recensione

Costanza di Svevia. Il ritorno della regina.

Costanza di Svevia

Costanza di Svevia. Il ritorno della regina” di Chiara Curione, edito da Edizioni Tripla E, ci porta in Sicilia alla fine del Duecento.

Il contesto storico nel quale si inserisce la vicenda dell’ultima erede della casata di Svevia è quello della lunga guerra che infiammò l’area del Mediterraneo nella seconda metà del XIII secolo e che ebbe avvio con i Vespri Siciliani. All’indomani della rivolta dei Vespri, in cui il popolo siciliano si ribellò all’oppressore francese Carlo d’Angiò, venne per Costanza il momento di riprendersi il regno che era stato di suo padre e suo nonno. Costanza è la nipote dell’imperatore Federico II ed è sposata con il re d’Aragona Pietro III che, una volta tornati in Sicilia, le affida la reggenza dell’isola, in condivisione con il loro secondogenito Giacomo. È una regina saggia, lungimirante e giusta, ma è anche una donna bella, dolce, tenace e determinata. Ma il suo sogno si rivela non privo di insidie. Il percorso per tornare a regnare serenamente sulla terra che è casa sua diventa, infatti, una lunga battaglia contro Carlo d’Angiò, il quale si giova dell’appoggio di papa Martino IV. La regina si ritrova, così, ad affrontare le sfide e i problemi della reggenza, a dover prendere decisioni difficili cercando di mantenere quella saggezza che aveva contraddistinto la sua famiglia d’origine e cercando di essere una giusta guida per suo figlio.

Costanza, però, non è l’unica protagonista femminile di questo romanzo. Vi sono, infatti, altri due personaggi di spicco. Il primo è un personaggio storico, la diretta antagonista della regina, Macalda Scaletta la baronessa di Ficarra, moglie del Gran Giustiziere del regno. Una donna astuta, ambiziosa e cinica, pronta a qualsiasi cosa pur di liberarsi dal dominio aragonese. L’altra donna, invece, è frutto di una leggenda (non si ha, infatti, certezza della sua esistenza) ed è ispirato alla figura storica di Trotula de Ruggero. Si chiama Imelda, è la figlia di Giovanni da Procida, medico di corte, e ha studiato medicina alla scuola di Salerno delle Mulieres Salernitanae. È una donna che rifiuta le convenzioni del suo tempo, che vedono nel destino femminile soltanto il matrimonio o la vita monastica.  

Di questo romanzo, si apprezza molto la ricostruzione dell’ambientazione che, senza ricorrere a lunghe descrizioni, ma rimanendo semplice e incisiva, riesce a far respirare al lettore aria di Medioevo. L’autrice ha, infatti, saputo dosare con cura i dettagli in grado di restituirci l’atmosfera di quell’epoca. Il contesto storico, poi, è delineato in modo preciso e competente e permette di comprendere la situazione sociopolitica dell’Europa della seconda metà del Duecento. La narrazione è delicata e incalzante allo stesso tempo; la prosa è assolutamente coerente con il periodo narrato ed è caratterizzata da dialoghi avvincenti e centrati che inducono il lettore a scorrere tra le pagine senza stancarsi mai. In questo romanzo, ritroviamo tutte le figure tipiche della società medievale (dai nobili ai cavalieri, dagli inquisitori alle monache) e, nel coro di voci che lo popolano, la buona caratterizzazione dei personaggi permette di addentrarsi nella narrazione senza alcun problema.

È necessario segnalare anche l’utilità dell’introduzione, che permette al lettore di meglio comprendere il quadro storico nel quale si innesta la vicenda del romanzo, così come dell’elenco dei personaggi posto alla fine che fa chiarezza tra personaggi storici e immaginari.

Costanza di Svevia. Il ritorno della regina” è un romanzo storico in piena regola; una lettura che ha il sapore dei romanzi cavallereschi, pittoresca e delicata. Davvero molto piacevole e consigliata a tutti i lettori che hanno voglia di fare un viaggio nel Medioevo italiano.  

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Fatti storici

La battaglia di Lepanto

È il 7 ottobre 1571 e, nel Mediterraneo, sta per svolgersi la più grande battaglia navale che le sue acque abbiamo mai ospitato.

Due flotte gigantesche, da duecento galere ciascuna, stanno per scontrarsi; a bordo ci sono cinquanta mila uomini per ogni flotta: da una parte, le navi musulmane dell’Impero ottomano, dominatore dei mari, dall’altra quelle cristiane della neonata Lega Santa, voluta da papa Pio V (al secolo Antonio Ghisleri) e stretta con la Repubblica di Venezia e l’impero spagnolo, governato da Filippo II, che riunisce sotto lo stesso comando anche la repubblica di Genova, i cavalieri di Malta, i ducati di Savoia, Urbino e Lucca e il granducato di Toscana.

È il momento che Pio V aspettava da anni: è la grande occasione per coalizzare le potenze cristiane per sconfiggere i turchi; “È la volta che spezzeremo le corna a quell’indomita bestia”, disse, riferendosi al Sultano. E l’appiglio per realizzare l’impresa venne dalla presa di Famagosta, la città veneziana sull’isola di Cipro assediata dai turchi e strenuamente difesa dalla guarnigione locale comandata da Marcantonio Bragadin e Astorre II Baglioni. Cipro è, infatti, l’estrema punta del dominio veneziano e i turchi la rivendicano, anche perché divenuta ormai base per i pirati cristiani che attaccano le navi turche. L’impero ottomano è all’apice del suo splendore e vuole riprendere il dominio dell’isola e si sente legittimato a farlo anche dal favore della popolazione locale che percepisce un’eccessiva ingerenza da parte dei veneziani.

Occorre, quindi, soccorrere materialmente Famagosta. Ma questo è soltanto il pretesto; in gioco c’è il controllo del Mediterraneo. Il dominio ottomano, infatti, è in crescente espansione e minaccia i governi dell’occidente, soprattutto i possedimenti veneziani del Mare Nostrum; inoltre, la pirateria turca lede gli interessi spagnoli. E queste preoccupazioni sono ciò che il papa aspettava per la sua nuova Crociata.

Nel settembre del 1571, la flotta della Lega si raduna, così, a Messina e prende il largo verso il Levante. Qui, vengono raggiunti dalla notizia che Famagosta è caduta in mano ai musulmani, i quali hanno riservato una fine orribile al senatore Bragadin: lo hanno mutilato al viso, mozzandogli naso e orecchie, poi lo hanno rinchiuso per dodici giorni in una minuscola gabbia lasciata al sole, con pochissima acqua e cibo; al quarto giorno, gli hanno proposto la libertà in cambio della conversione all’Islam, ma lui ha rifiutato, quindi lo hanno appeso all’albero della nave e lo hanno massacrato con cento frustate, poi lo hanno costretto a portare in spalla per le strade di Famagosta una cesta piena di sabbia e pietre finché non ha avuto un collasso; allora, lo hanno incatenato a una colonna nella piazza principale e lo hanno scuoiato vivo, partendo dalla testa e poi lo hanno decapitato. La sua pelle è stata poi riempita di paglia, innalzata sulla galea del Pascià e portata a Costantinopoli come trofeo.

Il 6 ottobre le navi cristiane giungono davanti al golfo di Lepanto. Gli ammiragli sanno che la flotta turca è in difficoltà, provata dalla campagna appena conclusa nel Mediterraneo per la conquista dei porti veneziani: il malcontento serpeggia nelle navi, la flotta è logora, sono stremati dal tifo, hanno consumato molte munizioni. La Lega Santa invece è intatta, le galere non hanno ancora sparato un solo colpo. All’alba del 7 ottobre, i turchi eseguono l’ordine di Costantinopoli di affrontare i miscredenti ed escono dal porto. Al mattino, entrambe le flotte si vedono avanzare l’una contro l’altra.

La battaglia ha inizio!

I cristiani portano avanti le sei galeazze veneziane, ossia galere più grandi ma pesantemente armate con quaranta cannoni ciascuna, allo scopo di rompere la formazione nemica. Centrano l’obiettivo mandando a picco alcune galere turche. Quando, a mezzogiorno, le navi si avvicinano e si speronano, inizia la battaglia tra le fanterie: i giannizzeri turchi si scontrano, a bordo delle galere, con la fanteria cristiana più potente e corazzata. Ora, si combatte su galere lunghe quaranta metri e larghe cinque. I soldati cristiani sparano con gli archibugi, mentre i giannizzeri rispondono soprattutto con le frecce. L’obiettivo è riuscire ad abbordare il nemico e combattere sul suo ponte a colpi di spada fino a uccidere o gettare in mare tutti gli avversari. In questo modo, i cristiani hanno la meglio e, progressivamente, conquistano e catturano le galere del nemico.

All’ora di sera, la flotta ottomana è distrutta (ad eccezione della squadra dei pirati algerini, che prende il largo portando con sé qualche galera cristiana), mentre la flotta della Lega Santa ha perso pochissime galere. Delle cinquanta mila persone a bordo delle navi turche, solo qualche migliaio di schiavi cristiani viene salvato, mentre il resto muore nella battaglia.

La Lega Santa ha riportato un’importantissima vittoria sull’Impero ottomano! Tuttavia, la battaglia di Lepanto non riuscì a segnare una svolta importante nel contenimento dell’espansionismo turco. Ebbe, però, un importante valenza psicologica in quanto fu la prima grande vittoria di una flotta cristiana occidentale contro l’Impero ottomano.

Consigli di lettura: se volete leggere un romanzo relativo a questa battaglia, vi consiglio “Leoni da Mar” di Andrea Zanetti, edito da Piazza Editore; se preferite un saggio, è perfetto per voi “Lepanto. la battaglia dei tre imperi” di Alessandro Barbero, edito da Laterza Edizioni.

recensione

Una nuova indagine per Marco Leon: “Le ragioni dell’ombra” di Paolo Lanzotti

Venezia, 1753. A metà del XVIII secolo, la Serenissima non è più quella di Lepanto, non è più una delle grandi potenze d’Europa, ma galleggia cercando di mantenere un precario equilibrio di neutralità tra i potenti. La gloria del passato è svanita e il peso di questo piccolo stato europeo non conta quasi più nulla. È debole, Venezia. Fatica a barcamenarsi tra i colossi come Francia e Inghilterra e il suo equilibrio è sempre più precario. Ed è in questo contesto storico che Paolo Lanzotti incastona il suo nuovo giallo “Le ragioni dell’ombra”, edito da Tre60, architettando una nuova e serrata indagine dell’agente dell’Inquisizione Marco Leon. Abbiamo conosciuto il Leone di Venezia nel precedente romanzo “I guardiani della laguna”: Marco, agente segreto dell’Inquisizione, è il comandante degli Angeli Neri, quell’organo invisibile e silenzioso, di invenzione narrativa, che entra in gioco nei casi più spinosi per difendere la Repubblica. In questo secondo capitolo della saga a lui dedicata, lo troviamo all’indomani dello scioglimento degli Angeli Neri, per volontà del nuovo inquisitore Biagio Donà. Ma la Repubblica ha bisogno, per l’ultima volta, dei loro preziosissimi servigi. Alla vigilia dei festeggiamenti della Sensa, la sentita festa dell’Ascensione con il celebre rito dello Sposalizio del Mare, infatti, Venezia è scossa da una serie di omicidi che colpiscono il patriziato lagunare. È in atto un complotto internazionale? Una potenza europea cerca di minare l’instabile equilibrio della Serenissima colpendola al cuore? A queste e a molte altre domande dovrà rispondere proprio l’intrepido e arguto Marco Leon, insieme ai suoi fedeli Angeli, Lorenzo Viani e Gabriele Favia. Ne nasce, così, un’indagine avvincente e ricca di misteri che affondano nelle ombre della laguna, che si rivelerà, nel corso della lettura, una matassa sempre più fitta, impossibile da sbrogliare fino all’inaspettato epilogo.

Anche in questo capitolo, risulta magistrale la ricostruzione dell’ambientazione che catapulta il lettore nella Venezia del XVIII secolo con un grado di coinvolgimento pazzesco. “Gabriele Favia lasciò la riva e prese a camminare di buon passo alla luce della scarsa illuminazione pubblica e delle lanterne che ondeggiavano davanti alle locande come gigantesche lucciole nella nebbia. Venezia si preparava a consumare i riti della sera. I popolani stanchi si avviavano verso casa. Le donne si trattenevano nei campielli per l’ultimo pettegolezzo. Qualche noobilhomo incipriato si attardava nei caffè, mentre altri si accingevano a raggiungere la sala da gioco o il postribolo dove avrebbero trascorso la notte. All’alba sarebbero riemersi alla luce come fantasmi smunti e barcollanti.”  L’autore ci accompagna, così, nelle osterie al suono delle urla degli avventori, nei palazzi signorili dove le bocche sono cucite con il filo della fedeltà, nelle tipografie pronte a stampare le gazzette, nei ridotti dove il fruscio delle carte copre le risa delle dame. Grazie al bombardamento di suoni, voci, luci, odori e immagini, permette al lettore di percepire l’atmosfera calda e fumosa dei postriboli, l’odore della malvasia e del cognac, l’umidità dell’aria della laguna, donando la sensazione di muoversi sul palcoscenico della città di metà secolo. Si possono sentire i bisbigli nelle calli illuminate dalle lanterne, l’eco dei passi nelle fondamenta; si percepisce l’umidità della nebbia notturna sugli imbarcaderi del Canal Grande, si vedono le occhiate furtive delle comari alle finestre dei palazzi. Lo stile dell’autore è, infatti, notevolmente immersivo, perfetto per quanti vogliano trasportarsi in un passato unico e ineguagliabile.

La trama è avvincente e appassionante, ricca di colpi di scena e stravolgimenti che non permettono al lettore di trarre le conclusioni fino all’ultima pagina. Tra intrighi, vendette, interrogatori, pedinamenti, sparizioni e riferte, l’autore ci conduce verso la soluzione dell’indagine senza far mai trapelare indizi decisivi. Con una narrazione fluida, che alterna dialoghi incalzanti a descrizione suggestive, Paolo Lanzotti ci regala una trama in cui la suspense del giallo si amalgama al fascino di un’ambientazione storica ricreata con cura e precisione.

Se amate la Venezia libertina, sfacciata e a tratti immorale del Maggior Consiglio e del Consiglio dei Dieci, se volete sentire i passi dei Signori della Notte e le voci striscianti nel Palazzo Ducale, questo romanzo è quello che fa per voi. Perché leggere “Le ragioni dell’ombra” è come passeggiare tra le calli insieme al codega che rischiara il cammino, mentre ci sussurra la nuova missione del coraggioso e astuto Leone di Venezia!