
Siamo arrivati all’ultima tappa di questo viaggio all’interno del romanzo storico. Oggi affrontiamo un altro aspetto peculiare di questo genere: il linguaggio.
Un linguaggio che deve essere semplice e chiaro, mai ampolloso, ma deve anche dare l’impressione di trovarsi in un’epoca lontana. Per questo motivo, è necessario usare i termini corretti, come ad esempio, quelli degli abiti e degli oggetti, oppure il nome delle ore del giorno che devono essere quelli utilizzati nell’epoca narrata. Anche in questo caso, tutto è frutto di una ricerca accurata. Quindi, ad esempio, in un romanzo ambientato nel Quattrocento, non sarebbe corretto dire “incontriamoci alle tre”, ma “incontriamoci alla nona”, perché la misurazione del tempo nel Medioevo era differente. Questo processo di scelta dei termini corretti deve essere poi approfondito per evitare di scadere in luoghi comuni e parole/frasi superficiali, che rischiano di irritare il lettore per la loro banalità.
È necessario poi, evitare, tutte quelle espressioni che sono tipiche del linguaggio contemporaneo e che non avrebbero potuto essere pronunciate nell’epoca narrata, anche se ciò non significa, ovviamente, che il romanzo debba essere scritto nel modo in cui si parlava nel periodo storico in cui è ambientata la vicenda. L’autore, quindi, dovrebbe cercare di adeguare il tono e lo stile del linguaggio ai protagonisti, in particolare nei dialoghi. Questi, soprattutto nel romanzo storico, hanno il compito di caratterizzare i personaggi, rendendoli quasi vivi agli occhi del lettore, pertanto devono risultare credibili e coerenti con il contesto.
Ora, per l’ultima volta, lascio la parola ad Andrea Zanetti.
Un tasto dolente di alcuni romanzi storici è il linguaggio utilizzato nella narrazione che, in alcuni casi, non sembra essere appropriato all’epoca storica in cui si svolge la trama. In quale modo l’autore può adattare il tono e lo stile del linguaggio ai personaggi e al periodo narrato?
Ritengo sia una questione di scelta narrativa, primariamente, e talento in via accessoria. Ci sono romanzi molto “barocchi”, per così dire, intensi e complessi. Altri invece, tipicamente britannici o statunitensi, che narrano con assoluta precisione ma senza fronzoli evocativi. Entrambi possono diventare best seller. Io, che pur ho vissuto un’evoluzione dettata anche dall’esperienza via via conquistata, sono propenso a premiare il ritmo. E il ritmo si ottiene con semplicità ed efficacia. Ma lo stile è una cosa, l’oggetto narrativo è un’altra. I dettagli storici, ad esempio, possono compensare uno stile più contemporaneo.
Questo aspetto risulta centrale, poi, nei dialoghi. Capita, a volte, di imbattersi in romanzi storici basati su dialoghi nei quali l’autore/autrice si è limitato/a ad utilizzare ripetutamente alcuni vocaboli (come, ad esempio, i classici messere/madonna) nell’erronea convinzione di aver dato, così, credibilità alle battute. Quale lavoro ulteriore comporta la costruzione di dialoghi di un romanzo storico rispetto a quelli di altri generi?
Questo è un vero grattacapo. Una scelta stilistica pura. E che richiede solo una cosa: coerenza. Se si vuole scendere ad un livello molto attento e profondo nelle peculiarità del dialogo, va fatto in modo coerente e totale. A me le forme semplicistiche e ibride non piacciono perché si rischia di scadere, come dicevi tu, nella frivola ripetizione di luoghi comuni. Si può optare invece per un taglio più contemporaneo, pur facendo molta attenzione. Alcuni termini di uso comune oggi sono proprio impossibili da far pronunciare ad un personaggio vissuto trecento anni fa. Pur mantenendo un vocabolario moderno, va dato un senso del dialogo d’altri tempi, ad esempio con l’ausilio di più subordinate, e calibrato anche sull’estrazione sociale di chi parla. Nobili e popolani parlavano in modo notevolmente diverso.
Sempre parlando di dialoghi, nel romanzo storico, assolvono alla duplice funzione di caratterizzare il personaggio e far calare maggiormente il lettore nell’epoca narrata. Come si costruisce questo connubio? Quali difficoltà comporta?
Si deve essere consci che un uso desueto di una lingua appesantisce un po’ il ritmo. A volte, al lettore, servirebbe un dizionario a portata di mano. Andrebbe anche studiata molto la lingua teoricamente parlata dal personaggio (la lingua tedesca dell’Ottocento è molto diversa dal Latino dell’Impero Romano). Tutto il romanzo, a mio modo di vedere, deve avere una certa omogeneità, ma è d’effetto che un nobiluomo in Maggior Consiglio parli in modo sensibilmente più costruito di un brigante di campagna, ma nel complesso non debbono sembrare appartenere a due libri diversi.
Giunti al termine di questa avventura, ringrazio moltissimo Andrea Zanetti per aver dedicato del tempo a questo progetto e tutti voi per averci seguiti fin qui!