Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Terzo appuntamento: Giovanni Acuto e i condottieri medievali.

Per i figli cadetti nati nell’Inghilterra di inizio Trecento, in un’epoca che non era più quella della cavalleria di Guglielmo il Maresciallo, la strada più comune era quella delle armi. Dovevano imparare il mestiere del soldato, iniziando come scudieri, paggi o soldati di condottieri e aspettando di mettersi in mostra in qualche occasione per diventare uomini d’arme. Da questo momento potevano mettersi sul mercato, arruolare soldati e mettere la loro spada al servizio del miglior offerente.

Ed è ciò che fece John Hawkwood, ribattezzato Giovanni Acuto dai fiorentini, colui che divenne uno straordinario condottiero per moltissimo tempo al soldo della Signoria di Firenze. Quando iniziò la sua carriera, era in corso la Guerra dei Cent’anni, tra Inghilterra e Francia. È proprio in Francia, dai primi anni Quaranta del Trecento, che Giovanni combatté, terminando il suo apprendistato. Ma nel 1360 finì la prima parte della guerra e iniziò un periodo di pace, in cui i soldati dovettero riorganizzarsi per sopravvivere.

Nel frattempo, la struttura dell’esercito basato sulla fedeltà vassallatica e incentrato sulla cavalleria era entrato in crisi. Già nel Duecento, in Inghilterra i vassalli rifiutavano la dignità cavalleresca per non essere tenuti agli obblighi militari. In Francia, invece, i vassalli seguivano il signore solo entro in confini del feudo; oltre questo limite esigevano si essere rimborsati di tutte le spese. In Italia, soprattutto nelle zone in cui i Comuni crescono più velocemente, le compagnie cittadine (formate in prevalenza da cittadini che avevano più confidenza con gli strumenti dei loro mestieri che con le armi) non erano sufficienti a condurre guerre di conquista. Per questo, le milizie vennero integrate con soldati di professione. E questa professione poteva essere una soluzione per tanti, soprattutto durante la crisi economica di fine Duecento. Fu in questo contesto sociale che i soldati come Giovanni facevano fortuna, formando bande di soldati-avventurieri (mercenari), pronti a offrire il proprio lavoro a quanti avessero bisogno di soldati. Quella a cui Hawkwood si unì era la Compagnia Bianca.

I soldati di professione erano presenti negli eserciti già in pieno Medioevo, dove venivano ingaggiati con contratti a termine che si concludevano nel momento in cui finiva la guerra per cui erano stati assunti. In Italia, a loro ricorrevano i Comuni e il podestà, che aveva bisogno di una forza di polizia stabile. Un’accelerazione al fenomeno lo diedero le vicende dei guelfi e dei ghibellini nella seconda metà del XIII secolo. Ovviamente, ciò non significa che gli eserciti erano formati solo da mercenari, però erano loro a fare la differenza. Ad essi ricorrevano anche i sovrani d’Europa che, fino al Duecento, assoldavano il singolo uomo con i suoi collaboratori, mentre dalla metà del secolo si avvalsero di un tecnico, il conestabile, per trovare le truppe. Egli reclutava contingenti che oscillavano tra i venticinque e i cento soldati, per poi passare a intere compagnie di centinaia di uomini nel Trecento. Un altro fattore che contribuì a professionalizzare i soldati fu l’introduzione di nuove armi, l’arco e la balestra, che richiedevano una specializzazione nel loro uso e che trasformarono le tecniche di combattimento. Infatti, fino a quel momento i cavalieri (che costituivano la maggioranza degli eserciti) avevano dovuto difendersi solo dai colpi ravvicinati di spada, mazza e lancia, mentre ora dovevano riorganizzare le armi di difesa per le frecce che arrivavano da lontano e avevano una diversa capacità di perforazione. Questo comportò l’inspessimento di scudi e corazze, la formazione di una leva più robusta e una forma di combattimento più lenta.

La figura centrale della compagnia era il condottiero, ossia il comandante, al quale i soldati erano legati da vincoli di dipendenza, ma anche di fiducia e fedeltà. Era il condottiero (che, nella maggior parte, proveniva da famiglie aristocratiche) a reclutare i guerrieri, ognuno con il proprio reparto di armati. Sul loro operato, vigilava colui che li aveva ingaggiati, ossia il signore o un organismo apposito, come gli Ufficiali della Condotta a Firenze o i Savi della Terraferma a Venezia. Spesso il soldato mercenario è ricondotto a stereotipi, che però sono da rivedere. Primo fra questi, l’immagine dei soldati che, nelle città in cui passano, lasciano solo tracce sgradevoli. Ciò non era sempre vero, in quanto molti di loro si legavano alle città nelle quali passavano più tempo, ad esempio sposando ragazze del posto o facendo erigere chiese. Un altro stereotipo è quello del rapporto tra soldati e popolazione locale, le cui testimonianze sono sempre negative, come i soldati di Francesco Sforza che avevano l’abitudine di mangiare e bere senza pagare nelle osterie. Ma la presenza di un esercito significava anche circolazione di denaro e, soprattutto, guadagno sicuro per chi prestava loro soldi. Spesso i soldati finivano nel giro dell’usura oppure impegnavano armi e cavalli per avere contante. Inoltre, alcuni di loro investivano i guadagni presso uomini d’affari locali. Pertanto, nonostante sia indubbio che tra le file degli eserciti ci fossero uomini di bassa moralità e delinquenti abituali, la figura del soldato di professione non può essere ricondotta a stereotipi assoluti.

Ma come era strutturata una compagnia? Iniziamo col precisare che, nel momento in cui il condottiero accettava la condotta, non sempre aveva a disposizione gli uomini necessari. Doveva quindi procedere con l’arruolamento che poteva avvenire contattando soldati con cui aveva già combattuto, con l’unione a compagnie più piccole guidate da altri condottieri, con l’arruolamento per strada oppure ancora convincendo mercenari prigionieri di altre compagnie o sottraendo soldati al nemico in difficoltà economica. Detto ciò, la compagnia era formata da un insieme di piccole cellule. Un esempio utile è quello della compagnia di Michelotto degli Attendoli, della prima metà del Quattrocento. Vi erano 561 lance, che corrispondevano a 1129 combattenti e 561 paggi, e 104 cavalli (ossia singoli combattenti), per un totale di 1229 cavalieri, integrati da 177 fanti. Questo contingente era diviso in 87 squadre eterogenee e ognuna di esse era divisa in gruppi di lance, per un totale di almeno 167 uomini di comando (quindi un comandante ogni 6 uomini). Oltre agli uomini d’arme, la compagnia era formata anche da amministratori e contabili, necessari per amministrare le spese anticipate che il condottiero si accollava per l’equipaggiamento dei suoi uomini. Inoltre, vi era la casa, formata dai più stretti commilitoni e dai famigli del comandante, i quali, però, non seguivano gli spostamenti della compagnia, ma operavano in una sede fissa. Invece, si spostavano con i soldati tutte quelle figure che servivano a garantire un livello di quotidianità accettabile alle truppe: servi, cuochi, buffoni, medici, religiosi, prostitute, barbieri, sellai, mulattieri, corrieri, garzoni di stalla, fornai, ecc. Il comandante aveva, inoltre, giurisdizione piena sui suoi uomini (legibus soluti), sui quali amministrava la giustizia, con premi e punizioni. Quindi, ad eccezione di qualche rara occasione, non erano le magistrature della signoria committente a far valere la legge tra i soldati.

Uno dei problemi più fastidiosi per chi ingaggiava le compagnie era il loro costo, molto ingente, che spesso veniva sostenuto grazie all’introduzione di nuove tasse. Infatti, chi si rivolgeva ai mercenari, in genere, si impegnava a corrispondere la paga in denaro e gli anticipi per cavalli, armi e armature, a indennizzare i cavalli morti o feriti e a riscattare eventuali prigionieri. Ma in Europa del Duecento Trecento e Quattrocento, i mercenari erano indispensabili. È interessante osservare, ad esempio, i patti del 1390 tra Giovanni Acuto e Firenze per capire come funzionasse il loro ingaggio. Essi prevedevano una ferma annuale, con diritto di opzione per un altro anno; il condottiero si impegnava a svolgere le operazioni di guerra e una serie di servizi di guardia e sicurezza in città. Alla fine della condotta, il comandante prometteva di non combattere contro Firenze per due anni in proprio o per sei mesi al servizio di un altro capitano (clausola comune, ma spesso non rispettata). Una forma di ingaggio che si sviluppò nel Trecento, è il soldo d’attesa: in tempo di pace, i soldati ricevevano una paga ridotta ma si tenevano a disposizione in caso di necessità. Durante l’attesa, il condottiero era libero di far combattere i suoi soldati per altri committenti fino a che non fossero richiesti dal primo. Quanto alla durata dell’ingaggio, inizialmente era prevista per qualche mese, per poi allungarsi a un anno di ferma con un anno di rinnovo, sviluppando il fenomeno per il quale, molto spesso, i condottieri si legavano allo Stato che li aveva ingaggiati. Il soldo era ovviamente integrato dal bottino, dato che i soldati avevano libertà di commettere ruberie, estorsioni e chiedere riscatti. Alle paghe (che poteva essere sostituita, in caso di difficoltà del committente, da altri generi, come stoffa, sale, gioielli…), inoltre, si univano spesso privilegi, come esenzioni fiscali o lasciapassare.

Come combattevano le compagnie? Tra Duecento e metà Trecento in Italia, si usavano i corpi di cavalleria, fanti e balestrieri. Fanti e balestrieri formavano il reparto d’appoggio per la cavalleria, decisiva per lo scontro, che in genere consisteva in una serie di urti successivi di cavalieri. Nel Trecento, però, le modalità di battaglia si modificarono, dando sempre più spazio alla fanteria, che smise di essere carne da macello per diventare un reparto decisivo. Ma, durante le battaglie, mercenari erano davvero spietati? La risposta è no. Erano feroci e spietati con le popolazioni che subivano i loro soprusi, ma contro i nemici si dimostravano coraggiosi e determinati, mai spietati. E ciò perché quei professionisti nemici sarebbero potuti diventare loro alleati o parte della stessa compagnia. Pertanto, il nemico doveva essere sconfitto ma non distrutto, perché i soldati erano una risorsa da gestire nel migliore dei modi.

Come detto in precedenza, alla fine del Trecento le compagnie iniziarono a cambiare, in quanto si legarono sempre più agli Stati. Ma anche la figura del condottiero cambiò, che da avventuriero si trasformò in gentiluomo. Questo avvenne anche perché spesso i condottieri ricevevano come pagamento la concessione di terre su cui, in alcuni casi, esercitavano una signoria. Un bel modo per trasformare i condottieri in fedeli sudditi del signore che li aveva ingaggiati.

Giovanni Acuto proprio il prototipo di questo cambiamento.

Il contesto italiano nel quale approdò a Firenze era caratterizzato da un’estrema dinamicità politica, soprattutto al centro-nord, dove le protagoniste erano Verona, Milano e Venezia. La politica aggressiva del signore di Verona, Mastino della Scala, preoccupava Venezia che nel 1363 stipulò un’alleanza con Firenze. Ma quando Giovanni Visconti, signore di Milano, conquistò Bologna, Firenze iniziò a consolidare la sua posizione in Toscana. Ma la minaccia del pericolo derivante da Milano non fece passare in secondo piano le rivalità tra le città toscane e quando Pisa, nel 1365, chiuse il porto ai fiorentini si aprì una ghiotta occasione per i soldati in cerca di ingaggio. Quando la Compagnia Bianca arrivò in Toscana, fu contesa tra Pisa e Firenze. Il comandante scelse i quaranta mila fiorini offerti dalla prima, nella guerra contro Firenze. A un certo punto dell’ingaggio, però, buona parte della Compagnia abbandonò Pisa per passare dalla parte di Firenze che aveva fatto un’ulteriore ghiotta offerta. Giovanni Acuto non seguì i suoi compagni e rimase con Pisa, decretando così il distacco dalla Compagnia Bianca. Dopo Pisa, combatté al soldo di Bernabò Visconti, di papa Urano V e di Padova. Nel 1387, approdò a Firenze e vi restò in modo definitivo, fino alla sua morte, attuando quel cambiamento che vide i condottieri legarsi sempre più spesso a una sola città.

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recensione, Romanzo storico

“Omicidio nel ghetto. Venezia 1616” di Raffaella Podreider

Aveva appena smesso di piovere, in quel tardo pomeriggio nella Venezia del 1616, quando sior Contarini e sior Vanin entravano nel ghetto ebraico. Già, i due uomini d’affari veneziani si recavano al Banco Rosso, proprio poco prima dello Shabbat. Cosa volessero due cristiani nel ghetto ebraico è ben intuibile. Denaro. Dovevano parlare con il vecchio Avraham Hirsh, che teneva uno dei banchi di pegno del ghetto. Con lui, i due nobili avevano grossi debiti aperti. Ma proprio quando il vecchio apriva la porta ai due, sior Vanin cadeva morto in una pozza di sangue. E la colpa non poteva che cadere sull’ebreo. Quando, sul posto, arrivava l’avogador Zante Venier, Signore della Notte al Criminal, il nobile Contarini è certo che sia stato l’ebreo a uccidere il suo socio. Ma è stato davvero Avraham Hirsh? Oppure c’era qualcun altro che voleva morto Vanin? Il compito di scoprire come sono andate le cose viene affidato a Beniamino, il figlio dell’accusato, il quale chiede aiuto a Sebastiano, il giovane orfano Vanin. In una corsa contro il tempo per salvare il padre dalla morte, Ben e Sebastiano, tenteranno il tutto per tutto.

Così inizia il romanzo storico di Raffella Podreider, “Omicidio nel ghetto”, edito da Il Ciliegio Edizioni.

Sullo sfondo della Venezia di inizio Seicento, si svolge la trama di questo giallo storico, molto ben scritto, grazie a una prosa chiara e semplice, ma d’effetto. Oltre all’intrigo investigativo, ciò che si apprezza maggiormente sono due aspetti. Da una parte, l’ottima e immersiva ricostruzione dell’ambientazione, che ci permette di ammirare l’affascinante città lagunare nel periodo barocco. Dall’altra, l’interessante racconto della cultura e della religione ebraica, il quale è coadiuvato da utilissime e molto apprezzate note che permettono al lettore di meglio comprendere gli aspetti dell’ebraismo, senza dover interrompere la lettura.

La trama si sviluppa su una doppia linea temporale. Nel 1616 si svolgono i fatti del presente della storia, mentre nel 1611 si ripercorrono gli studi dell’avogador Zante Venier, attraverso il quale il lettore può addentrarsi nella religione ebraica. Ed è proprio grazie a Venier che l’autrice riesce a mostrare come, anche in epoche difficili e cariche di paure e pregiudizi, sia possibile l’integrazione e il superamento dei preconcetti, attraverso la conoscenza e l’empatia.

È molto interessante vedere come i due giovani improvvisati investigatori riescano a mettere da parte ostilità e pregiudizi per la ricerca del vero colpevole; come riescano a capire che proprio mettendo in discussione le proprie certezze, sia possibile giungere alla verità. Come loro due, anche tutti gli altri personaggi sono ben caratterizzati e l’autrice è riuscita a mettere in risalto le loro emozioni e sensazioni, che il lettore non ha difficoltà a percepire.

Omicidio nel ghetto. Venezia 1616” è un romanzo appassionante, consigliato a tutti coloro che amano la storia della Serenissima e a coloro che vogliono conoscere o approfondire l’argomento dell’ebraismo.

ANTICA ROMA

Il mestiere del gladiatore. Alla scoperta della vita dei combattenti del Colosseo

Il celebre film Il gladiatore di Ridley Scott racconta di come il generale romano Massimo Decimo Meridio, dopo essere scampato alla condanna a morte da parte dell’imperatore Commodo, riesca a tornare a Roma per vendicarsi, in veste di gladiatore acclamato dal popolo. Dalla pellicola intuiamo che i gladiatori erano uomini che non potevano sottrarsi a quel destino. In realtà, a Roma, quella del gladiatore poteva una scelta, che portava grande fama, proprio come nel caso dell’auriga, che correva nel Circo Massimo.

I giochi gladiatorii si diffusero a Roma in epoca repubblicana, tra la fine del IV e l’inizio del III secolo, accanto ad altre due forme di divertimento popolare, le corse dei carri e il teatro. Tre forme di intrattenimento organizzate e offerte dallo Stato. Tuttavia, i primi combattimenti tra gladiatori erano di natura privata. Riguardavano, infatti, le cerimonie funebri in onore di personaggi importanti, a cui i parenti volevano facilitare il passaggio nel regno dei morti e che volevano, al contempo, dimostrare ricchezza, prestigio e potere. Nel corso del II secolo a.C., però, questa pratica si trasformò in un potente mezzo per ottenere il favore popolare. Le famiglie dell’alta società romana, infatti, iniziarono a investire in questi spettacoli quantità sempre maggiori di tempo e denaro. Nel 42 a. C., la sottile linea di separazione tra i ludi organizzati dallo Stato e quelli privati venne meno. In un momento di preoccupazione per le sorti della Repubblica si pensò che le corse dei carri non fossero più sufficienti a rendere propizi gli dèi, così vennero sostituiti con i combattimenti tra gladiatori. Da quel momento, vennero organizzati a spese di Roma, anche se ancora mancava un luogo adatto a questi giochi, che si svolgevano al Foro Romano. A far costruire un anfiteatro apposito (imitato in altri luoghi dell’Impero), ci pensò l’imperatore Vespasiano: nell’80 d.C., nacque l’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto come il Colosseo, e gli spettacoli dei gladiatori diventarono ancora più popolari.

Ma come si diventava gladiatori?

Attraverso l’addestramento nei ludum gladiatorum, le scuole per gladiatori, gestite dai maestri privati, i lanisti. Nell’Impero ce n’erano oltre cento, ma le più importanti erano le quattro scuole di Roma, tutte posizionate nei pressi del Colosseo e gestite dai procuratores dell’imperatore. La più grande tra questa era il ludus magnus (i cui resti sono ancora visibili), direttamente collegata al Colosseo. Poi vi erano il ludus dacius, per l’addestramento dei Daci, il ludus gallicus, dove si addestravano i Galli, e il ludus matutinus, dedicato ai gladiatori che combattevano contro gli animali feroci, i venatores e i bestiarii.

Erano tre le tipologie di uomini che si potevano trovane nei ludus. Innanzitutto, i prigionieri di guerra, poi gli schiavi condannati per reati gravi, come omicidio, avvelenamento o profanazione del tempio (paradossalmente, in questo modo, veniva loro offerto un modo per riscattarsi, dato che potevano anche comprarsi la libertà con i guadagni dei combattimenti), e uomini liberi che si arruolavano volontariamente, perché attratti dalle forti emozioni e dai guadagni. Questi ultimi erano soprattutto soldati in congedo che faticavano a tornare alla vita cittadina oppure uomini che non avevano di che vivere, dato che l’essere parte della scuola garantiva vitto, alloggio e cure mediche. Si può dire che, dal I secolo, gli uomini liberi costituivano la metà dei gladiatori. Tra questi, vi erano anche figli di senatori e cavalieri che, per qualche ragione, erano divenuti pecore nere delle famiglie. Inoltre, ci sono stati anche diversi imperatori che hanno vestito i panni del gladiatore, come l’imperatore Commodo. Fino al 200 vi furono anche gladiatrici, i cui combattimenti vennero poi vietati perché considerati un insulto alle virili virtù militari.

Oltrepassata la soglia della scuola, l’aspirante gladiatore veniva esaminato da un medico che ne analizzava fisionomia e personalità. Erano ammessi solo gli uomini che risultavano adatti all’arena. Superato l’esame, veniva sottoposto all’addestramento e a ripetuti esami da parte dei medici che li affiancavano. Il gladiatore rappresentava, infatti, un investimento per il lanista, che quindi aveva interesse a che si mantenesse in salute. Il gladiatore veniva affidato a uno speciale allenatore, di solito un ex gladiatore, ed era assegnato a una particolare arma, scelta dal lanista, alla quale veniva allenato con esercizi massacranti, che gli permettevano di imparare certi automatismi utili a diventare una vera e propria macchina da combattimento. In questo modo, all’interno della scuola si creava una gerarchia tra i gladiatori che, per tutta la vita, cercavano di raggiungere la vetta.

La maggior parte di loro moriva tra i ventuno e i trent’anni, con all’attivo da cinque a trentaquattro combattimenti, i quali potevano essere svolti da una a quattro volte l’anno, sia perché dovevano avere il tempo di riprendersi dalle ferite, sia per non annoiare il pubblico. I combattenti ultratrentenni erano pochi ed erano i migliori, nonché i più fortunati per aver avuto più volte la grazia. Infatti, il combattimento per il gladiatore poteva finire in cinque modi: poteva vincere, poteva essere ucciso, poteva essere giustiziato dopo essersi arreso (per volere dell’imperatore o del pubblico), poteva ottenere la grazia e uscire vivo, oppure poteva uscire insieme all’avversario se il combattimento finiva in parità. Alcuni tra i gladiatori più forti e famosi combatterono anche oltre i quarant’anni e fino addirittura ai sessanta. Erano valorosi e rappresentavano un modello di virilità, che esercitava un grandissimo fascino sulle le donne, sia del popolo che dell’alta società.

I gladiatori vivevano all’interno della scuola e combattevano nelle arene dell’Impero. A Roma, i giochi erano organizzati dal procurator munerum dell’imperatore. Egli trattava con i lanisti e sborsava ingenti cifre per garantirsi la presenza dei guerrieri famosi. Queste cifre, che andavano dai mille-duemila sesterzi per i gregarii, ossia i gladiatori di ultima categoria, fino ai quindicimila sesterzi per i campioni, finivano, per la maggior parte, nelle tasche del maestro della scuola. Al gladiatore era infatti lasciata solo una misera mancia ed egli non riusciva ad arricchirsi nemmeno con i premi che, il più delle volte, erano costituiti da corone o ramoscelli d’ulivo e qualche moneta. Erano rari gli spettacoli in cui venivano assegnati premi corposi, dei quali, comunque, spettava una percentuale al lanista (gli schiavi potevano tenere solo il 20% del premio, mentre i liberi il 25%, il resto spettava al maestro). Per questi motivi, erano pochi gli schiavi che riuscivano a pagarsi la libertà con i guadagni e, anche nel caso in cui riuscivano, spesso stipulavano contratti per continuare a esibirsi anche dopo la liberazione. Per gli ex gladiatori, le possibilità al di fuori dell’arena erano, infatti, limitate, perché sapevano solo combattere, ma la carriera militare era loro preclusa. Potevano ambire a un lavoro come guardia del corpo di qualche cittadino (cosa che avveniva di frequente in epoca repubblicana) o a un impiego presso l’imperatore, ma la stragrande maggioranza rimaneva all’interno della scuola fino alla morte. Se non morivano in giovane età, restavano come allenatori o guardiani o addetti alle pulizie.

Nell’arena, ogni gladiatore combatteva con l’arma alla quale era stato addestrato e che rimaneva la stessa per tutta la carriera. Poteva essere la lancia, il giavellotto, la spada o il pugnale, di diversi generi. Erano previsti elmi, scudi, protezioni per le gambe e per il braccio che impugnava l’arma e anche corazze, le quali però non venivano usate. I gladiatori, infatti, si esibivano a petto nudo in segno di sottomissione, in quanto erano l’imperatore e il pubblico a disporre della loro vita, e anche per essere pronti a offrire la schiena o il collo per il colpo di grazia in caso di condanna a morte. Vediamo le categorie dei gladiatori in base alle armi usate:

  • I traci, muniti di spada ricurva abbastanza corta e scudo,
  • I mirmilloni, con lo scudo allungato e la spada a doppio taglio; impiegati soprattutto contro il reziario,
  • Gli oplomachi, muniti di un piccolo scudo di bronzo, che iniziavano a combattere con la lancia, per poi passare alla spada corta,
  • I reziari, senza elmo, scudo e gambali, ma solo con una fasciatura sul braccio sinistro e una protezione in bronzo sulla spalla, muniti di una rete tonda a maglie larghe e un tridente,
  • I secutores, con l’elmo che proteggeva tutto il viso, lasciando solo due piccoli fori per gli occhi. Avevano campo visivo limitato e, per questo, dovevano avvicinarsi il più possibile all’avversario,
  • Gli equites, che gareggiavano solo tra di loro, iniziavano il combattimento a cavallo e usavano spade e lance,
  • I provocatores, con un lungo scudo rettangolare, corazza, un solo gambale e una spada corta,
  • I paegnarii, che si esibivano nell’intervallo di mezzogiorno con spettacoli tragicomici, senza elmo né scudo, ma solo con un’armatura di cuoio, muniti di una frusta e di un bastone dalla punta a uncino. Erano, per lo più, gladiatori anziani con difetti fisici,
  • Gli andabatae, con gli occhi bendati o con fori dell’elmo coperti che si affrontavano con la spada.

Ora che conosciamo coloro che combattevano nel Colosseo, vediamo come si svolgevano i giochi. Il programma del grande anfiteatro romano era suddiviso in tre parti: al mattino i combattimenti tra animali; a mezzogiorno le esecuzioni di criminali e schiavi che avevano tentato la fuga ed esibizioni più leggere, come gare di atletica o numeri comici; al pomeriggio i combattimenti tra gladiatori.

Il programma mattutino era, a sua volta, diviso in tre parti. Si iniziava con i combattimenti tra animalidiversi, soprattutto nella combinazione orso-toro, in cui anche il vincitore veniva poi abbattuto. Dopo questo spettacolo, si passava ai numeri circensi con gi animali addestrati e, infine, si assisteva alla venatio, ossia il confronto tra animali e uomini: i venatores, cioè i cacciatori, e i bestiarii, ossia gli uomini che combattevano contro le belve. Erano i cacciatori a iniziare con una battuta collettiva ad animali innocui, per poi passare a quelli feroci. Terminata la caccia, era la volta dei bestiarii che davano vita due tipologie di spettacoli: quello che assomiglia molto al rodeo texano, in cui il combattente saltava in groppa a un toro per cercare di immobilizzarlo torcendogli il collo, e quello in cui l’uomo combatteva contro un orso, un leone o una tigre munito solo di un giavellotto.

Arrivati a mezzogiorno, chi non si allontanava per il pranzo, assisteva alle esecuzioni. I condannati a morte (che avevano trascorso la loro ultima notte in una cella nelle catacombe) venivano divisi in due gruppi: da una parte i romani colpevoli di omicidio, dall’altra i non cittadini e gli schiavi. La prima esecuzione era quella dei cittadini di Roma che venivano uccisi con la spada, quindi velocemente. Gli altri, invece, venivano condannati al supplizio della croce, bruciati vivi o dati in pasto alle belve; alle volte, venivano combinate due modalità (ad esempio, potevano essere inchiodati alla croce e poi dati alle fiamme oppure venivano appesi alla croce in modo che le belve potessero arrivare a sbranarli). In alcuni casi, però, anche per i cittadini l’esecuzione poteva avvenire in altro modo. Due di loro venivano buttati nell’arena: uno disarmato scappava mentre l’altro lo inseguiva armato di spada, finché non lo uccideva. L’inseguitore veniva poi giustiziato a sua volta. Tuttavia, le esecuzioni erano probabilmente noiose per il pubblico e, per questo, gli organizzatori ne collocavano una parte in un contesto mitologico, in esibizioni che presentavano miti celebri.

Terminate le esecuzioni e rientrati quanti erano usciti per pranzare in una delle bancarelle che circondavano l’anfiteatro, si arrivava allo spettacolo più atteso: i combattimenti tra gladiatori. Iniziava tutto con una processione in pompa magna, che proveniva dalle catacombe accompagnata dal suono di trombe, corni e doppi flauti, sostava al centro dell’arena (in cui i gladiatori toglievano elmo e scudo per far ammirare i loro fisici possenti), per poi scomparire di nuovo nelle catacombe. Terminata la processione, a cui prendevano parte l’organizzatore dei giochi e i suoi servitori, iniziava il riscaldamento dei gladiatori, chiamato preludio, con le armi di legno. Al segnale degli arbitri, i gladiatori lasciavano l’arena e venivano introdotte le armi ufficiali. La prima coppia di combattenti entrava con un sottofondo musicale molto trascinante e si posizionava al centro dell’arena. Qui bisogna sfatare il mito che vuole i gladiatori abituati a salutare l’imperatore con le parole Ave Caesar, morituri te salutant. Questo saluto, infatti, è stato riportato solo da Svetonio che lo indicò come pronunciato solo una volta prima di una naumachia. Gli studiosi ritengono, quindi, che sia ingiustificato credere che si trattasse di un’abitudine dei gladiatori. In ogni caso, saluti a parte, arrivava qui il momento per i combattenti di mettere in pratica quanto appreso durante l’addestramento. Entrambi si muovevano con competenza e precisione, mai alla cieca, anche perché spesso si conoscevano tra loro e sapevano quali erano i punti forti e deboli dell’altro. Inoltre, i due gladiatori erano quasi sempre di pari livello; solo di rado veniva accoppiato un veterano con un giovane alle prime armi. Per questo motivo, la durata del combattimento era sconosciuta. Se entrambi erano quasi sfiniti, l’arbitro concedeva una breve pausa e se, dopo la pausa, ancora non c’era un vincitore, egli sospendeva la sfida e chiedeva il giudizio dell’imperatore e del pubblico. Ai gladiatori che si erano battuti con coraggio veniva concessa la stantes missi, ossia l’uscita trionfale in piedi. Tuttavia, la maggior parte dei duelli finiva con un vincitore. Tutti i gladiatori erano addestrati a morire con dignità, ma a volte qualche perdente si arrendeva, abbassando spada o tridente e buttandolo a terra, e invocava la grazia (se non moriva per le ferite riportate). In questo caso, l’arbitro interveniva per impedire che il vincitore lo finisse e si rivolgeva all’organizzatore dei giochi (nel Colosseo era sempre l’imperatore, per mezzo di un procurator) per chiederne il parere. L’imperatore a sua volta, spesso, lasciava il giudizio al pubblico. Nel frattempo, il gladiatore attendeva sperando nella grazia. Se sentiva gridare mitte, usciva vivo per tornare nella scuola; se invece sentiva iugula, sapeva che il pollice di tutti gli spettatori era verso e che la sua fine era arrivata. Allora, stringeva le mani sulle spalle o le gambe del vincitore e si inchinava aspettando il colpo di grazia tra le scapole o sulla nuca. Poi veniva caricato su una barella e fatto uscire dalla Porta Libitinaria (della morte), per essere portato nello spoliarium, un locale in cui era spogliato delle armi e in cui gli veniva tagliata la gola, per essere certi che non fingesse la morte. Solo raramente l’imperatore ignorava la decisione del popolo e concedeva la grazia. Il vincitore, invece, si avvicinava al palco imperiale per ricevere il premio (un ramoscello d’ulivo e qualche moneta), salutava la folla e usciva dalla Porta Sanavivaria (della vita). Il suo valore di mercato era cresciuto.

Chiudeva i giochi la distribuzione dei doni da parte dell’imperatore. Dall’alto dell’anfiteatro venivano buttate giù delle palline di legno con vari simboli che indicavano monete, vestiti, cibo o suppellettili d’argento e chi le afferrava doveva portarle ai funzionari per ritirare la cosa indicata. In questo modo, l’imperatore esibiva il proprio potere e cercava di guadagnarsi la lealtà del popolo.

I giochi gladiatorii erano affascinanti agli occhi dei romani perché simboleggiavano lo splendore di Roma ed esprimevano le virtù romane come il valore, la forza e il coraggio. Per questo tra il I e il III secolo, non si poteva immaginare Roma senza i gladiatori. Tuttavia, nel III secolo le province dell’Impero dovettero affrontare le invasioni barbariche che portarono una forte recessione economica. Per questo, i costosissimi spettacoli gladiatorii vennero abbandonati, sostituiti con spettacoli più economici. Inoltre, i combattimenti tra gladiatori si scontrarono con la diffusione del cristianesimo, che ne era avverso. Nella capitale, il graduale declino di questi spettacoli iniziò nel IV secolo.

A questo punto, tornando al film citato all’inizio, molti di voi avranno capito che Il gladiatore di Ridley Scott non è storicamente attendibile quanto ai combattimenti tra gladiatori. Chi lo ha visto ricorderà i duelli tra molteplici gladiatori contemporaneamente, oppure tra gladiatori e animali nello stesso momento, oppure ancora combattenti con maschere di fantasia. Tutto ciò non corrisponde a quanto accadeva realmente nell’Antica Roma.