Medioevo

“Guerra, cavalieri e mercenari tra Medioevo e Rinascimento”. Secondo appuntamento: la guerra nel Medioevo

“Ciascuno pensi alla sua anima, consegnatevi a noi e potrete andarvene incolumi, se invece non accetterete e sarete presi con la forza sarete tutti impiccati senza misericordia.”

Le battaglie e le vicende belliche medievali risultano così affascinanti ai nostri occhi da stimolare la fantasia di molti scrittori. E nei romanzi troviamo cavalieri in armatura che si scontrano brandendo spade, decapitando poveri fanti appiedati. Sangue a flotti, cavalli che si impennano, spade luccicanti, usberghi lucenti… sicuramente tutto molto affascinante. Ma com’era davvero la guerra nel Medioevo europeo? Proviamo a ricostruirne i punti principali.

Iniziamo col precisare che, nell’80% degli episodi militari attestati dalle fonti, il modo di guerreggiare è consistito in scorrerie devastatrici limitate nel tempo e nello spazio, volte a sottrarre al nemico i mezzi di sussistenza. E ciò accedeva indipendentemente dalla motivazione della battaglia, perché quello che più incitava i soldati a combattere era la prospettiva dell’arricchimento derivante dal bottino. Le scorrerie erano, infatti, composte da razzie e raid, ossia incursioni rapide e limitate nello spazio con lo scopo di recuperare bottino e distruggere le risorse del nemico; il raid si inseriva in schemi strategici più elaborati ed erano volti a indurre il nemico alla resa. E questo modo di guerreggiare non differenziava i soldati regolari dagli sbandati che derubavano i viandanti. L’unica differenza tra ruberia e prelievo di prede come azione di guerra era il titolo giustificativo della violenza. Insomma, la guerra medievale era tale solo nel 20% dei casi.

Proprio l’incapacità degli eserciti di astenersi dalle razzie rendeva i loro passaggi una maledizione per i luoghi attraversati, senza distinzione tra amici e nemici. Anche perché con queste incursioni i soldati provvedevano alle proprie esigenze alimentari (non soddisfatte dalla carente organizzazione logistica militare), che giustificavano tutti gli eccessi di una sorta di licenza militare, che si poteva ben trasformare in pura rapina. Ma oltre alle razzie, vi erano altri problemi dei luoghi attraversati dagli eserciti: problemi di controllo di uomini in movimento, danneggiamento di strade e abbattimento di case e alberi per l’agevolazione del passaggio di mezzi pesanti, danni provocati dallo stazionamento delle truppe che esaurivano le risorse di regioni intere. Solo alcuni grandi comandanti, come Guglielmo il Conquistatore o Clodoveo, riuscivano a mantenere e condurre gli eserciti senza provocare troppi danni.

La stessa tendenza predatoria degli eserciti medievali era tipica dei soldati di mestiere, i cosiddetti mercenari. Apparsi verso la fine del XII secolo e divenuti presenza abituale nella seconda metà del Trecento, questi soldati di professione erano dediti alla ricerca del bottino e al sequestro di persona a scopo di estorsione. Erano radunati in compagnie di ventura, ossia gruppi organizzati come veri e propri eserciti permanenti e itineranti, sempre pronti alla preda, per conto dei propri datori di lavoro, ma soprattutto per il proprio tornaconto, specie quando rimanevano senza occupazione e il grado di violenza aumentava. Il loro obiettivo non era superare l’avversario, ma arricchirsi con ogni mezzo possibile, facendo prevalere i moventi economici sulle intenzioni politiche. In origine, erano semplici ladruncoli, poi divenuti veri fuorilegge a cui si associarono ribelli, delinquenti comuni e monaci rinnegati, e infine veri e propri professionisti della guerra. Nella seconda metà del XIV secolo le compagnie diventarono formazioni militari abbastanza stabili stipendiate dalle signorie italiane, anche se continuarono comunque a integrare le paghe con bottini e riscatti.

Nell’Italia comunale, la scorreria era diffusa anche come sfida e provocazione contro l’avversario, per indurlo a uscire dalle mura della sua città e ad accettare la battaglia, così come per umiliarlo e ridicolizzarlo. Inoltre, era usata per punire che aveva mancato a una fedeltà politica. Vi era poi l’uso della scorreria tattica, che contava sulla reazione del nemico per farlo cadere in trappola.

I saccheggi erano, comunque, sempre accurati: ogni cosa veniva asportata dalle case, che poi venivano incendiate, e le fortificazioni in muratura venivano abbattute. La tecnica distruttiva principale era, infatti, il fuoco, efficace sia in campagna che in città. Dietro ai soldati saccheggiatori, vi erano poi i guastatori che, muniti di appositi attrezzi come scuri, operavano il guasto del territorio nemico. Inoltre, insieme ai soldati impegnati nelle azioni della gualdana (saccheggio), vi erano i cosiddetti saccomanni, ossia singoli predoni, non combattenti, muniti di sacchi nei quali si accumulavano le prede. I saccomanni erano proprio coloro che seguivano l’esercito tenendo il sacco pronto per raccogliere il bottino. Una volta raccolte le prede, queste venivano radunate in un luogo adatto e ripartite in modo eguale tra tutti i combattenti, al fine di evitare il rischio che nessuno volesse più battersi nella prima schiera in cui era più difficile fare bottino.

Nonostante quanto si è detto finora, gli uomini di guerra medievali non possono essere visti solo come sadici distruttori in cerca di bottino. Il bottino, infatti, era legittimo perché derivato dalla guerra, anche se vi erano limiti generali: i danni dovevano essere commisurati al rischio e agli scopi, i non combattenti e i prigionieri dovevano essere rispettati, tutto era permesso purché non facesse soffrire la disciplina dell’esercito, le chiese dovevano essere risparmiate per evitare l’ira divina e bisogna evitare la distruzione totale dei territori di cui di voleva entrare in possesso.

A livello quantitativo, subito dopo i saccheggi venivano gli assedi dei luoghi fortificati, come conseguenza del fenomeno dell’incastellamento del X e XI secolo. La fortificazione veniva avvicinata con i plutei, ossia grandi scudi su ruote che proteggevano i tiratori, i quali spianavano il terreno e colmavano il fossato difensivo per permettere ai mezzi pesanti di agire sulle mura. Il primo mezzo pesante era la testuggine, un capannone blindato con un tetto inclinato che faceva scivolare i proiettili e le materie incendiarie lanciate dall’alto dal nemico. Sotto la testuggine, i minatori arrivavano alle mura per aprire brecce con l’ariete, cioè una grossa trave con la testa ferrata. Poi vi era la torre mobile più alta delle mura, montata su ruote, spinta da uomini al suo interno e munita di ponti volanti che permettevano di superare le mura dall’alto. Anche le scale d’assalto avevano le ruote ed erano più difficili da rovesciare per il nemico. Tutti questi mezzi erano di legno, pertanto venivano ricoperti di pelle di bovino, strati di terra e materiali imbevuti d’aceto per essere protetti contro il fuoco. Erano poi accompagnati dal tiro delle artiglierie, ossia mezzi che facevano piovere proiettili di pietra sulle difese nemiche, come il mangano e, successivamente, il trabucco. Sottoterra, invece, si potevano aprire gallerie per far crollare le mura ed entrare all’interno di sorpresa. Tutti i componenti dell’attacco dovevano agire nello stesso momento.

Oltre che per battaglia, le fortezze venivano prese anche per sete e per fame. Il primo compito durante un assedio era, quindi, privare di acqua e cibo gli assetati. Per questo, si privilegiava l’estate, quando era più facile esaurire l’acqua e i nuovi raccolti non avevano ancora integrato le scorte precedenti. La privazione dell’acqua avrebbe così fatto desistere anche gli assediati più agguerriti. In questi casi, ciò che portava gli assediati a resistere era la speranza di ricevere soccorso esterno, almeno per il rifornimento di acqua e viveri, che avveniva solitamente di notte. In questi assedi, erano importanti le cosiddette bocche inutili, ossia persone rinchiuse nella fortezza che consumavano vivere senza però fornire validi aiuti alla resistenza, come donne e bambini. Per questo, spesso, gli assedianti se catturavano alcuni assediati, anziché ucciderli, li mutilavano e li rimandavano indietro in modo che consumassero più in fretta le scorte senza essere di aiuto alla difesa.

La conquista di una fortezza per battaglia, invece, imponeva l’uso di macchine da lancio e da assalto, come detto. Ma i mezzi da lancio avevano anche un forte effetto psicologico sugli assediati. Infatti, erano usati anche per lanci non convenzionali allo scopo di esercitare pressione psicologica, come ad esempio le teste di nemici uccisi o corpi di alcuni animali, in particolare asini, con intento di insulto e derisione. Per lo stesso scopo intimidatorio, si usavano anche il fuoco e rumori improvvisi, soprattutto di notte, e si faceva credere agli assediati che loro mura fossero sul punto di cadere perché minata.

Il modo più comune di impadronirsi di una fortezza per battaglia era la scalata, ossia l’avvicinamento di scale alle mura, con attacco protetto dal tiro di balestrieri, arcieri e frombolieri. Ma era un modo pericoloso e difficile se non attuato di sorpresa, pertanto questo tipo di attacco avveniva soprattutto di notte e nei luoghi più accessibili e meno sorvegliati. Si trattava di scale mobili smontabili: ogni uomo, in silenzio, ne portava un pezzo fin sotto il punto scelto nelle mura, dove ogni parte veniva assemblata. Spesso, in questo modo alcuni uomini potevano penetrare nella fortezza e aprire le porte al resto dell’esercito. L’attacco per scalata, però, poteva avvenire anche in presenza del nemico, con cui si dava vita ad audaci imprese. Nei casi, invece, in cui l’attaccante era in stato di inferiorità, si cercava complicità all’interno per penetrare con l’inganno e il tradimento. In particolare, l’inganno era molto usato nei casi di luoghi fortificati imprendibili senza un lunghissimo assedio che avrebbe richiesto un impiego sproporzionato di tempo, uomini e mezzi. Un esempio di inganno è quello usato da Roberto il Guiscardo, alla fine dell’XI secolo: si finse morto, chiedendo di essere sepolto in un monastero all’interno delle mura; il desiderio fu accolto ed egli durante il funerale si alzò, estrasse le armi e diede il segnale di attacco.

Ma gli assedi comportavano problemi anche per gli assedianti. Innanzitutto, era difficile assediare grandi città. Se poi l’assedio si prolungava più del previsto, il primo nemico dell’esercito era la noia che stancava i soldati, inducendoli a desistere dal loro intento. Inoltre, vi era la necessità di vettovagliare l’esercito per tutto il periodo dell’assedio e questa difficoltà costituiva spesso una speranza per gli assediati.

Dal canto loro, gli assediati rispondevano alle macchine da lancio con il tiro delle proprie artiglierie, utilizzavano fossati molto profondi e pieni d’acqua per prevenire lo scavo di gallerie e lanciavano o portavano fuori il fuoco contro i mezzi bellici nemici. Per lanciare il fuoco si usavano sifoni, frecce incendiarie; con le macchine da getto e le olle di terracotta, veniva lanciato materiale incendiario, come blocchi di metallo incandescente o miscele incendiarie. Esistevano tre tipi di fuoco per la guerra. Il fuoco semplice era costituito soltanto da legna, il fuoco artificiato comprendeva legna trattata con sostanze idonee ad agevolare o potenziare la combustione, come resina, pece bollente, grassi, zolfo, ecc. Poi vi era il cosiddetto fuoco greco, una speciale miscela incendiaria di difficile definizione che produceva un fuoco inestinguibile, poiché resistente all’acqua. In ultimo, gli assediati alle strette che però non intendevano arrendersi, ricorrevano alla fuga nella notte, che avveniva calandosi dall’alto delle mura o aprendo brecce alla loro base.

La presenza di numerose fortezze portò gli eserciti a evitare il più possibile (ma non sempre) le battaglie in campo aperto, dagli esiti più incerti. I comandanti preferivano operare di nascosto per cercare di sconfiggere i nemici lasciando incolumi i propri uomini, come fecero i comuni lombardi contro Federico II. Essi impedirono un combattimento libero in campo aperto chiudendo il passo all’esercito nemico in strettoie e ai passaggi dei fiumi. Una delle tecniche usate per ritardare la battaglia campale era il temporeggiamento. L’esercito, pur dichiarandosi pronto a combattere, in realtà si limitava ad aspettare che fosse l’altro a fare il primo passo. In questo modo, esibiva la propria forza con lo scopo di intimorire l’avversario: se lo scontro non avveniva era solo per la codardia dell’altro. Il tergiversare era poi dovuto anche alla divinazione astrologica, che serviva a scegliere il giorno e l’ora più favorevoli alla battaglia. Finché la battaglia si poteva evitare, veniva sostituita dalla parata in campo aperto, ossia dallo spiegamento delle proprie forze per intimorire il nemico, come fecero i Faentini nel 1207, i quali si disposero in una pianura, riuniti sotto le bandiere, invitando con gesti il nemico al combattimento. E la parata era usata anche davanti alle mura di città nemiche con lo scopo di provocare gli abitanti a uscire. Era quindi possibile affrontarsi senza battaglia, dimostrando la capacità di resistere di fronte al nemico e di operare davanti a esso senza che reagisse. Se quest’ultimo rifiutava apertamente di combattere o, dopo aver tergiversato, lasciava il campo, ammetteva la sconfitta. Spesso, quindi, l’ordinamento delle schiere era più importante del loro impiego sul campo, perché l’ordine, la compattezza e la disciplina potevano indurre il nemico a ritirarsi: l’esercito otteneva il risultato senza compromettere uomini e armi. Nella prima crociata, ad esempio, i guerrieri di Tancredi emersero da una valle davanti ai Turchi armati e inquadrati in modo perfetto: prima le punte delle lance, poi le aste, gli elmi, gli scudi e i torsi corazzati, finché non apparvero le sagome minacciose dei guerrieri a cavallo. Solo l’apparizione indusse i Turchi alla fuga. È quindi immaginabile la pressione psicologica che potevano avere sul nemico lo scintillare di armi e armature, i colori, la ricchezza dell’esercito, il numero di bandiere, le voci, il suono degli strumenti.

Ma come erano disposte le schiere? Innanzitutto, davanti, cavalieri e fanti non potevano superare i vessilli, che dovevano seguire rimanendone vicini; sul retro, invece, il limite era dato dalle insegne degli ufficiali guardaschiera. Poi, la posizione di ogni combattente corrispondeva a un ordine stabilito. Durante la marcia, dovevano procedere serrati, appena dietro alle bandiere, mentre in combattimento cavalieri e fanti erano disposti in righe, distanziate le une dalle altre, secondo quattro forme diverse. La forma quadrangolare giudicata la meno utile, quelle triangolari e a forbice, utili per attaccare un nemico numeroso, e quella rotonda, indispensabile per difendersi da un avversario più forte. Nelle prime righe di questi schieramenti, erano posti i combattenti meglio armati e più valorosi. Quanto all’addestramento delle reclute, avveniva direttamente sul campo di battaglia e durante le battagliole, in cui erano usate armi di legno e fitto lancio di pietre.

Bisogna ricordare, però, che cavalieri e fanti medievali non erano combattenti professionisti, ma uomini del popolo che venivano periodicamente sottratti (per qualche giorno o settimana) al lavoro quotidiano per affrontare una battaglia. Ciò rendeva molto problematico il mantenimento delle schiere davanti al nemico. Per questo gli statuti cittadini prevedevano disposizioni precisi in merito: nessuno poteva separarsi dalla schiera in vista del nemico, né poteva allontanarsi dalla battaglia, a pena di severe punizioni. In particolare, erano previste disposizioni severe per gli alfieri, ossia coloro che portavano le insegne, i quali non potevano mai ritirarsi dal combattimento, fuggire, né abbassare il vessillo. I disertori venivano puniti sul campo di battaglia, dovevano pagare multe salate, i loro nomi erano scritti (e le fattezze dipinte) nel palazzo comunale, con conseguente infamia ed esclusione perpetua dai pubblici uffici; in alcuni casi, si arriva fino all’amputazione del piede. Oltre che con le minacce di queste punizioni, l’esercito era mantenuto in riga anche con le percosse.

Un altro problema che angustiava i comandanti era il tempo migliore per muovere una campagna militare. Infatti, la temperatura doveva permettere di vivere all’esterno, le strade dovevano essere sgombre da fango e neve, gli animali dovevano trasportare foraggio fresco, mari e fiumi dovevano essere navigabili con sicurezza e le giornate dovevano essere lunghe a sufficienza. Pertanto, il momento migliore per iniziare una campagna era sicuramente la primavera e l’attività bellica si concentrava, solitamente, tra aprile e settembre. Ma l’estate poteva essere nociva, non meno dell’inverno, a causa di insolazioni, della polvere, della sete, della calura eccessiva, soprattutto sotto le armature, e degli insetti. Durante l’inverno, l’attività bellica era ridotta al minimo. Quanto al momento della giornata più propizio all’attacco, era l’alba perché vi era più possibilità di sorprendere un nemico non ancora pronto a difendersi. Di notte, invece, il combattimento era sospeso, sia per la stanchezza dei combattenti, sia per via del buio che impediva di riconoscere gli amici dai nemici. Tuttavia, durante la notte venivano svolte altre attività: la raccolta di informazioni negli accampamenti avversari, il sabotaggio di impianti nemici, la discussione di piani d’azione, la veglia in armi senza interruzione, lo spostamento di truppe, l’evasione di prigionieri e di guarnigioni assediate e, in generale, ogni genere di azione di sorpresa.

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Fatti storici

I secoli d’oro di Firenze. Storia della città del giglio nei secoli XII-XVI

Firenze. La culla del Rinascimento. Patria di Lorenzo de’ Medici, Michelangelo Buonarroti, Filippo Brunelleschi. Una delle più belle città del mondo. Città ricca di Arte e di Storia, in cui il visitatore ha l’impressione di viaggiare nel tempo.

Uno splendore costruito in tre secoli, tra il XIII e il XVI. Nonostante sorga in un ambiente poco felice, in una conca umida, dalle estati roventi e dai gelidi inverni, Firenze ha saputo conquistarsi la gloria eterna. Non senza fatica, soprattutto quando, nel Medioevo, la costruzione della Via Francigena fuori dalla sua portata la estromesse dai traffici commerciali. Ma la città riuscì ad affermarsi comunque negli affari, in particolar modo nella lavorazione della lana.

Ma come è arrivata ai giorni nostri questa splendida città?

Florentia nacque in epoca romana, nel 59 a.C. come un insediamento modellato a castrum militare, ossia un quadrangolo cinto da mura in cui vivevano circa quindicimila abitanti, costruito sulle due grandi strade del cardo maximus e del decumanus, al cui incrocio c’era il Campidoglio (oggi piazza della Repubblica). Verso il 570 cadde in mano dei Longobardi, periodo in cui si costruì la via Francigena che metteva in comunicazione la pianura padana con Roma e che lasciò la città fuori dal suo corso. Iniziò, così, un periodo di buio per Firenze, che durò fino al IX secolo quando il favore di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana alleata di papa Gregorio VII contro l’imperatore Enrico IV, consentì l’affermazione della città e la sua crescita economica. Ma Firenze restava, in Toscana, un centro ancora modesto, in cui la manifattura e il commercio superavano di poco il livello della sussistenza. Così, nel XII secolo partì alla conquista del contado e all’assoggettamento dei castelli dei dintorni, i cui casati dei cavalieri detentori venivano obbligati a diventare cittadini e ad abitare all’interno delle mura. La classe dirigente della città si arricchì delle famiglie guerriere del contado, che potarono a Firenze le case-torri e i costumi di faida e violenza. Con il contado pacificato e sicuro, prosperarono le attività mercantili e, nel 1182, si costituì la prima organizzazione dei mercanti, chiamata Arte. I mercanti acquistavano i panni di lana e il materiale tintorio e li raffinavano nelle botteghe per poi esportarli a prezzi maggiorati. E fu così che alla manifattura si affiancò l’attività di prestito del denaro. Con la crescita economica, anche la popolazione incrementò, tanto che lungo le strade che dalle porte andavano verso la campagna si crearono dei borghi, in cui si insediavano i nuovi arrivati. Empori, opifici e nuove case torri crebbero fuori dalle mura.

Quanto all’aspetto politico, dopo la morte di Matilde di Canossa, le istituzioni cittadine decollarono, determinando un governo autonomo de facto, distaccato da quello del Sacro Romano Impero, a cui Firenze era fedele. Fu creato il collegio dei consoli, al quale si aggiungeva il parlamento, ossia l’assemblea generale dei cittadini, con la funzione di ratifica delle decisioni. Ma a governare tra i consoli erano sempre le famiglie aristocratiche, le quali avevano difficoltà a governare in modo collegiale. Questa fu la motivazione che determinò una tensione continua che sfociava in frequenti episodi di violenza. Firenze era un campo continuo di battaglia in cui ci si contendeva il potere, il predominio di una famiglia sull’altra. I gruppi parentali si riunivano in associazioni che avevano tra loro rapporti matrimoniali, di affari o di amicizia e che abitavano nella stessa zona della città, che veniva fortificata con un sistema di edifici collegati e coronati da torri alte settantacinque metri. Era la cosiddetta società delle torri, i cui caratteri principali erano l’uso delle armi, le case-torri (ispirate alla pratica di guerra del contado) e il diritto alla vendetta. Le lotte interne tra le famiglie assunsero presto connotazioni più ampie e la lotta tra impero e papato servì come alibi per mascherare le lotte interne.

Oltre alla rivalità tra le famiglie aristocratiche che si alternavano nella gestione del potere, vi era anche il malcontento di quelle famiglie che restavano al di fuori delle consorterie e che ambivano a entrarvi o a rovesciare i meccanismi di potere. I primi furono gli Uberti che, nella seconda metà del XII secolo, si scagliarono contro il regime consolare, il quale si rivelò incapace di contenere queste ribellioni e che fu, perciò, abolito e sostituito con il regime podestarile. Il potere esecutivo venne quindi affidato a un magistrato forestiero, al quale si affiancarono un consiglio ristretto e uno allargato di cui facevano parte i capi delle Arti (ossia delle associazioni professionali). Il podestà doveva essere di condizione cavalleresca, buon capitano di guerra e avere conoscenze giuridiche, le quali si conseguivano all’università, frequentata solo dai membri delle famiglie aristocratiche; il podestà era, perciò, sempre un aristocratico. Con il consiglio allargato, però, entrarono nel panorama politico anche gli esponenti del Popolo, membri delle corporazioni. Prima fu l’Arte della Calimala (dei mercanti), poi fu la volta di quella del Cambio (banchieri), della Lana, della Seta e altre.

Nonostante l’ingresso del Popolo nel governo, gli scontri tra le fazioni non si attutirono e, nel 1216, l’incidente tra i Buondelmonti e i Fifanti polarizzò le antiche inimicizie in un sistema binario, che divenne la faida tra guelfi e ghibellini. Le scelte degli Uberti diedero agli schieramenti una connotazione ultra-cittadina: la loro fedeltà all’impero fece chiamare ghibellino il loro partito, al quale si contrappose quello dei guelfi, che significava generalmente anti-ghibellino e che, poi, passò a indicare i sostenitori del papa. A questi scontri, però, non partecipava il Popolo, anche se ne era coinvolto, soprattutto perché i popolani più alti che ambivano a una vita aristocratica e alcune famiglie di illustri natali ma di poco denaro, si imparentarono tra loro creando un nuovo ceto: i magnati. Nonostante l’instabilità politica, il moltiplicarsi delle attività economiche richiamò a Firenze una selva di uomini che andarono a incrementare la manodopera di opifici e botteghe e che costruirono nuovi borghi, dagli assetti miserabili e dalla posizione malsana, soprattutto a causa di zone paludose e inquinate. Al loro soccorso arrivarono gli Ordini mendicanti che si posizionarono in diversi punti della città, ognuno attorno a una piazza con la rispettiva chiesa: francescani, domenicani, serviti, carmelitani e agostiniani.

Gli scontri tra guelfi e ghibellini si intensificarono e ad essi si affiancarono le lotte con i grandi nobili del contado, quelle con le altre città (soprattutto Pisa e Siena) e quella contro i catari, svolta dall’Inquisizione gestita dagli Ordini mendicanti. Nel 1250, il partito ghibellino che governava la città venne rovesciato da un’insurrezione guelfa e le grandi famiglie che lo avevano appoggiato furono mandate in esilio, dando vita al periodo detto “del Popolo Vecchio”. L’assetto istituzionale mutò di nuovo e venne formato da due parti: da un lato il comune, guidato dal podestà, e i due consigli, dall’altro il Popolo guidato dal Capitano, forestiero e cavaliere, affiancato da altri due consigli (dei dodici, eletto dalle compagnie militari, e dei ventiquattro, di cui facevano parte i consoli delle Arti). Negli anni di questo governo guelfo fu riorganizzata la milizia, vennero create le nuove circoscrizioni, i sestieri, fu costruito il palazzo del Popolo (il Bargello), venne presentato il fiorino.

Ma circa dieci anni dopo, la battaglia di Montaperti, sfociata a causa del rifiuto della città di accettare l’egemonia di Manfredi di Svevia (che volle assoggettare la Toscana all’Impero), causò una crisi di governo. Nella battaglia, infatti, l’esercito guelfo fu sterminato, dando modo ai ghibellini esiliati di tornare in patria e di darsi a feroci vendette. Il governo di Firenze tornò nelle mani del partito ghibellino, guidato da Farinata degli Uberti. Non durò a lungo. Nel 1266, la caduta di Manfredi nella battaglia di Benevento e la conseguente vittoria di Carlo d’Angiò, sostenuto da papa Urbano IV, fece cadere i ghibellini. Tuttavia, alcuni pontefici successivi, in particolar modo Niccolò III, cercarono di arginare il potere di Carlo e favorirono alcuni ghibellini, i quali tornarono a Firenze, in un precario equilibrio con il governo guelfo. Questo assetto delicato portò il Popolo a premunirsi per non essere cacciato di nuovo dal potere, così i maggiorenti delle Arti della Calimala, del Cambio e della Seta ottennero che i loro rappresentanti affiancassero il governo comunale. Fu istituito il collegio dei sei priori delle Arti (uno per ogni sestiere) e venne riconosciuto il diritto delle Arti maggiori e mediane di avere un capo, detto gonfaloniere, un consiglio e dei reparti armati, e il diritto per i capi delle Arti di entrare nel consiglio del podestà. Era la vittoria di imprenditori e banchieri che erano riusciti a creare un governo in cui le associazioni professionali avevano una voce forte.

Tuttavia, questo nuovo governo popolano non piaceva ai membri dell’antica aristocrazia cavalleresca e alle famiglie che con loro si erano imparentate. Si creò, così, un conflitto sociale tra i magnati (ossia, non solo gli aristocratici, ma anche chiunque potesse attentare alla supremazia del Popolo nel governo cittadino grazie a ricchezza e prestigio) e il Popolo. I primi cercarono di recuperare lo svantaggio politico alimentando la guerra contro i ghibellini che era rinata nel 1288 e che portò, con la battaglia di Campaldino dell’anno successivo, a una nuova ascesa delle famiglie guelfe magnatizie (ricche). Ma contro di esse, nacque un movimento popolano volto sottrarre loro il potere, che portò all’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293, ossia una serie di norme che stabilirono l’impossibilità di essere eletti come priori o membri dei consigli per i magnati. Il Popolo voleva evitare che le famiglie ricche potessero, attraverso il prestigio, il peso politico e il denaro, attentare alla sua supremazia nel governo. Tuttavia, l’alleanza con il papa delle famiglie guelfe portava grande afflusso di denaro alle banche fiorentine, pertanto i guelfi andavano in qualche modo tollerati. Gli Ordinamenti vennero così emendati due anni più tardi, permettendo ad alcuni magnati di accedere alle Arti e, perciò, al governo.

A garanzia di questo nuovo assetto di governo, per impedire che i magnati guelfi approfittassero della loro posizione nei consigli, fu posto il gonfaloniere di giustizia, un magistrato supremo del collegio dei priori. Si formò così una élite composta da antiche famiglie e nuovi ricchi che aspiravano alla vita aristocratica e che si proponevano come banchieri e appaltatori di tasse, riunendosi in compagnie, ossia società bancarie e commerciali che prendevano il nome dalla famiglia che contava di più. All’inizio del Trecento non esistevano più le consorterie di famiglie guelfe e ghibelline, ma le compagnie di ricchi pronti a egemonizzare il governo delle Arti. Esse gestivano anche i depositi di speculatori stranieri e degli istituti ecclesiastici, nonché il prestito internazionale di importanti somme.

La lotta politica, però, non si era attenuata. Dopo Campaldino, il partito guelfo si era scisso in due fazioni: la famiglia dei Cerchi guidava i guelfi bianchi, mentre i Donati, guidavano i guelfi neri. Nel 1302, i guelfi neri uccisero ed esiliarono i bianchi, ma una serie di problematiche tra loro e con i ghibellini portò, nel 1325, il Popolo Grasso (ossia i membri delle famiglie più influenti) a chiedere aiuto al re di Napoli, il quale affidò la signoria di Firenze a suo figlio Carlo d’Angiò per dieci anni.

Si chiuse, così, uno dei periodi più splendidi per la vita artistica, urbanistica e culturale della città, nel quale Arnolfo di Cambio fu protagonista. Firenze era diventata una delle città più popolose dell’Occidente, erano stati costruiti una nuova cinta muraria, il palazzo dei Priori (Palazzo Vecchio), il battistero, la basilica di Santa Maria del Fiore. Era stata la Firenze di Dante, Cimabue e Giotto.

A metà del Trecento, le compagnie fiorentine prestavano denaro ai papi, ai re di Francia e Inghilterra e a tutti i signori d’Europa; le botteghe raffinavano il 10% di tutti i panni di lana prodotti in Occidente. Banca, commercio e manifattura si sostenevano a vicenda. Calimala, Cambio e Lana dominavano la città. Eppure, l’avvio della guerra dei Cent’anni portò all’insolvenza del re inglese Edoardo III, a cui le compagnie avevano concesso ingenti prestiti, e molte di esse fallirono, prostrando la città. La situazione era difficilissima. Per un breve periodo, la signoria fu affidata a un nobile francese (che venne poi abbattuto con una serie di congiure), nella speranza di rimediare alla situazione di emergenza. Dopo la sua cacciata, la signoria tornò nelle mani del Popolo Grasso e i suoi organi fondamentali furono il gonfaloniere, gli otto priori, il consiglio dei Buoniuomini (degli anziani) e quello dei sedici, i gonfalonieri di compagnia. Tuttavia, le difficoltà politiche ed economiche avevano determinato una fase di rallentamento in tutti gli aspetti della vita cittadina, aggravati anche dall’epidemia di peste del 1348. La città fu flagellata, poi, da annate di grave carestia e da frequenti passaggi delle Compagnie di Ventura e questo stato di cose provocò agitazioni dei ceti subalterni, che vivevano in condizioni miserabili, come il tumulto dei Ciompi del 1378. I ciompi, ossia i sottoposti all’Arte della Lana, si rivoltarono per ottenere salari e condizioni di vita migliori, nonché il riconoscimento giuridico e istituzionale del loro stato. Questa rivolta portò alla creazione di tre nuove Arti, dei ciompi, dei farsettai e dei tintori.

Tuttavia, pochi anni dopo, il Popolo Grasso ristabilì un ordine oligarchico, in cui i protagonisti erano gli Albizzi, i quali smantellarono gli schieramenti famigliari opposti, finché la lotta si radicalizzò tra gli Albizzi, che rappresentavano la vecchia oligarchia, e i Medici, capi della compagnia della Calimala, a cui guardavano i nuovi cittadini e gli esponenti di Arti mediane e minori. A questa lotta si legò l’istituzione del catasto, ossia il sistema organico di tassazione basato sui capitali e sui redditi mobili e immobili. Esso sovvertiva il precedente sistema basato su imposte indirette e tasse sul patrimonio, in cui la finanza pubblica si reggeva sui dazi alle merci e ai comuni. Con il catasto, si andò ad attingere ai forzieri delle grandi famiglie e il primo sostenitore del nuovo sistema fu Giovanni de’ Medici. Egli si inimicò, così, ancor di più gli Albizzi che, a quel punto, erano obbligati a pagare.

Quando Giovanni morì, la guida della compagnia e della fazione medicea passò al figlio Cosimo, con il quale iniziò la fortuna politica della casata. Egli, infatti, nonostante l’avversione di Rinaldo degli Albizzi che riuscì a farlo incolpare di fallimento e a farlo esiliare, godeva del pieno favore della signoria. Fu un grande mecenate e un abile banchiere e politico. Alla sua morte, gli succedette il figlio Piero, anch’egli abile in affari e politica, ma di salute cagionevole. Dopo cinque anni, morì lasciando il comando ai giovani figli Lorenzo e Giuliano. Se Giuliano restò un po’ nell’ombra, Lorenzo il Magnifico fu un grande statista e diplomatico, un cultore delle lettere e ottimo mecenate, ma purtroppo non era abile negli affari e, sotto la sua guida, fallirono alcune filiali del banco mediceo. In questo periodo, Firenze non crebbe né in popolazione né in perimetro urbano, ma si arricchì di magnifiche opere d’arte e visse in un’atmosfera allegra e giocosa, grazie all’incoraggiamento del Medici alle feste.

Due anni dopo la morte di Lorenzo, nel 1494, il banco dei Medici fallì e suo figlio Piero, che ne aveva preso il posto, fu cacciato dalla città per non essersi opposto alla discesa delle truppe del re francese Carlo VIII. Firenze visse, così, quattro anni di lotte tra i seguaci del frate domenicano Girolamo Savonarola (i “piagnoni”) e i suoi avversari (gli “arrabbiati”, sostenitori di una repubblica oligarchica, e i “palleschi”, sostenitori del ritorno dei Medici). Savonarola voleva una città purificata dal peccato, con un regime popolare guidato dal Consiglio Maggiore, predicava la penitenza, fomentando roghi degli oggetti di lusso. Ma il suo predicare non piaceva a papa Alessandro VI Borgia che lo scomunicò e lo condannò a morte per eresia.

Caduto il domenicano, la Repubblica resuscitò con la creazione del gonfaloniere a vita, nella persona di Pier Soderini. Ma la repubblica (celebrata dal David che Michelangelo scolpì in questi anni) si appoggiava alla corona di Francia e, nel clima europeo caratterizzato dalle guerre tra Francia e Spagna, non durò a lungo. Infatti, nel 1512 un esercito spagnolo riportò in città i Medici e Firenze cadde in mano a un altro figlio del Magnifico, il cardinale Giovanni de’ Medici, e l’anno successivo passò al fratello Giuliano, duca di Nemours, quando il primo fu eletto papa Leone X. Nel 1516, alla morte di Giuliano, il governo passò al figlio di Piero (che era stato cacciato), Lorenzo duca d’Urbino, il quale però morì due anni dopo. Il governo allora toccò a suo figlio Alessandro e al cugino, il cardinale Ippolito (figlio di Giuliano di Nemours). Grazie ai posti occupati nello stato pontificio da Leone X prima e da Clemente VII poi (al secolo, Giulio de’ Medici, figlio del fratello del Magnifico, Giuliano), l’economia di Firenze rifiorì. Ma nel 1527, quando Clemente VII si alleò con la Francia contro Carlo V che saccheggiò Roma, Firenze insorse e cacciò nuovamente i Medici: il popolo non avrebbe più tollerato un sovrano. Il papa, però, non era felice di questo nuovo esilio, così, dopo la riappacificazione con Carlo V, gli chiese di riportare l’ordine nella sua città. I fiorentini resistettero per undici mesi agli assalti dell’esercito spagnolo, con Michelangelo in prima fila a dirigere i lavori di fortificazione. Tuttavia, dovette arrendersi, ma l’ardore popolare dimostrato dalla città fece capire al papa che serviva qualcosa di più forte dei meccanismi politici con cui avevano governato in precedenza. Così, nel 1532, Firenze fu trasformato dall’imperatore in ducato e la corona fu affidata ad Alessandro figlio di Lorenzo di Urbino. Cinque anni dopo, egli fu assassinato, estinguendo la discendenza diretta di Cosimo. Il ducato, allora, passò a un esponente del ramo cadetto della famiglia, Cosimo I, figlio di Giovanni dalla Bande Nere. Cosimo governò con saggezza e creò uno stato toscano uniforme, con fortezze e regge in tutta la Toscana di cui divenne granduca, grazie alla nomina pontificia a granducato. Avviò grandi lavori di bonifica, sviluppò l’urbanistica, favorì il porto di Livorno, fondò l’Ordine di Santo Stefano per combattere i pirati, trasferì la corte a Palazzo Pitti, creò l’Accademia fiorentina e quella della Crusca. Furono gli anni del Giambologna e di Benvenuto Cellini, dell’Ammanati e di Vasari. Anni che chiusero i secoli d’oro di Firenze, quelli in cui fu costruito e realizzato tutto ciò che, oggi, migliaia di turisti da tutto il mondo vengono a vedere con i propri occhi.

D’ora in avanti, quando passeggerete per le strade di Firenze, fermatevi un secondo e provate a tendere l’orecchio. Vi sembrerà di sentire le urla del popolo durante gli scontri tra i guelfi e i ghibellini, il tintinnare dei fiorini sui banchi delle famiglie di banchieri, le prediche di Savonarola, il rumore degli scalpelli sul marmo. Vi sembrerà di scorgere Michelangelo davanti a Palazzo Vecchio, intento a controllare il suo David (che oggi è custodito alla Galleria dell’Accademia), o Lorenzo il Magnifico che varca il portone del suo palazzo in via Larga (oggi è via Cavour).