Un libro è un amico, un compagno di viaggio e di avventura, un forziere di emozioni; dona la possibilità di vivere la realtà che preferiamo, di conoscere e viaggiare nel tempo e nello spazio.
Nel linguaggio comune, quando si vuole indicare due acerrimi nemici, si è soliti additarli come guelfi e ghibellini, ossia come i membri delle due fazioni che si scontrano nella Firenze (e in tutta la Toscana) del XIII secolo,
Ma quale fu la loro storia? Come nacque questo conflitto?
L’origine delle fazioni sarebbe stata causata da un mancato matrimonio. Come ci raccontano Dante e altri cronisti dell’epoca, infatti, nel 1216, il giovane cavaliere Buondelmonte de’ Buondelmonti, promesso sposo della figlia di Lambertuccio Amidei, membro di una ricca e potente famiglia, oltraggiò quest’ultima non presentandosi il giorno delle nozze nella chiesa di Santo Stefano dove era atteso, ed anzi recandosi nella chiesa di Santa Reparata per sposare un’altra donna. Un’onta che la famiglia della promessa sposa abbandonata non poté esimersi dal lavare con il sangue del giovanotto. Così, il cavaliere venne affrontato e ucciso, sotto la statua posta a capo di Ponte Vecchio, da alcuni membri della famiglia Amidei e di altre ad essa legate da parentela o relazioni di clientela (le consorterie). Le più importanti famiglie fiorentine si schierarono così a favore di uno o dell’altro: gli Uberti e i Lamberti si coalizzarono con gli Amidei, mentre i Donati e i Pazzi con i Buondelmonti.
Da questo episodio, nacquero quindi le due fazioni contrapposte, che si sovrapposero a quella divisione diffusa in tutta Italia che vedeva lo scontro tra i sostenitori della Chiesa e quelli dell’Impero. Inoltre, alle origini di questa faida stava, probabilmente, anche la rivalità tra le antiche famiglie cittadine e quelle nuove inurbate, arrivate in città alla ricerca di potere e ricchezze.
Quanto alla terminologia, la parola guelfo compare nel 1239 e ghibellino nel 1242 e derivano dalla corruzione dei nomi di due famiglie rivali, in lotta per la successione imperiale del XII secolo, alla morte di Enrico V, nel 1125: i Welfen e gli Hohenstaufen. Inizialmente entrambi i partiti erano imperiali: i guelfi sostenevano Ottone IV di Brunswick e i ghibellini parteggiavano per Federico II di Svevia. Fu soltanto con lo scontro tra Federico Barbarossa e il Papato che i ghibellini diventarono i sostenitori dell’Imperatore e i guelfi quelli del Papato.
Dal momento in cui le famiglie di Firenze si divisero in due fazioni, la città, che in quel momento era in pieno sviluppo economico, non ebbe pace, scossa da una sanguinosa e secolare diatriba, che si ripercosse anche sull’aspetto della città, a causa dell’abbattimento delle torri dei vinti.
Dal 1115, dopo la morte della contessa Matilde di Canossa, Firenze si costituì in comune, riconosciuto poi dall’Imperatore nel 1183. Nel 1200 il governo si trovava due fronti di lotta: da una parte il conflitto interno tra i diversi ceti sociali e, dall’altra, quello esterno con le città rivali. Per questo motivo si passò al governo del podestà, al quale, successivamente, si affiancò il capitano del popolo, rappresentante del Primo Popolo, ossia di un gruppo di trentasei cittadini che non appartenevano a nessuno degli schieramenti.
Il punto cruciale, che vide la scissione sempre più netta, fu la scomunica che papa Gregorio IX comminò all’Imperatore Federico II nel 1239, che portò i guelfi a schierarsi con il primo e i ghibellini a favore dell’Imperatore. In quel momento, i ghibellini erano molto forti e i guelfi, impossibilitati a contenere i propri nemici, scelsero il volontario esilio.
Nel successivo susseguirsi degli scontri civili, quasi sempre furono i ghibellini a imporsi, costringendo i nemici ad abbandonare la città, almeno fin quando furono protetti da Federico II. Il loro predominio su Firenze cessò definitivamente nel 1266, dopo la battaglia di Benevento, nella quale le truppe guelfe di Carlo d’Angiò ebbero la meglio. Da quel momento, furono i guelfi a governare la città e la Toscana: ultimo baluardo ghibellino era rappresentato da Arezzo. Nel 1289, Firenze dichiarò guerra a quest’ultima, affrontandola nella battaglia di Campaldino, nella quale combatté anche Dante Alighieri, e che vide i ghibellini sopraffatti dalle forze guelfe.
Nonostante il dominio guelfo, Firenze rimase comunque divisa in fazioni: da una parte, i Bianchi, riuniti intorno alla famiglia dei Cerchi, fautori di una moderata politica filo papale, che riuscirono a governare dal 1300 al 1301; e, dall’altra, i Neri, il gruppo dell’aristocrazia finanziaria e commerciale più strettamente legato agli interessi della chiesa, capeggiato dai Donati, che salirono al potere con l’aiuto di Carlo di Valois, inviato dal papa Bonifacio VIII.
Chiunque abbia letto un romanzo storico o abbia visto un film ambientato nel Medioevo si sarà imbattuto nel cosiddetto ius primae noctis, ossia il diritto del signore feudale di consumare con la moglie del contadino a lui sottoposto la prima notte di nozze.
In realtà, oggi sappiamo che questo diritto non è mai esistito. Infatti, non viene citato in alcuna fonte documentale o letteraria.
Innanzitutto, nella letteratura medievale non vi è traccia di tale presunto diritto. E questo è un primo dato importante, in quanto le novelle medievali erano estremamente realistiche e alquanto esplicite; i loro autori non avevano alcun tipo di remora nel raccontare soprusi e nello scrivere di sesso. Quindi se un diritto così odioso dei signori fosse esistito, sicuramente gli autori di novelle ne avrebbero citato qualche episodio.
Allo stesso risultato ha condotto il lavoro di ricerca degli studiosi sulle fonti documentali.
Il diritto alla prima notte, infatti, è conosciuto come uno degli obblighi del contadino verso il suo signore. Degli obblighi feudali, soprattutto di quelli considerati più sgradevoli e delle relative doglianze, si hanno una moltitudine di fonti e documenti; durante il Medioevo sono stati contestati tantissimi obblighi nei confronti dei signori, giungendo persino a reclamare presso il re. Per tutti questi doveri i contadini sono stati disposti a pagare una somma affinché venissero eliminati. Dello ius primae noctis, però, non vi è traccia in alcun documento.
In sostanza, per tutto il Medioevo non esiste alcuna testimonianza che parli di qualcosa che assomigli al diritto alla prima notte.
Ma allora da dove deriva questa falsa credenza?
Lo ho spiegato in modo eccellente il professor Alessandro Barbero in un intervento al Festival della Mente di Sarzana (SP) del 2013.
La prima menzione di una pratica somigliante allo ius primae noctis si trova in un documento francese del 1247, del villaggio di Verson, in una lista degli obblighi degli abitanti di un villaggio nei confronti del signore. Tra questi vi è indicato il dovere di pagare una tassa quando la figlia di un abitante di quel villaggio sposava un ragazzo di un altro villaggio. Tasse simili erano divenute prassi diffusa per disincentivare i matrimoni con persone estranee al villaggio, sulle quali sarebbe stato più difficoltoso, per il signore, mantenere il controllo. Questo elenco fu, poi, tradotto da un monaco in una poesia nella quale egli aggiunse che, in epoche precedenti (“i brutti, vecchi tempi”), veniva richiesto ben più di quanto esigeva il signore di Verson e che l’esborso era talmente elevato che i padri delle fanciulle preferivano dare la loro figlia al signore pur di non dover sostenere quelle spese. Si trattava, però, non di un diritto del signore, ma soltanto di un modo per i contadini di sgravarsi dall’onere della tassa imposta.
Vi sono, poi, i casi dei cronisti delle città fondati da gruppi di contadini fuggiti dalle signorie. Questi cronisti, tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, iniziarono a raccontare le storie delle loro città, spiegando come i loro antenati si fossero staccati dai vecchi signori a causa della loro crudeltà e malvagità, che arrivava, addirittura, a deflorare le fanciulle e le spose in caso di mancato pagamento delle tasse. Si giunse, così, ad utilizzare questa diceria per descrivere la cattiveria dei signori ai quali si erano ribellati; questo ius primae noctis era, quindi, qualcosa che accadeva in un tempo lontano, in una società diversa e peggiore.
Inoltre, questo diritto, con l’avvento delle grandi conquiste del Cinquecento, iniziò a circolare nelle relazioni dei grandi conquistatori, che lo indicavano come un comportamento praticato dai selvaggi delle terre conquistate, per sottolinearne l’immoralità, la nefandezza. In questi modi, lo ius primae noctis iniziò a circolare, divenendo l’argomento principale per descrivere i mondi che consideravano barbari, dal passato medievale al presente dei selvaggi.
Nel Cinquecento, poi, i giuristi iniziarono a studiare le consuetudini feudali e i diritti dei signori iniziarono ad essere considerati come qualcosa da eliminare. La tassa sul matrimonio, che conviveva con gli altri obblighi, doveva essere spiegata, così, i giuristi immaginarono che prima di tale balzello fosse dovuto un contributo in natura, poi riscattato dai contadini e tramutato in onere economico. E nei trattati giuridici, lo ius primae noctis veniva riferito come dato certo, anche se in realtà era frutto di congetture del giurista e non risultante da fonti scritte.
Nel Settecento i giuristi cercarono altre prove dell’esistenza di tale diritto e credettero di trovarle tra i documenti di un processo di fine Trecento davanti al Tribunale di Parigi. In questa diatriba giuridica, si discuteva di quella che era chiamata “tassa sulla prima notte”, che, invece, altri non era che il contributo che gli sposi versavano alla Chiesa per non osservare i tre giorni di castità che la Chiesa esigeva al momento delle nozze per dimostrare il controllo della libidine, considerata peccato.
In conclusione, lo ius primae noctis non è mai esistito realmente, ma è stata una fantasia creata per diversi motivi sul finire del Medioevo; soprattutto è stato il meccanismo perfetto per convincere i contemporanei di coloro che ne parlavano che la società nella quale vivevano era migliore di quella delle epoche passate.
“Dante enigma”, il nuovo romanzo di Matteo Strukul, edito da Newton Compton Editori, non è il racconto della vita del Sommo Poeta, non è nemmeno il racconto della genesi delle sue opere. “Dante enigma” è una finestra spalancata sull’animo di un uomo, nel momento più difficile e significativo della sua vita. Siamo a Firenze, l’anno in cui comincia questa storia è il 1288; tra pochi mesi si consumerà una battaglia epocale, che segnerà per sempre la vita del giovane Dante Alighieri. La città e la Toscana sono dilaniate delle continue lotte tra le due fazioni dei guelfi e dei ghibellini per il controllo dei territori; Firenze è, al momento, governata dai guelfi. Dante ha ventitré anni ed è sposato con Gemma Donati, anche se il suo cuore arde d’amore per la bella Beatrice Portinari. È un giovane appartenente ad una famiglia della piccola nobiltà ed è convinto di poter vivere scrivendo. In questo contesto, l’autore ci racconta cinque anni della vita di Dante, dal 1288 al 1293; anni fondamentali in cui vennero gettate le basi per il suo essere futuro. Nel romanzo, ritroviamo, infatti, un Dante molto diverso da quello che siamo abituati a conoscere. Incontriamo un uomo che non è ancora diventato il famoso poeta le cui opere hanno fatto la Storia, la cui fama spesso sovrasta e offusca l’uomo in quanto tale; un giovane infelice, che non ha ancora trovato la sua strada, costretto in un matrimonio che non riesce a fare suo. Un Dante sognatore, che crede fermamente nelle proprie capacità letterarie, profondamente innamorato della poesia, nella quale trova conforto dalle ingiurie della vita. Ma anche un uomo tormentato da incubi che fatica a comprendere, divorato dall’ossessione di mettere su carta le immagini che affollano la sua mente. Scorgiamo un Dante tormentato da mille pensieri: la sorte della sua amata Firenze divorata da lotte intestine, l’amore per una donna che non avrebbe mai potuto essere sua, un matrimonio con una donna non scelta che faticava ad accettare. Scopriamo anche il lato guerriero di questo fiorentino che, in nome della città che tanto ama, combatte la battaglia di Campaldino, nel 1289, fendendo con la propria spada le linee nemiche; un evento infernale che lasciò segni indelebili nel suo animo. Reduce, infatti, da questa battaglia, Dante vive un periodo terribile, colto dal devastante desiderio di autodistruzione, causato dalla guerra che gli sottrae la voglia di vivere; braccato da un’ansia sconfinata che lo priva della lucidità, provato, profondamente cambiato, sconfitto da un’angoscia che non riesce a placare. Un uomo destabilizzato da un mondo che non riesce più a comprendere e che si aggrappa alla poesia per sopravvivere. Assistiamo, inoltre, al modo in cui si fece strada nella sua mente l’idea di un’opera straordinaria. Oltre ad aver abbracciato la teoria avanzata dal grande studioso Marco Santagata circa la presunta epilessia del Sommo Poeta, le cui crisi avrebbero provocato le visioni che lo condussero alle immagini tradotte poi nella Divina Commedia, Matteo Strukul narra le vicende di questo periodo della vita di Dante in un modo che, in qualche modo, ricordano il viaggio della Commedia, dall’inferno dei campi di battaglia, al paradiso della visione di Beatrice. Una seconda chiave di lettura di quest’opera che è uno spaccato di vita del padre della lingua italiana, nonché della Storia medievale, dove chiara è la ricostruzione del contesto storico, nel quale il lettore può trovare le fondamentali nozioni per conoscere l’eterna lotta tra guelfi e ghibellini. Molti personaggi, alcuni dei quali citati nella Divina Commedia, popolano questo racconto, come Gemma Donati, moglie di Dante, caratterizzata da una forza e da una pazienza che seppero diventare sostegno per il poeta, o il conte Ugolino della Gherardesca; non passano poi inosservati i grandi capitani di ventura come il ghibellino Bonconte da Montefeltro o il guelfo Corso Donati. La precisa e fedele attinenza del romanzo alla realtà storica non ha impedito a Strukul di inserire l’immaginata ma verosimile amicizia tra Dante e Giotto, attraverso la quale ci mostra il lato intimo e quotidiano di due straordinari artisti della parola e del colore. Tesse, infatti, tra i due un’amicizia vera e solida, che li accompagna in questi anni terribili, nella quale Giotto si configura quasi come la parte migliore dell’Alighieri. La narrazione, degna dei più grandi romanzieri della storia della letteratura, è fluida e ammaliante; trascina il lettore nel passato attraverso un linguaggio curato nei minimi dettagli, fatto di vocaboli scelti con grande competenza e chirurgica precisione. Ogni singola scena è carica di una potenza difficilmente eguagliabile; ognuna di esse scorre davanti agli occhi del lettore come immagini di un colossal dalla maestosa sceneggiatura, che rapisce l’animo del lettore, incatenandolo alle pagine. In particolare, risulta strepitoso il modo in cui l’autore riesce a tessere le scene di guerra, tanto da far trasparire l’orrore, la devastazione, così come l’audacia dei soldati o la potenza delle cariche. Il lettore riesce, così, ad immergersi in mondi di cotte e spade che luccicano al sole, di lance che trafiggono corpi, di grida di dolore e orgoglio. Colpisce, poi, la maestria nel coniugare nozioni storiche ad uno stile romanzato che ipnotizza, in un maliardo vortice di sensazioni. “Dante enigma” è il romanzo che ci mostra Dante Alighieri come nessuno ha mai fatto, che ci restituisce l’uomo dietro al poeta, con le proprie emozioni e debolezze. Un libro che ci permette di conoscere un grandissimo personaggio della nostra Storia in una veste assolutamente inedita.
“Il 6 maggio 1527, un formidabile esercito imperiale composto da quasi trentamila mercenari spagnoli, tedeschi e italiani prese Roma d’assalto. Da troppo tempo i soldati non erano pagati, erano rabbiosi e affamati, e privi di comando. Sfondarono le resistenze improvvisare dai romani e saccheggiarono la città per tre mesi consecutivi, occupandola per un anno intero. Durante il lungo Sacco, i soldati violentarono le giovani vergini e le vecchie matrone, le donne sposate e le e le suore che avevano fatto voto di castità. Torturarono gli uomini che potevano pagare un riscatto: dai commercianti ai banchieri, dai nobili agli ecclesiastici, moli dei quali morirono dopo aver pagato più volte. Appiccarono il fuoco alle case e alle chiese. Rubarono una quantità eccezionale di oggetti preziosi e opere d’arte. Distrussero gli articolo sacri e i paramenti, sfregiarono io crocefissi, calpestarono le reliquie e le eucarestie, aprirono le tombe dei cardinali, gettarono nel Tevere gli ammalati dell’Ospedale di Santo Spirito e i neonati nei falò in cui bruciavano i libri e i registri della Chiesa. Per mesi le strade di Roma furono insanguinate e piene di cadaveri divorati dai cani. Durante i mesi torridi dell’estate del 1527, una feroce epidemia di peste si portò via buona parte della popolazione rimasta e dei soldati. La calamità mise fine alla fase più brillante del Rinascimento e segnò l’inizio della Controriforma, in cui presero il sopravvento i puristi della religione e gli inquisitori del pensiero.” Tratto da “Vita di Pantasilea” di Luca Romano.
Nel 1526, la Francia di Francesco I e il Sacro Romano Impero di Carlo V si scontrarono in una guerra per il predominio sull’Italia. Il conflitto terminò con la vittoria degli imperiali a Pavia, alla quale seguì la stipulazione del Trattato di Madrid, con cui il re di Francia si impegnava a rinunciare ad ogni pretesa di conquista sulla penisola. Subito dopo la firma, però, Francesco I violò il trattato, creando la Lega di Cognac ai danni dell’Imperatore, in accordo con Roma, Milano, Venezia, Firenze e Genova. Con tale alleanza, papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, tentò di evitare che Carlo V riuscisse a governare l’Italia intera. Inoltre, a seguito della riforma religiosa voluta da Martin Lutero, nei paesi di Germania, Austria e Svizzera, si diffuse un odio nei confronti di Roma e del papato, considerati simboli di vizio e corruzione. Nel settembre del 1526, l’Imperatore tentò di ottenere la fiducia del Papa per consolidare le proprie conquiste nel nord Italia, ma Clemente rifiutò, scatenando l’ira della famiglia Colonna, braccio armato dell’Impero: nella notte tra il 19 e il 20 settembre, truppe mercenarie al soldo della famiglia perpetrarono stupri, saccheggi e stragi a Roma. A seguito di questi fatti, il Papa negoziò la tregua con Carlo V, impegnandosi a sciogliere la Lega di Cognac, in cambio della cessazione delle ostilità. Nonostante l’abbandono della città da parte dei soldati, però, Clemente VII non rispettò gli accordi e chiese aiuto al re di Francia, Francesco I. Carlo V, tradito, ordinò così l’intervento armato contro Roma. Nell’inverno del 1526, il generale Georg Von Frunderberg reclutò dodicimila lanzichenecchi, i soldati mercenari più temuti e spietati, e scese verso Mantova, dopo essere stato respinto a Milano. Arrivato a Governolo trovò l’intrepido Giovanni dalle Bande Nere ad opporlo; il coraggio del condottiero italiano, però, non riuscì a fermare la calata dei lanzichenecchi: il tentativo di fermarli gli costò la vita e la sua sconfitta permise all’esercito straniero di proseguire verso Roma. Lungo il cammino, le truppe dei lanzichenecchi furono raggiunte da soldati spagnoli e da alcuni mercenari italiani che si arruolarono nelle loro file. Alla fine di marzo del 1527, Clemente VII firmò una tregua con l’Impero, ma ormai Carlo di Borbone, luogotenente dell’Impero, a capo dell’esercito di Carlo V, aveva promesso il Sacco ai suoi soldati e non poteva più tornare indietro. Inoltre, i soldati erano stremati da lunghi mesi di marcia in condizioni precarie. Il freddo non cessava, mancava il cibo, non venivano pagati da diverso tempo, il malcontento iniziava a serpeggiare tra le truppe, tanto che iniziarono a ribellarsi ai propri ufficiali. Rimasti senza prostitute, che avevano lasciato l’esercito a causa della precarietà della situazione, e senza tutte le figure che accompagnavano le truppe, come vivandieri, artigiani e commercianti, i soldati erano sul punto di esplodere: nulla più poteva trattenerli. Il 25 marzo 1527, l’imperatore Carlo V mandò al suo esercito la notizia della pace concordata con Clemente, insieme all’ordine di ritirarsi e ad un’offerta scarsa e tardiva, costituita da una minima parte della paga dovuta, distribuita solo in rate nei mesi successivi: tre ducati a testa e la legge di Maometto, ovvero il saccheggio illimitato, era l’offerta dall’Imperatore. Volutamente, Carlo V lasciava i soldati nelle condizioni in cui si trovavano al fine di trasformarli in belve inferocite, nella speranza che la minaccia di un attacco da parte loro fosse sufficiente a costringere il papa a rinunciare all’alleanza con la Francia, senza pertanto muovere un ufficiale attacco a Roma Nel frattempo, il Papa, convinto di aver raggiunto la pace, licenziò le truppe delle Bande Nere che proteggevano Roma, lasciando, così, la città incustodita. Il 6 maggio 1527, circa trentamila soldati assetati d’oro e sangue arrivarono a Roma, trovando solo cinquemila uomini impreparati a contrastarli e cogliendo di sorpresa una città convinta della pace. I lanzichenecchi, desiderosi di annientare la città, saccheggiando, distruggendo e depredando, scatenarono un vero e proprio inferno. Roma attese per giorni l’intervento degli alleati che non arrivò mai. Mentre le strade della città venivano messe a ferro e fuoco, Clemente si rifugiò a Castel Sant’Angelo. Il sacco continuò per un mese intero, nel quale i Lanzi furono spietati: profanarono chiese, violentarono donne e monache, incendiarono palazzi e sterminarono la popolazione, depredando le abitazioni, sfogando tutta la propria furia contro la Roma che odiavano. La popolazione fu sottoposta a ogni tipo di violenza e di angheria. Le strade erano disseminate di cadaveri e percorse da bande di soldati ubriachi che si trascinavano dietro donne di ogni condizione, e da saccheggiatori che trasportavano oggetti rapinati. Le ragioni che indussero i mercenari germanici ad abbandonarsi a un saccheggio così efferato e per così lungo tempo risiedono nella frustrazione per una campagna militare fino ad allora deludente e, soprattutto, nell’acceso odio che la maggior parte di essi, luterani, nutrivano per la Chiesa cattolica. Inoltre, a quei tempi i soldati venivano pagati ogni cinque giorni, cioè per “cinquine”. Quando però il comandante delle truppe non disponeva di denaro sufficiente per la retribuzione delle soldatesche, autorizzava il cosiddetto “sacco” della città, che non durava, in genere, più di una giornata. Il tempo sufficiente, cioè, affinché la truppa si rifacesse della mancata retribuzione. Nel caso specifico, i lanzichenecchi non solo erano rimasti senza paga, ma erano rimasti anche senza il comandante. Infatti il Frundsberg era rientrato precipitosamente in Germania per motivi di salute e il Borbone era rimasto vittima sul campo. Senza paga, senza comandante e senza ordini, in preda a un’avversione rabbiosa per il cattolicesimo, fu facile per i soldati abbandonarsi al saccheggio per un così lungo tempo della non più eterna Roma. Se Carlo di Borbone non fosse morto il giorno in cui hanno invaso Roma, forse il sacco sarebbe finito in breve tempo e i danni sarebbero stati minori. A gran voce, i Lanzi chiesero la deposizione del Papa, ma Carlo non lo fece: a Clemente fu chiesta un’enorme somma di denaro per far cessare l’Apocalisse. Il 5 giugno, il Papa acconsentì al pagamento della somma richiesta e si arrese, lasciandosi imprigionare in un palazzo in attesa che venisse versato quanto pattuito. Il 7 dicembre, un gruppo di cavalieri assaltarono il palazzo e liberarono il pontefice. Roma restò occupata fino a dicembre, quando tra le file dei Lanzi scoppiò la peste. Alla fine di quell’anno tremendo, la popolazione romana fu ridotta quasi alla metà dalle circa ventimila morti causate dalle violenze o dalle malattie. Al tempo del “Sacco”, infatti, la città di Roma contava, secondo il censimento realizzato tra la fine del 1526 e l’inizio del 1527, poco più di cinquantacinquemila abitanti: una tale esigua popolazione era difesa da circa cinquemila uomini in armi e dai 189 mercenari svizzeri che formavano la guardia del pontefice e che si fecero trucidare per permettere a Clemente VII di mettersi in salvo. Le carenze manutentive all’antica rete fognaria avevano trasformato Roma in una città insalubre, infestata dalla malaria e dalla peste bubbonica. L’improvviso affollamento causato dalle decine di migliaia di lanzichenecchi aggravò pesantemente la situazione igienica, favorendo oltre misura il diffondersi di malattie contagiose che decimarono tanto la popolazione, quanto gli occupanti. I palazzi furono depredati, le opere d’arte rubate o distrutte. Il ritiro vero e proprio dei saccheggiatori, però, avvenne solo a metà febbraio dell’anno successivo, dopo che era stato saccheggiato il saccheggiabile e non vi era più possibilità di ottenere riscatti, ma anche a causa della peste diffusasi dopo mesi di bivacco e delle diserzioni di molti soldati
Dopo questo gravissimo episodio, si determinò un periodo di povertà nella Roma del XVI secolo, tanto che il 6 maggio 1527 viene ricordato come il giorno che pose fine al Rinascimento. Un evento tremendo che segnò gravemente la Città Eterna, fino ad allora scrigno di ricchezza, bellezza e maestosità.