinante e si posizionava al centro dell’arena. Qui bisogna sfatare il mito che vuole i gladiatori abituati a salutare l’imperatore con le parole Ave Caesar, morituri te salutant. Questo saluto, infatti, è stato riportato solo da Svetonio che lo indicò come pronunciato solo una volta prima di una naumachia. Gli studiosi ritengono, quindi, che sia ingiustificato credere che si trattasse di un’abitudine dei gladiatori. In ogni caso, saluti a parte, arrivava qui il momento per i combattenti di mettere in pratica quanto appreso durante l’addestramento. Entrambi si muovevano con competenza e precisione, mai alla cieca, anche perché spesso si conoscevano tra loro e sapevano quali erano i punti forti e deboli dell’altro. Inoltre, i due gladiatori erano quasi sempre di pari livello; solo di rado veniva accoppiato un veterano con un giovane alle prime armi. Per questo motivo, la durata del combattimento era sconosciuta. Se entrambi erano quasi sfiniti, l’arbitro concedeva una breve pausa e se, dopo la pausa, ancora non c’era un vincitore, egli sospendeva la sfida e chiedeva il giudizio dell’imperatore e del pubblico. Ai gladiatori che si erano battuti con coraggio veniva concessa la stantes missi, ossia l’uscita trionfale in piedi. Tuttavia, la maggior parte dei duelli finiva con un vincitore. Tutti i gladiatori erano addestrati a morire con dignità, ma a volte qualche perdente si arrendeva, abbassando spada o tridente e buttandolo a terra, e invocava la grazia (se non moriva per le ferite riportate). In questo caso, l’arbitro interveniva per impedire che il vincitore lo finisse e si rivolgeva all’organizzatore dei giochi (nel Colosseo era sempre l’imperatore, per mezzo di un procurator) per chiederne il parere. L’imperatore a sua volta, spesso, lasciava il giudizio al pubblico. Nel frattempo, il gladiatore attendeva sperando nella grazia. Se sentiva gridare mitte, usciva vivo per tornare nella scuola; se invece sentiva iugula, sapeva che il pollice di tutti gli spettatori era verso e che la sua fine era arrivata. Allora, stringeva le mani sulle spalle o le gambe del vincitore e si inchinava aspettando il colpo di grazia tra le scapole o sulla nuca. Poi veniva caricato su una barella e fatto uscire dalla Porta Libitinaria (della morte), per essere portato nello spoliarium, un locale in cui era spogliato delle armi e in cui gli veniva tagliata la gola, per essere certi che non fingesse la morte. Solo raramente l’imperatore ignorava la decisione del popolo e concedeva la grazia. Il vincitore, invece, si avvicinava al palco imperiale per ricevere il premio (un ramoscello d’ulivo e qualche moneta), salutava la folla e usciva dalla Porta Sanavivaria (della vita). Il suo valore di mercato era cresciuto.

Chiudeva i giochi la distribuzione dei doni da parte dell’imperatore. Dall’alto dell’anfiteatro venivano buttate giù delle palline di legno con vari simboli che indicavano monete, vestiti, cibo o suppellettili d’argento e chi le afferrava doveva portarle ai funzionari per ritirare la cosa indicata. In questo modo, l’imperatore esibiva il proprio potere e cercava di guadagnarsi la lealtà del popolo.

I giochi gladiatorii erano affascinanti agli occhi dei romani perché simboleggiavano lo splendore di Roma ed esprimevano le virtù romane come il valore, la forza e il coraggio. Per questo tra il I e il III secolo, non si poteva immaginare Roma senza i gladiatori. Tuttavia, nel III secolo le province dell’Impero dovettero affrontare le invasioni barbariche che portarono una forte recessione economica. Per questo, i costosissimi spettacoli gladiatorii vennero abbandonati, sostituiti con spettacoli più economici. Inoltre, i combattimenti tra gladiatori si scontrarono con la diffusione del cristianesimo, che ne era avverso. Nella capitale, il graduale declino di questi spettacoli iniziò nel IV secolo.

A questo punto, tornando al film citato all’inizio, molti di voi avranno capito che Il gladiatore di Ridley Scott non è storicamente attendibile quanto ai combattimenti tra gladiatori. Chi lo ha visto ricorderà i duelli tra molteplici gladiatori contemporaneamente, oppure tra gladiatori e animali nello stesso momento, oppure ancora combattenti con maschere di fantasia. Tutto ciò non corrisponde a quanto accadeva realmente nell’Antica Roma.

Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Secondo appuntamento: la guerra nel Medioevo

“Ciascuno pensi alla sua anima, consegnatevi a noi e potrete andarvene incolumi, se invece non accetterete e sarete presi con la forza sarete tutti impiccati senza misericordia.”

Le battaglie e le vicende belliche medievali risultano così affascinanti ai nostri occhi da stimolare la fantasia di molti scrittori. E nei romanzi troviamo cavalieri in armatura che si scontrano brandendo spade, decapitando poveri fanti appiedati. Sangue a flotti, cavalli che si impennano, spade luccicanti, usberghi lucenti… sicuramente tutto molto affascinante. Ma com’era davvero la guerra nel Medioevo europeo? Proviamo a ricostruirne i punti principali.

Iniziamo col precisare che, nell’80% degli episodi militari attestati dalle fonti, il modo di guerreggiare è consistito in scorrerie devastatrici limitate nel tempo e nello spazio, volte a sottrarre al nemico i mezzi di sussistenza. E ciò accedeva indipendentemente dalla motivazione della battaglia, perché quello che più incitava i soldati a combattere era la prospettiva dell’arricchimento derivante dal bottino. Le scorrerie erano, infatti, composte da razzie e raid, ossia incursioni rapide e limitate nello spazio con lo scopo di recuperare bottino e distruggere le risorse del nemico; il raid si inseriva in schemi strategici più elaborati ed erano volti a indurre il nemico alla resa. E questo modo di guerreggiare non differenziava i soldati regolari dagli sbandati che derubavano i viandanti. L’unica differenza tra ruberia e prelievo di prede come azione di guerra era il titolo giustificativo della violenza. Insomma, la guerra medievale era tale solo nel 20% dei casi.

Proprio l’incapacità degli eserciti di astenersi dalle razzie rendeva i loro passaggi una maledizione per i luoghi attraversati, senza distinzione tra amici e nemici. Anche perché con queste incursioni i soldati provvedevano alle proprie esigenze alimentari (non soddisfatte dalla carente organizzazione logistica militare), che giustificavano tutti gli eccessi di una sorta di licenza militare, che si poteva ben trasformare in pura rapina. Ma oltre alle razzie, vi erano altri problemi dei luoghi attraversati dagli eserciti: problemi di controllo di uomini in movimento, danneggiamento di strade e abbattimento di case e alberi per l’agevolazione del passaggio di mezzi pesanti, danni provocati dallo stazionamento delle truppe che esaurivano le risorse di regioni intere. Solo alcuni grandi comandanti, come Guglielmo il Conquistatore o Clodoveo, riuscivano a mantenere e condurre gli eserciti senza provocare troppi danni.

La stessa tendenza predatoria degli eserciti medievali era tipica dei soldati di mestiere, i cosiddetti mercenari. Apparsi verso la fine del XII secolo e divenuti presenza abituale nella seconda metà del Trecento, questi soldati di professione erano dediti alla ricerca del bottino e al sequestro di persona a scopo di estorsione. Erano radunati in compagnie di ventura, ossia gruppi organizzati come veri e propri eserciti permanenti e itineranti, sempre pronti alla preda, per conto dei propri datori di lavoro, ma soprattutto per il proprio tornaconto, specie quando rimanevano senza occupazione e il grado di violenza aumentava. Il loro obiettivo non era superare l’avversario, ma arricchirsi con ogni mezzo possibile, facendo prevalere i moventi economici sulle intenzioni politiche. In origine, erano semplici ladruncoli, poi divenuti veri fuorilegge a cui si associarono ribelli, delinquenti comuni e monaci rinnegati, e infine veri e propri professionisti della guerra. Nella seconda metà del XIV secolo le compagnie diventarono formazioni militari abbastanza stabili stipendiate dalle signorie italiane, anche se continuarono comunque a integrare le paghe con bottini e riscatti.

Nell’Italia comunale, la scorreria era diffusa anche come sfida e provocazione contro l’avversario, per indurlo a uscire dalle mura della sua città e ad accettare la battaglia, così come per umiliarlo e ridicolizzarlo. Inoltre, era usata per punire che aveva mancato a una fedeltà politica. Vi era poi l’uso della scorreria tattica, che contava sulla reazione del nemico per farlo cadere in trappola.

I saccheggi erano, comunque, sempre accurati: ogni cosa veniva asportata dalle case, che poi venivano incendiate, e le fortificazioni in muratura venivano abbattute. La tecnica distruttiva principale era, infatti, il fuoco, efficace sia in campagna che in città. Dietro ai soldati saccheggiatori, vi erano poi i guastatori che, muniti di appositi attrezzi come scuri, operavano il guasto del territorio nemico. Inoltre, insieme ai soldati impegnati nelle azioni della gualdana (saccheggio), vi erano i cosiddetti saccomanni, ossia singoli predoni, non combattenti, muniti di sacchi nei quali si accumulavano le prede. I saccomanni erano proprio coloro che seguivano l’esercito tenendo il sacco pronto per raccogliere il bottino. Una volta raccolte le prede, queste venivano radunate in un luogo adatto e ripartite in modo eguale tra tutti i combattenti, al fine di evitare il rischio che nessuno volesse più battersi nella prima schiera in cui era più difficile fare bottino.

Nonostante quanto si è detto finora, gli uomini di guerra medievali non possono essere visti solo come sadici distruttori in cerca di bottino. Il bottino, infatti, era legittimo perché derivato dalla guerra, anche se vi erano limiti generali: i danni dovevano essere commisurati al rischio e agli scopi, i non combattenti e i prigionieri dovevano essere rispettati, tutto era permesso purché non facesse soffrire la disciplina dell’esercito, le chiese dovevano essere risparmiate per evitare l’ira divina e bisogna evitare la distruzione totale dei territori di cui di voleva entrare in possesso.

A livello quantitativo, subito dopo i saccheggi venivano gli assedi dei luoghi fortificati, come conseguenza del fenomeno dell’incastellamento del X e XI secolo. La fortificazione veniva avvicinata con i plutei, ossia grandi scudi su ruote che proteggevano i tiratori, i quali spianavano il terreno e colmavano il fossato difensivo per permettere ai mezzi pesanti di agire sulle mura. Il primo mezzo pesante era la testuggine, un capannone blindato con un tetto inclinato che faceva scivolare i proiettili e le materie incendiarie lanciate dall’alto dal nemico. Sotto la testuggine, i minatori arrivavano alle mura per aprire brecce con l’ariete, cioè una grossa trave con la testa ferrata. Poi vi era la torre mobile più alta delle mura, montata su ruote, spinta da uomini al suo interno e munita di ponti volanti che permettevano di superare le mura dall’alto. Anche le scale d’assalto avevano le ruote ed erano più difficili da rovesciare per il nemico. Tutti questi mezzi erano di legno, pertanto venivano ricoperti di pelle di bovino, strati di terra e materiali imbevuti d’aceto per essere protetti contro il fuoco. Erano poi accompagnati dal tiro delle artiglierie, ossia mezzi che facevano piovere proiettili di pietra sulle difese nemiche, come il mangano e, successivamente, il trabucco. Sottoterra, invece, si potevano aprire gallerie per far crollare le mura ed entrare all’interno di sorpresa. Tutti i componenti dell’attacco dovevano agire nello stesso momento.

Oltre che per battaglia, le fortezze venivano prese anche per sete e per fame. Il primo compito durante un assedio era, quindi, privare di acqua e cibo gli assetati. Per questo, si privilegiava l’estate, quando era più facile esaurire l’acqua e i nuovi raccolti non avevano ancora integrato le scorte precedenti. La privazione dell’acqua avrebbe così fatto desistere anche gli assediati più agguerriti. In questi casi, ciò che portava gli assediati a resistere era la speranza di ricevere soccorso esterno, almeno per il rifornimento di acqua e viveri, che avveniva solitamente di notte. In questi assedi, erano importanti le cosiddette bocche inutili, ossia persone rinchiuse nella fortezza che consumavano vivere senza però fornire validi aiuti alla resistenza, come donne e bambini. Per questo, spesso, gli assedianti se catturavano alcuni assediati, anziché ucciderli, li mutilavano e li rimandavano indietro in modo che consumassero più in fretta le scorte senza essere di aiuto alla difesa.

La conquista di una fortezza per battaglia, invece, imponeva l’uso di macchine da lancio e da assalto, come detto. Ma i mezzi da lancio avevano anche un forte effetto psicologico sugli assediati. Infatti, erano usati anche per lanci non convenzionali allo scopo di esercitare pressione psicologica, come ad esempio le teste di nemici uccisi o corpi di alcuni animali, in particolare asini, con intento di insulto e derisione. Per lo stesso scopo intimidatorio, si usavano anche il fuoco e rumori improvvisi, soprattutto di notte, e si faceva credere agli assediati che loro mura fossero sul punto di cadere perché minata.

Il modo più comune di impadronirsi di una fortezza per battaglia era la scalata, ossia l’avvicinamento di scale alle mura, con attacco protetto dal tiro di balestrieri, arcieri e frombolieri. Ma era un modo pericoloso e difficile se non attuato di sorpresa, pertanto questo tipo di attacco avveniva soprattutto di notte e nei luoghi più accessibili e meno sorvegliati. Si trattava di scale mobili smontabili: ogni uomo, in silenzio, ne portava un pezzo fin sotto il punto scelto nelle mura, dove ogni parte veniva assemblata. Spesso, in questo modo alcuni uomini potevano penetrare nella fortezza e aprire le porte al resto dell’esercito. L’attacco per scalata, però, poteva avvenire anche in presenza del nemico, con cui si dava vita ad audaci imprese. Nei casi, invece, in cui l’attaccante era in stato di inferiorità, si cercava complicità all’interno per penetrare con l’inganno e il tradimento. In particolare, l’inganno era molto usato nei casi di luoghi fortificati imprendibili senza un lunghissimo assedio che avrebbe richiesto un impiego sproporzionato di tempo, uomini e mezzi. Un esempio di inganno è quello usato da Roberto il Guiscardo, alla fine dell’XI secolo: si finse morto, chiedendo di essere sepolto in un monastero all’interno delle mura; il desiderio fu accolto ed egli durante il funerale si alzò, estrasse le armi e diede il segnale di attacco.

Ma gli assedi comportavano problemi anche per gli assedianti. Innanzitutto, era difficile assediare grandi città. Se poi l’assedio si prolungava più del previsto, il primo nemico dell’esercito era la noia che stancava i soldati, inducendoli a desistere dal loro intento. Inoltre, vi era la necessità di vettovagliare l’esercito per tutto il periodo dell’assedio e questa difficoltà costituiva spesso una speranza per gli assediati.

Dal canto loro, gli assediati rispondevano alle macchine da lancio con il tiro delle proprie artiglierie, utilizzavano fossati molto profondi e pieni d’acqua per prevenire lo scavo di gallerie e lanciavano o portavano fuori il fuoco contro i mezzi bellici nemici. Per lanciare il fuoco si usavano sifoni, frecce incendiarie; con le macchine da getto e le olle di terracotta, veniva lanciato materiale incendiario, come blocchi di metallo incandescente o miscele incendiarie. Esistevano tre tipi di fuoco per la guerra. Il fuoco semplice era costituito soltanto da legna, il fuoco artificiato comprendeva legna trattata con sostanze idonee ad agevolare o potenziare la combustione, come resina, pece bollente, grassi, zolfo, ecc. Poi vi era il cosiddetto fuoco greco, una speciale miscela incendiaria di difficile definizione che produceva un fuoco inestinguibile, poiché resistente all’acqua. In ultimo, gli assediati alle strette che però non intendevano arrendersi, ricorrevano alla fuga nella notte, che avveniva calandosi dall’alto delle mura o aprendo brecce alla loro base.

La presenza di numerose fortezze portò gli eserciti a evitare il più possibile (ma non sempre) le battaglie in campo aperto, dagli esiti più incerti. I comandanti preferivano operare di nascosto per cercare di sconfiggere i nemici lasciando incolumi i propri uomini, come fecero i comuni lombardi contro Federico II. Essi impedirono un combattimento libero in campo aperto chiudendo il passo all’esercito nemico in strettoie e ai passaggi dei fiumi. Una delle tecniche usate per ritardare la battaglia campale era il temporeggiamento. L’esercito, pur dichiarandosi pronto a combattere, in realtà si limitava ad aspettare che fosse l’altro a fare il primo passo. In questo modo, esibiva la propria forza con lo scopo di intimorire l’avversario: se lo scontro non avveniva era solo per la codardia dell’altro. Il tergiversare era poi dovuto anche alla divinazione astrologica, che serviva a scegliere il giorno e l’ora più favorevoli alla battaglia. Finché la battaglia si poteva evitare, veniva sostituita dalla parata in campo aperto, ossia dallo spiegamento delle proprie forze per intimorire il nemico, come fecero i Faentini nel 1207, i quali si disposero in una pianura, riuniti sotto le bandiere, invitando con gesti il nemico al combattimento. E la parata era usata anche davanti alle mura di città nemiche con lo scopo di provocare gli abitanti a uscire. Era quindi possibile affrontarsi senza battaglia, dimostrando la capacità di resistere di fronte al nemico e di operare davanti a esso senza che reagisse. Se quest’ultimo rifiutava apertamente di combattere o, dopo aver tergiversato, lasciava il campo, ammetteva la sconfitta. Spesso, quindi, l’ordinamento delle schiere era più importante del loro impiego sul campo, perché l’ordine, la compattezza e la disciplina potevano indurre il nemico a ritirarsi: l’esercito otteneva il risultato senza compromettere uomini e armi. Nella prima crociata, ad esempio, i guerrieri di Tancredi emersero da una valle davanti ai Turchi armati e inquadrati in modo perfetto: prima le punte delle lance, poi le aste, gli elmi, gli scudi e i torsi corazzati, finché non apparvero le sagome minacciose dei guerrieri a cavallo. Solo l’apparizione indusse i Turchi alla fuga. È quindi immaginabile la pressione psicologica che potevano avere sul nemico lo scintillare di armi e armature, i colori, la ricchezza dell’esercito, il numero di bandiere, le voci, il suono degli strumenti.

Ma come erano disposte le schiere? Innanzitutto, davanti, cavalieri e fanti non potevano superare i vessilli, che dovevano seguire rimanendone vicini; sul retro, invece, il limite era dato dalle insegne degli ufficiali guardaschiera. Poi, la posizione di ogni combattente corrispondeva a un ordine stabilito. Durante la marcia, dovevano procedere serrati, appena dietro alle bandiere, mentre in combattimento cavalieri e fanti erano disposti in righe, distanziate le une dalle altre, secondo quattro forme diverse. La forma quadrangolare giudicata la meno utile, quelle triangolari e a forbice, utili per attaccare un nemico numeroso, e quella rotonda, indispensabile per difendersi da un avversario più forte. Nelle prime righe di questi schieramenti, erano posti i combattenti meglio armati e più valorosi. Quanto all’addestramento delle reclute, avveniva direttamente sul campo di battaglia e durante le battagliole, in cui erano usate armi di legno e fitto lancio di pietre.

Bisogna ricordare, però, che cavalieri e fanti medievali non erano combattenti professionisti, ma uomini del popolo che venivano periodicamente sottratti (per qualche giorno o settimana) al lavoro quotidiano per affrontare una battaglia. Ciò rendeva molto problematico il mantenimento delle schiere davanti al nemico. Per questo gli statuti cittadini prevedevano disposizioni precisi in merito: nessuno poteva separarsi dalla schiera in vista del nemico, né poteva allontanarsi dalla battaglia, a pena di severe punizioni. In particolare, erano previste disposizioni severe per gli alfieri, ossia coloro che portavano le insegne, i quali non potevano mai ritirarsi dal combattimento, fuggire, né abbassare il vessillo. I disertori venivano puniti sul campo di battaglia, dovevano pagare multe salate, i loro nomi erano scritti (e le fattezze dipinte) nel palazzo comunale, con conseguente infamia ed esclusione perpetua dai pubblici uffici; in alcuni casi, si arriva fino all’amputazione del piede. Oltre che con le minacce di queste punizioni, l’esercito era mantenuto in riga anche con le percosse.

Un altro problema che angustiava i comandanti era il tempo migliore per muovere una campagna militare. Infatti, la temperatura doveva permettere di vivere all’esterno, le strade dovevano essere sgombre da fango e neve, gli animali dovevano trasportare foraggio fresco, mari e fiumi dovevano essere navigabili con sicurezza e le giornate dovevano essere lunghe a sufficienza. Pertanto, il momento migliore per iniziare una campagna era sicuramente la primavera e l’attività bellica si concentrava, solitamente, tra aprile e settembre. Ma l’estate poteva essere nociva, non meno dell’inverno, a causa di insolazioni, della polvere, della sete, della calura eccessiva, soprattutto sotto le armature, e degli insetti. Durante l’inverno, l’attività bellica era ridotta al minimo. Quanto al momento della giornata più propizio all’attacco, era l’alba perché vi era più possibilità di sorprendere un nemico non ancora pronto a difendersi. Di notte, invece, il combattimento era sospeso, sia per la stanchezza dei combattenti, sia per via del buio che impediva di riconoscere gli amici dai nemici. Tuttavia, durante la notte venivano svolte altre attività: la raccolta di informazioni negli accampamenti avversari, il sabotaggio di impianti nemici, la discussione di piani d’azione, la veglia in armi senza interruzione, lo spostamento di truppe, l’evasione di prigionieri e di guarnigioni assediate e, in generale, ogni genere di azione di sorpresa.

Fatti storici

I secoli d’oro di Firenze. Storia della città del giglio nei secoli XII-XVI

Firenze. La culla del Rinascimento. Patria di Lorenzo de’ Medici, Michelangelo Buonarroti, Filippo Brunelleschi. Una delle più belle città del mondo. Città ricca di Arte e di Storia, in cui il visitatore ha l’impressione di viaggiare nel tempo.

Uno splendore costruito in tre secoli, tra il XIII e il XVI. Nonostante sorga in un ambiente poco felice, in una conca umida, dalle estati roventi e dai gelidi inverni, Firenze ha saputo conquistarsi la gloria eterna. Non senza fatica, soprattutto quando, nel Medioevo, la costruzione della Via Francigena fuori dalla sua portata la estromesse dai traffici commerciali. Ma la città riuscì ad affermarsi comunque negli affari, in particolar modo nella lavorazione della lana.

Ma come è arrivata ai giorni nostri questa splendida città?

Florentia nacque in epoca romana, nel 59 a.C. come un insediamento modellato a castrum militare, ossia un quadrangolo cinto da mura in cui vivevano circa quindicimila abitanti, costruito sulle due grandi strade del cardo maximus e del decumanus, al cui incrocio c’era il Campidoglio (oggi piazza della Repubblica). Verso il 570 cadde in mano dei Longobardi, periodo in cui si costruì la via Francigena che metteva in comunicazione la pianura padana con Roma e che lasciò la città fuori dal suo corso. Iniziò, così, un periodo di buio per Firenze, che durò fino al IX secolo quando il favore di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana alleata di papa Gregorio VII contro l’imperatore Enrico IV, consentì l’affermazione della città e la sua crescita economica. Ma Firenze restava, in Toscana, un centro ancora modesto, in cui la manifattura e il commercio superavano di poco il livello della sussistenza. Così, nel XII secolo partì alla conquista del contado e all’assoggettamento dei castelli dei dintorni, i cui casati dei cavalieri detentori venivano obbligati a diventare cittadini e ad abitare all’interno delle mura. La classe dirigente della città si arricchì delle famiglie guerriere del contado, che potarono a Firenze le case-torri e i costumi di faida e violenza. Con il contado pacificato e sicuro, prosperarono le attività mercantili e, nel 1182, si costituì la prima organizzazione dei mercanti, chiamata Arte. I mercanti acquistavano i panni di lana e il materiale tintorio e li raffinavano nelle botteghe per poi esportarli a prezzi maggiorati. E fu così che alla manifattura si affiancò l’attività di prestito del denaro. Con la crescita economica, anche la popolazione incrementò, tanto che lungo le strade che dalle porte andavano verso la campagna si crearono dei borghi, in cui si insediavano i nuovi arrivati. Empori, opifici e nuove case torri crebbero fuori dalle mura.

Quanto all’aspetto politico, dopo la morte di Matilde di Canossa, le istituzioni cittadine decollarono, determinando un governo autonomo de facto, distaccato da quello del Sacro Romano Impero, a cui Firenze era fedele. Fu creato il collegio dei consoli, al quale si aggiungeva il parlamento, ossia l’assemblea generale dei cittadini, con la funzione di ratifica delle decisioni. Ma a governare tra i consoli erano sempre le famiglie aristocratiche, le quali avevano difficoltà a governare in modo collegiale. Questa fu la motivazione che determinò una tensione continua che sfociava in frequenti episodi di violenza. Firenze era un campo continuo di battaglia in cui ci si contendeva il potere, il predominio di una famiglia sull’altra. I gruppi parentali si riunivano in associazioni che avevano tra loro rapporti matrimoniali, di affari o di amicizia e che abitavano nella stessa zona della città, che veniva fortificata con un sistema di edifici collegati e coronati da torri alte settantacinque metri. Era la cosiddetta società delle torri, i cui caratteri principali erano l’uso delle armi, le case-torri (ispirate alla pratica di guerra del contado) e il diritto alla vendetta. Le lotte interne tra le famiglie assunsero presto connotazioni più ampie e la lotta tra impero e papato servì come alibi per mascherare le lotte interne.

Oltre alla rivalità tra le famiglie aristocratiche che si alternavano nella gestione del potere, vi era anche il malcontento di quelle famiglie che restavano al di fuori delle consorterie e che ambivano a entrarvi o a rovesciare i meccanismi di potere. I primi furono gli Uberti che, nella seconda metà del XII secolo, si scagliarono contro il regime consolare, il quale si rivelò incapace di contenere queste ribellioni e che fu, perciò, abolito e sostituito con il regime podestarile. Il potere esecutivo venne quindi affidato a un magistrato forestiero, al quale si affiancarono un consiglio ristretto e uno allargato di cui facevano parte i capi delle Arti (ossia delle associazioni professionali). Il podestà doveva essere di condizione cavalleresca, buon capitano di guerra e avere conoscenze giuridiche, le quali si conseguivano all’università, frequentata solo dai membri delle famiglie aristocratiche; il podestà era, perciò, sempre un aristocratico. Con il consiglio allargato, però, entrarono nel panorama politico anche gli esponenti del Popolo, membri delle corporazioni. Prima fu l’Arte della Calimala (dei mercanti), poi fu la volta di quella del Cambio (banchieri), della Lana, della Seta e altre.

Nonostante l’ingresso del Popolo nel governo, gli scontri tra le fazioni non si attutirono e, nel 1216, l’incidente tra i Buondelmonti e i Fifanti polarizzò le antiche inimicizie in un sistema binario, che divenne la faida tra guelfi e ghibellini. Le scelte degli Uberti diedero agli schieramenti una connotazione ultra-cittadina: la loro fedeltà all’impero fece chiamare ghibellino il loro partito, al quale si contrappose quello dei guelfi, che significava generalmente anti-ghibellino e che, poi, passò a indicare i sostenitori del papa. A questi scontri, però, non partecipava il Popolo, anche se ne era coinvolto, soprattutto perché i popolani più alti che ambivano a una vita aristocratica e alcune famiglie di illustri natali ma di poco denaro, si imparentarono tra loro creando un nuovo ceto: i magnati. Nonostante l’instabilità politica, il moltiplicarsi delle attività economiche richiamò a Firenze una selva di uomini che andarono a incrementare la manodopera di opifici e botteghe e che costruirono nuovi borghi, dagli assetti miserabili e dalla posizione malsana, soprattutto a causa di zone paludose e inquinate. Al loro soccorso arrivarono gli Ordini mendicanti che si posizionarono in diversi punti della città, ognuno attorno a una piazza con la rispettiva chiesa: francescani, domenicani, serviti, carmelitani e agostiniani.

Gli scontri tra guelfi e ghibellini si intensificarono e ad essi si affiancarono le lotte con i grandi nobili del contado, quelle con le altre città (soprattutto Pisa e Siena) e quella contro i catari, svolta dall’Inquisizione gestita dagli Ordini mendicanti. Nel 1250, il partito ghibellino che governava la città venne rovesciato da un’insurrezione guelfa e le grandi famiglie che lo avevano appoggiato furono mandate in esilio, dando vita al periodo detto “del Popolo Vecchio”. L’assetto istituzionale mutò di nuovo e venne formato da due parti: da un lato il comune, guidato dal podestà, e i due consigli, dall’altro il Popolo guidato dal Capitano, forestiero e cavaliere, affiancato da altri due consigli (dei dodici, eletto dalle compagnie militari, e dei ventiquattro, di cui facevano parte i consoli delle Arti). Negli anni di questo governo guelfo fu riorganizzata la milizia, vennero create le nuove circoscrizioni, i sestieri, fu costruito il palazzo del Popolo (il Bargello), venne presentato il fiorino.

Ma circa dieci anni dopo, la battaglia di Montaperti, sfociata a causa del rifiuto della città di accettare l’egemonia di Manfredi di Svevia (che volle assoggettare la Toscana all’Impero), causò una crisi di governo. Nella battaglia, infatti, l’esercito guelfo fu sterminato, dando modo ai ghibellini esiliati di tornare in patria e di darsi a feroci vendette. Il governo di Firenze tornò nelle mani del partito ghibellino, guidato da Farinata degli Uberti. Non durò a lungo. Nel 1266, la caduta di Manfredi nella battaglia di Benevento e la conseguente vittoria di Carlo d’Angiò, sostenuto da papa Urbano IV, fece cadere i ghibellini. Tuttavia, alcuni pontefici successivi, in particolar modo Niccolò III, cercarono di arginare il potere di Carlo e favorirono alcuni ghibellini, i quali tornarono a Firenze, in un precario equilibrio con il governo guelfo. Questo assetto delicato portò il Popolo a premunirsi per non essere cacciato di nuovo dal potere, così i maggiorenti delle Arti della Calimala, del Cambio e della Seta ottennero che i loro rappresentanti affiancassero il governo comunale. Fu istituito il collegio dei sei priori delle Arti (uno per ogni sestiere) e venne riconosciuto il diritto delle Arti maggiori e mediane di avere un capo, detto gonfaloniere, un consiglio e dei reparti armati, e il diritto per i capi delle Arti di entrare nel consiglio del podestà. Era la vittoria di imprenditori e banchieri che erano riusciti a creare un governo in cui le associazioni professionali avevano una voce forte.

Tuttavia, questo nuovo governo popolano non piaceva ai membri dell’antica aristocrazia cavalleresca e alle famiglie che con loro si erano imparentate. Si creò, così, un conflitto sociale tra i magnati (ossia, non solo gli aristocratici, ma anche chiunque potesse attentare alla supremazia del Popolo nel governo cittadino grazie a ricchezza e prestigio) e il Popolo. I primi cercarono di recuperare lo svantaggio politico alimentando la guerra contro i ghibellini che era rinata nel 1288 e che portò, con la battaglia di Campaldino dell’anno successivo, a una nuova ascesa delle famiglie guelfe magnatizie (ricche). Ma contro di esse, nacque un movimento popolano volto sottrarre loro il potere, che portò all’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293, ossia una serie di norme che stabilirono l’impossibilità di essere eletti come priori o membri dei consigli per i magnati. Il Popolo voleva evitare che le famiglie ricche potessero, attraverso il prestigio, il peso politico e il denaro, attentare alla sua supremazia nel governo. Tuttavia, l’alleanza con il papa delle famiglie guelfe portava grande afflusso di denaro alle banche fiorentine, pertanto i guelfi andavano in qualche modo tollerati. Gli Ordinamenti vennero così emendati due anni più tardi, permettendo ad alcuni magnati di accedere alle Arti e, perciò, al governo.

A garanzia di questo nuovo assetto di governo, per impedire che i magnati guelfi approfittassero della loro posizione nei consigli, fu posto il gonfaloniere di giustizia, un magistrato supremo del collegio dei priori. Si formò così una élite composta da antiche famiglie e nuovi ricchi che aspiravano alla vita aristocratica e che si proponevano come banchieri e appaltatori di tasse, riunendosi in compagnie, ossia società bancarie e commerciali che prendevano il nome dalla famiglia che contava di più. All’inizio del Trecento non esistevano più le consorterie di famiglie guelfe e ghibelline, ma le compagnie di ricchi pronti a egemonizzare il governo delle Arti. Esse gestivano anche i depositi di speculatori stranieri e degli istituti ecclesiastici, nonché il prestito internazionale di importanti somme.

La lotta politica, però, non si era attenuata. Dopo Campaldino, il partito guelfo si era scisso in due fazioni: la famiglia dei Cerchi guidava i guelfi bianchi, mentre i Donati, guidavano i guelfi neri. Nel 1302, i guelfi neri uccisero ed esiliarono i bianchi, ma una serie di problematiche tra loro e con i ghibellini portò, nel 1325, il Popolo Grasso (ossia i membri delle famiglie più influenti) a chiedere aiuto al re di Napoli, il quale affidò la signoria di Firenze a suo figlio Carlo d’Angiò per dieci anni.

Si chiuse, così, uno dei periodi più splendidi per la vita artistica, urbanistica e culturale della città, nel quale Arnolfo di Cambio fu protagonista. Firenze era diventata una delle città più popolose dell’Occidente, erano stati costruiti una nuova cinta muraria, il palazzo dei Priori (Palazzo Vecchio), il battistero, la basilica di Santa Maria del Fiore. Era stata la Firenze di Dante, Cimabue e Giotto.

A metà del Trecento, le compagnie fiorentine prestavano denaro ai papi, ai re di Francia e Inghilterra e a tutti i signori d’Europa; le botteghe raffinavano il 10% di tutti i panni di lana prodotti in Occidente. Banca, commercio e manifattura si sostenevano a vicenda. Calimala, Cambio e Lana dominavano la città. Eppure, l’avvio della guerra dei Cent’anni portò all’insolvenza del re inglese Edoardo III, a cui le compagnie avevano concesso ingenti prestiti, e molte di esse fallirono, prostrando la città. La situazione era difficilissima. Per un breve periodo, la signoria fu affidata a un nobile francese (che venne poi abbattuto con una serie di congiure), nella speranza di rimediare alla situazione di emergenza. Dopo la sua cacciata, la signoria tornò nelle mani del Popolo Grasso e i suoi organi fondamentali furono il gonfaloniere, gli otto priori, il consiglio dei Buoniuomini (degli anziani) e quello dei sedici, i gonfalonieri di compagnia. Tuttavia, le difficoltà politiche ed economiche avevano determinato una fase di rallentamento in tutti gli aspetti della vita cittadina, aggravati anche dall’epidemia di peste del 1348. La città fu flagellata, poi, da annate di grave carestia e da frequenti passaggi delle Compagnie di Ventura e questo stato di cose provocò agitazioni dei ceti subalterni, che vivevano in condizioni miserabili, come il tumulto dei Ciompi del 1378. I ciompi, ossia i sottoposti all’Arte della Lana, si rivoltarono per ottenere salari e condizioni di vita migliori, nonché il riconoscimento giuridico e istituzionale del loro stato. Questa rivolta portò alla creazione di tre nuove Arti, dei ciompi, dei farsettai e dei tintori.

Tuttavia, pochi anni dopo, il Popolo Grasso ristabilì un ordine oligarchico, in cui i protagonisti erano gli Albizzi, i quali smantellarono gli schieramenti famigliari opposti, finché la lotta si radicalizzò tra gli Albizzi, che rappresentavano la vecchia oligarchia, e i Medici, capi della compagnia della Calimala, a cui guardavano i nuovi cittadini e gli esponenti di Arti mediane e minori. A questa lotta si legò l’istituzione del catasto, ossia il sistema organico di tassazione basato sui capitali e sui redditi mobili e immobili. Esso sovvertiva il precedente sistema basato su imposte indirette e tasse sul patrimonio, in cui la finanza pubblica si reggeva sui dazi alle merci e ai comuni. Con il catasto, si andò ad attingere ai forzieri delle grandi famiglie e il primo sostenitore del nuovo sistema fu Giovanni de’ Medici. Egli si inimicò, così, ancor di più gli Albizzi che, a quel punto, erano obbligati a pagare.

Quando Giovanni morì, la guida della compagnia e della fazione medicea passò al figlio Cosimo, con il quale iniziò la fortuna politica della casata. Egli, infatti, nonostante l’avversione di Rinaldo degli Albizzi che riuscì a farlo incolpare di fallimento e a farlo esiliare, godeva del pieno favore della signoria. Fu un grande mecenate e un abile banchiere e politico. Alla sua morte, gli succedette il figlio Piero, anch’egli abile in affari e politica, ma di salute cagionevole. Dopo cinque anni, morì lasciando il comando ai giovani figli Lorenzo e Giuliano. Se Giuliano restò un po’ nell’ombra, Lorenzo il Magnifico fu un grande statista e diplomatico, un cultore delle lettere e ottimo mecenate, ma purtroppo non era abile negli affari e, sotto la sua guida, fallirono alcune filiali del banco mediceo. In questo periodo, Firenze non crebbe né in popolazione né in perimetro urbano, ma si arricchì di magnifiche opere d’arte e visse in un’atmosfera allegra e giocosa, grazie all’incoraggiamento del Medici alle feste.

Due anni dopo la morte di Lorenzo, nel 1494, il banco dei Medici fallì e suo figlio Piero, che ne aveva preso il posto, fu cacciato dalla città per non essersi opposto alla discesa delle truppe del re francese Carlo VIII. Firenze visse, così, quattro anni di lotte tra i seguaci del frate domenicano Girolamo Savonarola (i “piagnoni”) e i suoi avversari (gli “arrabbiati”, sostenitori di una repubblica oligarchica, e i “palleschi”, sostenitori del ritorno dei Medici). Savonarola voleva una città purificata dal peccato, con un regime popolare guidato dal Consiglio Maggiore, predicava la penitenza, fomentando roghi degli oggetti di lusso. Ma il suo predicare non piaceva a papa Alessandro VI Borgia che lo scomunicò e lo condannò a morte per eresia.

Caduto il domenicano, la Repubblica resuscitò con la creazione del gonfaloniere a vita, nella persona di Pier Soderini. Ma la repubblica (celebrata dal David che Michelangelo scolpì in questi anni) si appoggiava alla corona di Francia e, nel clima europeo caratterizzato dalle guerre tra Francia e Spagna, non durò a lungo. Infatti, nel 1512 un esercito spagnolo riportò in città i Medici e Firenze cadde in mano a un altro figlio del Magnifico, il cardinale Giovanni de’ Medici, e l’anno successivo passò al fratello Giuliano, duca di Nemours, quando il primo fu eletto papa Leone X. Nel 1516, alla morte di Giuliano, il governo passò al figlio di Piero (che era stato cacciato), Lorenzo duca d’Urbino, il quale però morì due anni dopo. Il governo allora toccò a suo figlio Alessandro e al cugino, il cardinale Ippolito (figlio di Giuliano di Nemours). Grazie ai posti occupati nello stato pontificio da Leone X prima e da Clemente VII poi (al secolo, Giulio de’ Medici, figlio del fratello del Magnifico, Giuliano), l’economia di Firenze rifiorì. Ma nel 1527, quando Clemente VII si alleò con la Francia contro Carlo V che saccheggiò Roma, Firenze insorse e cacciò nuovamente i Medici: il popolo non avrebbe più tollerato un sovrano. Il papa, però, non era felice di questo nuovo esilio, così, dopo la riappacificazione con Carlo V, gli chiese di riportare l’ordine nella sua città. I fiorentini resistettero per undici mesi agli assalti dell’esercito spagnolo, con Michelangelo in prima fila a dirigere i lavori di fortificazione. Tuttavia, dovette arrendersi, ma l’ardore popolare dimostrato dalla città fece capire al papa che serviva qualcosa di più forte dei meccanismi politici con cui avevano governato in precedenza. Così, nel 1532, Firenze fu trasformato dall’imperatore in ducato e la corona fu affidata ad Alessandro figlio di Lorenzo di Urbino. Cinque anni dopo, egli fu assassinato, estinguendo la discendenza diretta di Cosimo. Il ducato, allora, passò a un esponente del ramo cadetto della famiglia, Cosimo I, figlio di Giovanni dalla Bande Nere. Cosimo governò con saggezza e creò uno stato toscano uniforme, con fortezze e regge in tutta la Toscana di cui divenne granduca, grazie alla nomina pontificia a granducato. Avviò grandi lavori di bonifica, sviluppò l’urbanistica, favorì il porto di Livorno, fondò l’Ordine di Santo Stefano per combattere i pirati, trasferì la corte a Palazzo Pitti, creò l’Accademia fiorentina e quella della Crusca. Furono gli anni del Giambologna e di Benvenuto Cellini, dell’Ammanati e di Vasari. Anni che chiusero i secoli d’oro di Firenze, quelli in cui fu costruito e realizzato tutto ciò che, oggi, migliaia di turisti da tutto il mondo vengono a vedere con i propri occhi.

D’ora in avanti, quando passeggerete per le strade di Firenze, fermatevi un secondo e provate a tendere l’orecchio. Vi sembrerà di sentire le urla del popolo durante gli scontri tra i guelfi e i ghibellini, il tintinnare dei fiorini sui banchi delle famiglie di banchieri, le prediche di Savonarola, il rumore degli scalpelli sul marmo. Vi sembrerà di scorgere Michelangelo davanti a Palazzo Vecchio, intento a controllare il suo David (che oggi è custodito alla Galleria dell’Accademia), o Lorenzo il Magnifico che varca il portone del suo palazzo in via Larga (oggi è via Cavour).

Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Primo appuntamento: Guglielmo il Maresciallo e i cavalieri medievali

Molto di ciò che conosciamo a proposito della cavalleria medievale è dovuto a una canzone, un poema, scritto dopo la morte di uno dei più grandi e importanti cavalieri della Storia: Guglielmo il Maresciallo. Il maresciallo, conte di Pembroke, era considerato già dai suoi contemporanei il migliore cavaliere del mondo, emblema della cavalleria stessa, uomo che si è creato da solo la propria fortuna, cavaliere dalla carriera esemplare: da scudiero di Guglielmo signore di Tancarville, in Normandia, a tutore del re Enrico il Giovane, per finire reggente del Regno d’Inghilterra per conto del novenne Enrico III, che lo portò ad essere uno degli uomini più potenti dell’Occidente all’inizio del XIII secolo.

Ripercorriamo questa carriera sfolgorante.

Personaggio dalla genealogia pressocché sconosciuta, probabilmente nipote di uno degli avventurieri che seguirono Guglielmo il Conquistatore, da bambino, il Maresciallo fu mandato dal padre in Normandia, dal signore di Tancarville, feudatario del re d’Inghilterra, per essere educato da guerriero. Era, infatti, figlio cadetto a cui non sarebbe spettata alcuna eredità: la scelta era tra la strada del mondo o la carriera ecclesiastica. Divenuto cavaliere, dimostrò grande valore bellico, sia per audacia che per tecnica, e iniziò a partecipare ai tornei, in cui perfezionò il suo apprendistato e nei quali si distinse sempre più. Una volta affermato, tornò in Inghilterra, ma non nella famiglia d’origine, bensì in quello dello zio materno, Patrizio conte di Salisbury, intimo di re Enrico II. E questa fu la sua prima fortuna. Infatti, la consorte di Enrico, la regina Eleonora d’Aquitania, colpita dal rispetto e dalla capacità di sacrificio che Guglielmo aveva dimostrato in un’occasione, lo inserì tra i cavalieri del suo seguito. Il giovane divenne così membro di una corte reale. Due anni dopo, nel 1170, poi, un altro grande passo per la sua carriera. Enrico II, infatti, incoronò re il figlio quindicenne, Enrico il Giovane. Ma questi, maggiorenne solo da un anno, non ancora cavaliere, aveva bisogno di una guida, un istruttore d’armi. Il padre scelse proprio Guglielmo come mentore del figlio, mettendolo al vertice dei cavalieri della casa reale. Diventò così maestro del suo signore. Aveva il giovane re nelle sue mani. Per tenere il figlio occupato, Enrico II ne sostenne le imprese cavalleresche, che si tradussero nel continuo vagabondare per tornei. L’esperienza e la bravura di Guglielmo furono qui fondamentali, tanto che gli valsero l’amore del giovane re. Addirittura, Enrico il Giovane gli chiese di armarlo cavaliere. Un compito importantissimo che sarebbe spettato, in teoria, a un altro re, probabilmente Luigi VII di Francia, suo signore feudale. La posizione di Guglielmo si elevò ulteriormente, grazie anche all’intimità con il re, che però gli procurò molte invidie tra gli altri cavalieri, i quali ordirono una congiura ai suoi danni. Le voci di un suo rapporto adulterino con la moglie del re, Margherita, gli fecero perdere l’affetto del sovrano, così abbandonò la corte per riprendere i tornei, nei quali era ambito e conteso. Quando, però, Enrico il Giovane entrò in guerra contro il padre, lo richiamò a corte. Tuttavia, poco tempo dopo, il re morì e Guglielmo ne eseguì l’ultima volontà, partendo per la Crociata al suo posto. Quando tornò, entrò nel seguito di Enrico II per fronteggiarne l’altro figlio, Riccardo, che gli muoveva guerra. Durante uno scontro, coprì la ritirata del suo re (che poco dopo morì), umiliando Riccardo abbattendone il cavallo, il quale lo accusò di avere tentato di ucciderlo. Tuttavia, il nuovo re, Riccardo Cuor di Leone, lo perdonò, gli concesse in sposa una ricchissima nobile e lo inserì nel suo seguito. Grazie al matrimonio con Isabella di Clare, Guglielmo divenne signore potentissimo e vassallo del re. Quando Riccardo partì per la Crociata, il Maresciallo rimase in Inghilterra a sorvegliare il fratello del re, Giovanni Senza Terra, che divenne re a sua volta alla morte di Riccardo nel 1199. Ma fu nel 1216 che Guglielmo raggiunse l’apoteosi. Prima di morire, Giovanni gli affidò la tutela del figlio Enrico di nove anni, salito al trono come Enrico III d’Inghilterra. Guglielmo il Maresciallo, diventò così uno degli uomini più importanti dell’Occidente. Tre anni dopo, morì.

Come dicevamo all’inizio, alla sua morte, nel maggio del 1219, il suo primogenito commissionò a un troviero, tal Giovanni, la realizzazione di una canzone che narrasse la vita e le gesta del genitore. Giovanni il Troviero impiegò sette anni per raggiungere il suo scopo. In centoventisette fogli di pergamena e in quasi ventimila versi, egli restituì il Maresciallo alla memoria, basandosi su fonti precise e, in particolar modo, sulla testimonianza diretta di Giovanni d’Early, persona molto vicina al defunto signore di Pembroke. Giovanni era stato, infatti, il suo fido scudiero che, anche una volta divenuto cavaliere, mai si era separato dal Maresciallo e lo aveva servito per trentun anni, divenendone quasi l’alter ego. Nella canzone del troviero, intitolata “Storia di Guglielmo il Maresciallo, conte di Striguil e Pembroke, reggente di Inghilterra” Giovanni d’Early racconta ciò che ha visto con i propri occhi e ciò che il suo signore gli raccontava, facendo risplendere i ricordi personali di un cavaliere contemporaneo di Eleonora d’Aquitania. E, grazie a questi ricordi, la canzone diviene preziosa testimonianza dell’epoca cavalleresca, nonché la più antica biografia scritta in lingua anglonormanna. Questo testo è fondamentale per la comprensione della cavalleria medievale, perché in esso ne emergono i principi, i tabù, le liturgie, le aspirazioni. Attraverso gli episodi della vita del Maresciallo, infatti, gli storici hanno potuto ricostruire i principi, il costume e l’ideologia di quella società guerriera.

Dalla scarsissima presenza di donne all’interno del poema (solo tre accenni), si intuisce come fosse un mondo maschile, in cui solo gli uomini contavano. Un episodio ci racconta come erano considerate le donne nella mentalità cavalleresca. Guglielmo, seduto nell’erba a riposare, viene svegliato dalla voce di una dama, verso la quale si precipita. Scopre che è accompagnata da un bel monaco, con cui la fanciulla sta scappando. Il nostro cavaliere si preoccupa che abbiano denaro sufficiente e il monaco gli mostra una borsa piena di monete che metterà in rendita in una grande città. Vivranno di usura, dunque! Nel peccato. Guglielmo fa sequestrare i denari e manda al diavolo i due amanti. La morale del cavaliere imponeva di correre al soccorso delle donne nobili di nascita quando erano in pericolo, ma al pari gli vietava di obbligare una donna con la forza; in amore, doveva rispettarne la volontà. Tuttavia, la cavalleria voleva tenere per sé tutte le donne del suo sangue, vietando ai maschi di ogni altra condizione di prenderle. Pertanto, le donne che non rifiutavano l’amore di chiunque non fosse cavaliere, meritavano il rogo, ma il cavaliere non si sentiva in diritto di alzare la mano su di lei o sul suo amante. Questo episodio mostra anche come il cavaliere disprezzasse l’usura (che era bandita dalla Chiesa): l’uomo di qualità guadagnava con la sua audacia, impadronendosi del bottino a rischio della vita e non approfittandosi delle difficoltà altrui.

Il modo in cui Guglielmo reagisce alla calunnia dei congiurati, che lo additavano come amante della regina Margherita, ci mostra come la verità e l’onore fossero più importanti della vita stessa. Egli, infatti, si offrì di andare a duello, di prestarsi all’ordalia, in cui Dio avrebbe distinto il colpevole dall’innocente. Pronto a sfidare i tre campioni più valorosi, avrebbe accettato la pena di morte in caso non li avesse sconfitti tutti. Anche gli uomini, però, non sono tutti uguali. Per il cavaliere contano solo i cavalieri e solo i nobili, soltanto i combattenti designati da Dio.

E i figli dei cavalieri? Contava solo il primogenito, e nemmeno poi molto. Lo capiamo quando il Torniero racconta dei tempi in cui il padre di Guglielmo, Giovanni, osteggiava re Stefano. Durante un assedio, il re chiese una garanzia alle trattative: voleva in ostaggio un figlio di Giovanni. Questi, scelse proprio Guglielmo, il quartogenito, ma ciò non gli impedì di rafforzare le difese, mettendo il figlio in pericolo, che venne minacciato di impiccagione. Come rispose il padre? “Possiedo ancora incudine e martello per farne uno più bello”. Inoltre, i figli dei cavalieri lasciavano presto la casa paterna, per iniziare l’apprendistato, per non farvi più ritorno, ad eccezione dei primogeniti. Intorno agli otto, dieci anni venivano separati dalla madre e da tutte le donne del loro sangue, per essere catapultati in un mondo fatto di cavalcate, scuderie, armi e divertimenti da uomini, in cui il signore diventava il nuovo padre, fino a cancellare la memoria di quello vero. Un padre fittizio che rimarrà tale soltanto fino al termine dell’apprendistato, ossia all’investitura a cavaliere, quando i novelli cavalieri non venivano più mantenuti dal signore, ma dovevano partire alla ricerca del proprio destino. Con la vestizione, il cavaliere diventava uomo e in quel momento iniziavano la libertà e il pericolo. Soprattutto, per i figli cadetti, i quali partivano senza nulla, senza quell’equipaggiamento che il padre forniva al primogenito per far risplendere la casata.

Così, il neocavaliere partiva alla volta del mondo e ciò voleva dire anche andare per tornei. Non tanto per prestigio, come facevano i primogeniti, quanto per guadagnare, per crearsi una possibilità di vita. Vincere. Questo era l’obiettivo di ogni cavaliere, per migliorare l’equipaggiamento, per partire in posizione migliore nei tornei successivi. E ognuno doveva avere il proprio seguito, perché colui che cavalcava senza compagnia faceva la figura del povero o dell’esiliato, in quanto la solitudine, nel Medioevo, era vissuta con dolore, come una penitenza.

E Guglielmo il Maresciallo fu molto abile a diventare, in poco tempo, l’idolo dei tornei, ma fu un episodio di vera battaglia che gli portò la prima grande fortuna. Quando, tornato in Inghilterra, si aggregò alla famiglia dello zio materno, il conte di Salisbury, lo seguì a Poitou, nella scorta della regina Eleonora d’Aquitania. Qui, lo zio fu colpito a morte alle spalle da uno dei baroni ribelli. Tradimento! Il barone aveva infranto due morali: quella del cavaliere, che vietava di non uccidere i cavalieri e, soprattutto, non di spalle, e quella feudale che condannava il vassallo che colpiva il suo signore. L’eroico Guglielmo vendicò il delitto, anche seguendo la morale del lignaggio, che prevedeva di lavare l’offesa arrecata alla sua famiglia nel sangue del nemico. Si lanciò a capo scoperto, contro sessantotto guerrieri armati di spiedi; uccise sei dei loro cavalli, ma fu colpito alla coscia e portato via gravemente ferito. Fu qui che si vide il valore del cavaliere! Non stava giostrando, non aveva agito per la gloria o per il bottino, ma aveva affrontato il male, rischiando davvero la vita. Aveva vendicato lo zio, ma anche il re, di cui il conte era luogotenente. E la regina lo inserì tra i suoi cavalieri.

Ma quali erano le virtù del cavaliere? Erano di tre tipi. La fedeltà. Tenere fede alla parola data, non tradire i giuramenti e porre, davanti a esigenze contrastanti, la fedeltà al diretto signore. La prodezza. Combattere e vincere, conformandosi alle leggi, perché il cavaliere non combatteva come i villici. “Il prode non cerca altra protezione oltre la bravura del suo cavallo, la qualità della sua armatura e la devozione dei compagni del suo rango, la cui amicizia lo protegge. L’onore lo obbliga a mostrarsi impavido, fino alla follia.” La liberalità. Tutto ciò che arrivava nelle mani del cavaliere, lui lo regalava; non teneva nulla per sé, doveva essere generoso. Anche se quest’ultima virtù si scontrava con la realtà che vedeva indispensabile il denaro per l’equipaggiamento che si logorava velocemente, soprattutto per i cavalli che si perdevano nei tornei, che si rovinavano nelle cariche o morivano, così come era necessario al mantenimento del rango. E il cavaliere era logorato, ogni giorno, dall’eterno dilemma: il denaro è indispensabile all’onore, ma l’onore esige di disprezzarlo.

Ma torniamo ai tornei. Guglielmo visse in un periodo in cui il fanatismo per questo sport era al culmine, uno sport che non si praticava ovunque, ma soprattutto in Francia. Il torneo più riuscito fu quello di Lagny, a cui parteciparono tremila cavalieri, ognuno con il proprio seguito, oltre ad alcune compagnie di mercenari di umili origini che, nonostante fossero disprezzati, erano molto usati perché abile nel maneggio di armi ignobili (picche e ganci). I tornei, ai quali non partecipavano i re (a eccezione di Enrico il Giovane), ma che erano organizzati dai baroni, erano annunciati con quindici giorni di anticipo e si svolgevano durante tutto l’anno, con alcune interruzioni dovute alla pioggia (che rovinava usberghi e cotte di maglia) e per la Pasqua, Pentecoste e Ognissanti. Per la diffusione della pubblicità erano fondamentali gli araldi, ossia quei professionisti dell’identificazione dei cavalieri attraverso le insegne araldiche, capaci anche di comporre canzoni con le quali esaltavano i cavalieri e le casate. I giocatori arrivavano al campo di battaglia raggruppati in bande (per i cavalieri erranti) e in corpi (per le grosse casate). I baroni, poi, formavano le due grandi squadre dell’incontro, il quale era preceduto da un mercanteggiare per il reclutamento dei grandi campioni. La partita si giocava in una giornata, in due campi, in campagna. Il campo non aveva limiti precisi, oltre alle lizze, ossia barriere che delimitavano dei rifugi in cui i combattenti potevano riprendere fiato per qualche momento. Vi erano degli ostacoli accidentali, come boschetti, monticelli di terra o granai, che rendevano il gioco più interessante perché utili per tendere imboscate o scappare. Il torneo iniziava quando un gruppo avanzava verso l’altro, cercando di restare il più compatti possibile, perché l’obiettivo era quello di sfiancare e sfondare l’altra squadra. La vittoria, quindi, dipendeva dalla disciplina e dall’autocontrollo, più che dall’impeto. Si giocava solo per l’onore. Ci si andava come in guerra per impadronirsi di armi, cavalli e uomini. Il gioco nel torneo consisteva nel fare prigionieri e il modo migliore era quello di disarcionare l’avversario con un colpo di lancia. Ed era necessario colpirlo alla testa, in quanto ogni cavaliere sapeva tenersi saldamente in sella. Una volta a terra, l’avversario veniva trascinato in spalla (schivando i suoi compagni di squadra che lo difendevano) al margine del campo e la cavalcatura era conquistata. Il torneo terminava quando una delle due squadre era sparpagliata o quando si decideva di smettere e si attribuiva la vittoria ai punti. A questo punto, il torneo diventava una festa: si commentava il gioco, ci si medicava le ferite, si redigeva l’albo d’oro dei giocatori e si distribuiva il bottino; gli araldi sarebbe spettata la pubblicità.

Ma non era il denaro a contare davvero in quella società. Era il potere ad avere importanza. E il potere, quello vero, era esercitato dagli uomini sposati. Dopo la vestizione, ossia la consegna della spada, la nomina a cavaliere (che avveniva dopo i vent’anni), il giorno delle nozze era il secondo vero spartiacque della vita del cavaliere. Se è vero, infatti, che l’uomo valeva molto più della donna, è altrettanto vero che l’uomo non valeva quasi nulla se non aveva una legittima moglie. L’ordine del potere nella società feudale era basato sulla disuguaglianza, sul servizio e sulla lealtà. I gentiluomini erano al di sopra di tutti i laici, ma tra di loro vi erano delle differenze di potere: il capofamiglia dominava sulla casata, il primogenito era favorito rispetto ai cadetti, il signore stava al di sopra di chi gli aveva reso omaggio e i rapporti politici erano basati sulla gerarchia degli omaggi. Questi rapporti, a volte, interferivano gli uni sugli altri e i conflitti erano risolti con l’amicizia reciproca che obbligava a rendersi servigi e ad aiutarsi. In questo modo si manteneva la pace tra pari e impegnava chi stava al di sotto alla reverenza e chi stava al di sopra alla benevolenza. Il matrimonio poteva cambiare le posizioni di potere, proprio come accadde a Guglielmo che, sposando Isabella (che portò in dote ben sessantotto feudi!), passò da semplice cavaliere a barone reale. Questo significò farsi amicizie estese, guadagnare appoggi e mettere le spalle al sicuro da gelosie e rivalità, anche grazie ai matrimoni che combinò per i suoi figli.

Molto probabilmente tutto ciò non lo avremmo conosciuto se Guglielmo il Maresciallo non fosse esistito e suo figlio non avesse deciso di renderlo eterno facendo comporre un poema in suo onore.

REVIEW PARTY, Romanzo storico

“Tre insoliti delitti” di Matteo Strukul – Review party

“Stanotte sarò io a uccidere il diavolo. Oppure sarà lui a strapparmi l’anima.”

Bari, metà dicembre 1199. Il cavaliere templare Kaspar Trevi arriva a Bari. Il reggente del Regno di Sicilia, Marcovaldo di Annweiler, lo fa convocare per affidargli un’importante missione. Insieme al vescovo di Troia, Gualtiero di Palearia, chiede al monaco guerriero di trovare una donna e consegnarla alla giustizia. Filomena Monforte, fervida sostenitrice di Costanza d’Altavilla, la precedente reggente, è accusata di stregoneria e dell’omicidio del nobile Giuseppe Filangeri. Kaspar non può rifiutare l’incarico, così parte per una lunga e sanguinosa ricerca che lo porterà ad attraversare Bari, Roma e Venezia. Riuscirà nell’impresa?

Questa è la trama del nuovo romanzo di Matteo Stukul, “Tre insoliti delitti”, edito da Newton Compton Editori, un thriller storico cupo che ci porta nei meandri del Medioevo.

Siamo alle fine del XII secolo e il regno di Sicilia è guidato da Marcovaldo di Annweiler. La vedova di Enrico IV di Svevia, Costanza d’Altavilla, è morta da un anno e il nuovo re, Federico II di Hohenstaufen, è solo un bambino. Marcovaldo ne è il reggente, il curatore degli interessi del re infante. Eppure, si comporta come se fosse il legittimo sovrano. E proprio per questo, insieme a Gualtiero di Palearia, vescovo di Troia e Gran Cancelliere del Regno di Sicilia, suo braccio destro, vuole assicurarsi che la legge venga rispettata. In questo contesto storico, l’autore fa partire l’avventura del protagonista, un personaggio di fantasia dalle splendide tinte gotiche.

Mescolando, così, con maestria personaggi realmente esistiti e personaggi inventati, in un contesto preciso e fedele, l’autore ci porta dentro a un’avventura avvincente. Una lotta contro il tempo, intrisa di sangue e mistero, in cui un ruolo primario è dato alla figura di San Nicola, e che racconta il Natale in chiave medievale. Una storia in cui Strukul non manca di sottolineare la condizione della donna nel Medioevo, l’alone di sospetto che le circondava, la debolezza della loro posizione, facilmente attaccabile con qualsiasi pretesto. Un romanzo che intreccia il genere cavalleresco, la religione, la mitologia e la demonologia; in cui la fantasia si fonde in modo perfetto con la Storia, con un protagonista forte e impavido, giusto e leale, che incarna l’archetipo dell’eroe. Pregevole è, poi, il modo in cui l’autore ricrea le atmosfere delle città. In particolare, l’affresco della Roma medievale di papa Innocenzo III è stupefacente.

Tre insoliti delitti” è una cupa novella in cui ritroviamo tutti gli elementi del mondo medievale. Cavalieri, streghe, castelli, duelli, delitti e intrighi prendono vita in un’atmosfera lugubre che si fonde con quella del Natale. Una lettura perfetta per tutti gli amanti del Medioevo e dell’avventura. Un romanzo in cui ritroverete il Natale come nessuno lo ha mai raccontato.

recensione, Romanzo storico

“Paolo e Francesca” di Matteo Strukul

“Perché Francesca, ne era certo, rappresentava per lui un pericolo. E con la sua avvenenza, l’avrebbe portato all’Inferno.”

Ravenna, seconda metà del Duecento. Il guelfo Guido da Polenta, finalmente, riesce a sconfiggere i suoi acerrimi rivali, i Traversari e, con un colpo di mano, conquista Ravenna, divenendone podestà. Determinante nella vittoria, è l’aiuto della cavalleria di Giovanni Malatesta, figlio di Malatesta da Verucchio, signore di Rimini. E Giovanni, il suo ruolo in quella vittoria, vuole farlo valere. Non vuole terre né denari. Solo una cosa ha in mente: la bella figlia del da Polenta, la giovane Francesca. Come può Guido rifiutare un tale partito per la sua terzogenita? Ben disposta ad assecondare il volere di quel padre al quale è così tanto legata, Francesca sposa Giovanni per procura. Al suo posto, alla celebrazione presenzia il bellissimo fratello dello sposo, Paolo Malatesta.

Ha inizio così la vicenda di uno dei più celebri amori della Storia, la cui memoria è arrivata fino a noi grazie a Dante Alighieri. L’amore imperituro tra Paolo e Francesca, celebrato nel nuovo romanzo di Matteo Strukul, edito da Nord Sud Edizioni.

Una fanciulla forte e fiera, istruita, coraggiosa eppure avveduta. Un amore traditore, nato per caso ed esploso per passione. Due anime impegnate, ma incapaci di sottrarsi l’una all’altra; due cuori incatenati da un beffardo incantesimo d’amore.
Francesca è indipendente, intelligente e lungimirante, colta e coraggiosa, consapevole del suo ruolo nel mondo degli uomini, vive il suo matrimonio cercando di rinnegare il sentimento che prova per Paolo. Paolo, cavaliere senza macchia, è pronto a difendere a fil di spada la donna che ama oltre ogni ragionevole convenienza, brama di una passione malcelata, che lo divora fin nel profondo. Due giovani che hanno creduto di poter ingannare la mentalità del loro tempo e le insidie di una corte. Due giovani, però, che hanno avuto l’audacia e la sfrontatezza di avventarsi contro il destino avverso. Due anime affini e complementari, due corpi e un solo, unico cuore.
Eppure, ogni corte, grande o piccola che sia, pullula di pericoli, invidie, gelosie, spie. Soprattutto per una donna forte e indipendente, con un grado di istruzione che fa paura ha chi quell’istruzione non ce l’ha. E che segna, in modo ineluttabile, la vita della giovane Francesca.

Nel narrare questo amore, Strukul ci porta a comprendere la mentalità dell’uomo medievale, i suoi valori e le sue consuetudini. Un viaggio che permette al lettore di provare un briciolo di empatia con Giovanni Malatesta. Quello che brucia in lui non è tanto il tradimento della moglie, quanto quello dell’amato fratello, la ferita nell’orgoglio e nella dignità, il legame di sangue reciso. Giovanni dall’animo brutale e guerriero, provato dalla vita, che lo ha menomato nel fisico inasprendone il cuore. Roso da un amore non corrisposto, che colma con l’ira e con il distacco il suo senso di inferiorità nei confronti di una moglie che troppo è per lui.

Paolo e Francesca tornano a vivere tra le pagine di questo romanzo emozionante e struggente, denso di sentimenti e di Storia. La prosa fluida è così romantica da dare l’impressione di leggere uno dei manoscritti cavallereschi che tanto amava la protagonista. Il modo in cui Strukul dipinge le scene è poetico, delicato e potente allo stesso tempo e, a ogni pagina, sorprende come riesca a creare immagini sublimi e precise. Il modo in cui gioca con le parole è magistrale.

“Nei suoi occhi, sospettosi per natura, albergava anche la cupidigia più fine, depositata sul fondo acquoso delle iridi come sabbia, pronta a intorbidire lo sguardo non appena qualcuno l’avesse agitata.”

“Amor, c’ha nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’abbandona” diceva Dante nel V canto dell’Inferno. Un amore che non abbandona Francesca nemmeno tra le spire della dannazione. È proprio quello che Matteo Strukul ci regala in questo romanzo. Un sentimento così forte da vincere la morte e la paura, che non abbandona mai, nemmeno per un solo istante, e resta vivo fino alla fine i due giovani amanti.

“Per un’ultima volta voleva abbandonarsi a lui e lasciarsi amare in quel modo tutto suo, come se si fosse trattato della fine del mondo. Come se non esistesse un domani. Come se quel momento fosse l’ultimo rimasto al genere umano e loro rappresentassero due anime sopravvissute troppo a lungo, due creature che avevano rubato il filo delle parche.”

Paolo e Francesca” è un romanzo che celebra l’amore, quello che divora il cuore, che brucia l’anima. Quello rinnegato, osteggiato, ma impossibile da estinguere. E, pur conoscendo a fondo la storia di Paolo e Francesca, è un libro che si divora.