Medioevo

Breve viaggio nel mondo della cavalleria medievale

Il cinema e la letteratura ci hanno abituati all’idea del cavaliere quale membro di un’élite, dotato per questo di un’etica nobile. In realtà, la cavalleria medievale ha acquisito questa conformazione soltanto da un certo momento della Storia. Cerchiamo, allora, di intraprendere un piccolo viaggio alla scoperta dell’evoluzione dell’affascinante mondo del cavaliere medievale.

La nozione di cavalleria riguarda soprattutto il concetto di servizio, che ne costituisce l’essenza e che si sviluppa con la nascita delle castellanie (ossia la concentrazione di poteri amministrativi, giudiziari e militari nelle mani di potenti locali, i signori, che rappresentavano l’autorità pubblica di cui il castello era simbolo) e del servizio vassallatico, per il quale il vassallo era tenuto all’assistenza militare contro i nemici del suo signore, prendendo le armi al suo servizio. Infatti, i signori locali utilizzavano gli squadroni di soldati a cavallo come scorta nelle operazioni militari contro i nemici vicini o al momento del prelievo di tasse ed esazioni dalla popolazione.

Castello di Fénis (Valle d’Aosta)

I cavalieri, quindi, erano, in principio, soltanto guerrieri a cavallo che prestavano un servizio di tipo militare e rientravano in tre categorie, diversificate in base alla natura del servizio prestato. Vi erano, innanzitutto, i cavalieri del servizio d’oste, ossia quello volto a fornire alle spedizioni militari del signore l’appoggio dei suoi vassalli e l’assistenza di cui necessitava, ai quali si aggiungevano i doveri di guarnigione delle fortezze e le cavalcate, ossia una sorta di giri di mantenimento dell’ordine. Questi cavalieri vivevano nell’autonomia delle loro abitazioni sulle terre concesse dal signore. Vi erano, poi, i cavalieri della masnada, cavalieri domestici, legati alla casa del signore, nutriti e alloggiati al castello o nelle immediate vicinanze e costituivano la guardia ravvicinata del signore, la sua scorta, nonché l’essenziale delle sue truppe nelle operazioni di rappresaglia e nelle razzie improvvisate. Infine, vi erano i cavalieri mercenari, ossia soldati stipendiati, ingaggiati per determinate operazioni, quando vassalli e masnadieri non erano sufficienti. I mercenari partecipavano alle spedizioni dietro un compenso, che poteva essere versato in anticipo, attraverso pattuizioni, oppure in prospettiva, mediante la promessa di una parte di beni o terre in caso di successo.

Piazza d’armi della Rocca Viscontea di Castell’Arquato (Pc)

Fu soltanto nell’XI secolo che nacque la cavalleria in senso stretto come élite dotata di proprio status e modo d’essere. E la trasformazione da soldato a cavallo a cavaliere avvenne quando la cavalleria pesante divenne la forza principale degli eserciti, dotata di un armamento e di una tecnica di combattimento propria. Fino a quel momento, infatti, si combatteva soprattutto a piedi e il cavallo era usato per gli spostamenti: si smontava per lottare con le armi dei pedoni, la spada a un solo taglio (simile alla sciabola) e, successivamente, la lunga spada a due tagli. Infatti, l’esercito era formato in maggior parte da pedoni e fanti, mentre la cavalleria era secondaria, relegata alle ali e composta spesso da ausiliari. Ciò avveniva perché la maggior parte delle operazioni militari era costituita dagli assedi ai castelli, che erano i centri di dominio, nei quali i cavalieri avevano un ruolo marginale; divenivano fondamentali, invece, nelle incursioni e nelle imboscate, ossia nelle battaglie, che però, all’epoca, erano rare.

Nell’XI secolo venne introdotta una tecnica di combattimento specifica per chi combatteva a cavallo, attuata con la lancia. Questa veniva tenuta ferma lungo l’avambraccio e stretta contro il  corpo: la mano del cavaliere garantiva la precisione del colpo, ma soltanto la velocità del cavallo forniva la forza del’urto. Questo modo di utilizzo della lancia non poteva, pertanto, essere adottato dai fanti e pedoni, divenendo così metodo di combattimento caratteristico dei cavalieri: solo loro lo usavano ed era efficace solo contro avversari che lo praticavano allo stesso modo.

Questo nuovo metodo comportò lo sviluppo delle armi di difesa: per i cavalieri si rese necessaria un’armatura sempre più costosa, un elmo, la lancia, sempre più lunga e pesante, lo scudo, nonché le coperture di ferro per il cavallo.

Il costo elevato di questo nuovo equipaggiamento e la necessità di tempo libero per la preparazione fisica e l’allenamento assiduo negli esercizi del tornei e della quintana, riservarono la cavalleria ad una élite aristocratica.

I cavalieri divennero, così, un ceto guerriero che non combatteva come gli altri corpi, che obbediva a regole proprie e che si era dotata di una propria etica. Nonostante costituissero soltanto il 10% degli eserciti, pertanto non fondamentali per la riuscita degli assedi, furono i cavalieri a suscitare maggiore ammirazione. Per loro, che conducevano una  guerra in mezzo alle guerre e che, nei periodi di pace, la prolungavano con i tornei, la battaglia era un’attività rischiosa e ludica il cui fine era vincere, più che uccidere, e catturare per chiedere il riscatto, piuttosto che annientare l’avversario.

La loro supremazia era, dunque, nell’ordine ideologico, più che militare, e fu proprio la loro etica a distinguerli. Essi dovevano essere soldati audaci e fedeli vassalli e dovevano attenersi ad una serie di regole di guerra. Tra le altre, non potevano attaccare i pedoni; non potevano assalire un altro cavaliere senza averlo avvertito con un significativo gesto di sfida; non potevano usare armi da lancio o frecce, considerate ignobili; non potevano colpire sul dorso un avversario valoroso, per non aggiungere infamia alla morte, in quanto le ferite alla schiena erano testimoni di codardia; non potevano uccidere un nemico quando impossibilitato a difendersi perché disarmato o ferito o un cavaliere vinto che chiedeva grazia.

Furono, perciò, i loro principi ad accrescere la loro fama e a creare l’alone di fascino che circonda, ancora oggi, la figura del cavaliere. Un fascino indubbiamente alimentato anche da tornei e giostre che, a partire dal Trecento, fecero crescere uno spirito di casta, alimentato anche dallo sviluppo dell’araldica e che chiuse la cavalleria ai non nobili.

Ma dei grandi tornei e delle giostre individuali vi racconterò nel prossimo articolo.

Per approfondire il tema dei cavalieri e del loro mondo, vi consiglio la lettura di “La cavalleria medievale” di Jean Flori, edito da Il Mulino, un saggio breve, ma appassionante e denso di informazioni interessanti.

a cura di Deborah Fantinato

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CURIOSITA' STORICHE, Luoghi della Storia

La Vigna di Leonardo da Vinci

Nel 1482, il trentenne Leonardo da Vinci, lasciò la splendida Firenze per approdare a Milano. Sulla città governava il suo coetaneo Ludovico Sforza, detto il Moro, ed era proprio da lui che era diretto, su incarico di Lorenzo de’ Medici. Il Magnifico, infatti, aveva inviato il grande genio fiorentino alla corte di Milano per omaggiare il duca con un dono, come era solito fare nella sua politica diplomatica con le signorie italiane, alle quali mandava i grandi artisti di Firenze, quali “ambasciatori” del predominio artistico e culturale della sua città.

Una volta arrivato, però, Leonardo decise che in quella città sarebbe rimasto molto più tempo di quello previsto dalla missione diplomatica, come dimostra la famosa lettera d’impiego, una sorta di curriculum vitae, da lui scritta in cui descrisse i suoi progetti e le sue capacità e che indirizzò proprio al Moro.

Così restò a Milano ed entrò a far parte della cerchia del duca, il quale nel 1494 gli commissionò la decorazione di una parete del refettorio della basilica di Santa Maria delle Grazie, sulla quale Leonardo dipinse una delle sue opere più famose, che terminò nel 1498: il Cenacolo.

Per ringraziarlo di tale opera, Ludovico Sforza donò al genio di Vinci una vigna, situata nel giardino della Casa degli Atellani, che si trovava proprio accanto alla chiesa che ospita il grande dipinto parietale (già, perché non è un affresco). Questo palazzo è uno dei tanti costruiti (ma l’unico arrivato fino ad oggi) durante il periodo di reggenza del Moro, quando egli concesse numerosi permessi di edificazione a cortigiani e collaboratori, desideroso di fare dell’asse viario dell’antico borgo di porta Vercellina un prestigioso contorno dell’appena edificata chiesa di Santa Maria delle Grazie.

la vigna nel giardino di Casa degli Atellani (Milano)

Il Moro aveva comprato il palazzo pochi anni prima donandolo ad una famiglia di suoi cortigiani, gli Atellani, e tale dimora divenne famosa per le grandi feste che vi si organizzavano, descritte anche in molte cronache dell’epoca, le quali riunivano le maggiori personalità della corte sforzesca, tra le quali proprio Leonardo e la bella Cecilia Gallerani, amante favorita del duca.  

Casa degli Atellani (Milano)

Leonardo da Vinci amò moltissimo questa vigna formata da sedici pertiche e lo dimostra il fatto che, quando nell’aprile del 1500 le truppe del re di Francia sconfissero e imprigionarono il Moro e anche lui lasciò Milano, prima di partire affittò la vigna al padre del suo allievo prediletto Gian Giacomo Caprotti, detto il Salaì. E Leonardo non smise mai di occuparsi della sua vigna: la riconquistò quando i Francesi gliela confiscarono e in punto di morte, nel 1519, la citò nel testamento, lasciandone una parte a un servitore e un’altra parte proprio al Salaì.

E viene così naturale immaginare Leonardo da Vinci, al tramonto di una giornata di lavoro, mentre lascia il cantiere del Cenacolo, attraversa il Borgo delle Grazie e Casa degli Atellani, e raggiunge la sua amata vigna, perdendosi nei suoi frenetici pensieri.

Ma cosa rimane oggi di questa vigna? Nel 2007, alcuni esperti di DNA della vite, mediante scavi manuali, hanno avviato le ricerche dei residui biologici vivi della vigna originale e il loro ritrovamento ha permesso i reimpianto della stessa vite di Leonardo, la Malvasia di Candia aromatica. Il progetto ha portato alla prima vendemmia di questa uva nel 2018, dalla quale è nata La Malvasia di Milano e, successivamente, il vino La dama di Milano (in foto). È pertanto possibile assaggiare lo stesso vino che beveva il grande maestro fiorentino, provando la sensazione di attraversare letteralmente la porta del tempo.

Inoltre, la Vigna di Leonardo e la Casa degli Atellani possono essere visitate e vi assicuro che passeggiare nel giardino che durante il Rinascimento ha ospitato personaggi illustri e nel quale Leonardo amava rifugiarsi è davvero un’emozione unica.

Riferimenti per le visite:

Vigna di Leonardo: https://www.vignadileonardo.com/it

Casa degli Atellani: http://www.casadegliatellani.it/

a cura di Deborah Fantinato

ANTICA ROMA, BLOG TOUR, PERSONAGGI STORICI

Blog Tour “I sette re di Roma” – “Numa Pompilio. il figlio dei numi”

Ecco arrivata anche la mia tappa del blog tour dedicato al secondo e al terzo capitolo della saga “I sette re di Roma”, un ciclo di sette romanzi, al quale partecipano quattordici autori, coordinati da Franco Forte, ed edito da Mondadori, che racconta le figure dei sovrani dell’Età Regia di Roma. Il mio compito è approfondire il protagonista del secondo romanzo: NUMA POMPILIO.

Numa Pompilio fu il secondo re di Roma, il successore del fondatore Romolo, e si ritrovò alla guida di un popolo al quale non apparteneva e di una città giovane, che aveva la sua stessa età. Già, perché Roma era sorta soltanto trentanove anni prima, in quel 754 a. C. in cui nacque anche Numa, ma non nel centro che nei secoli successivi divenne capitale di un impero immenso, bensì a Cures, il fulcro di un altro popolo italico: i Sabini.

E la Roma sulla quale regnò era molto diversa dall’imponente città che siamo abituati a conoscere. A quel tempo, era divisa in tre tribù: i Ramnes, ossia le famiglie romane autoctone, guidate dai latini, i Tities, le famiglie di origine sabine, arrivate al seguito di Tito Tazio e i Luceres, di origine incerta. A capo di ognuna di esse vi era un magistrato, il tribunus, e ciascuna era divisa in dieci assemblee, dette curie. Ad amministrare la città vi era il re affiancato dal Senato, che comprendeva i rappresentati di tutte le tribù. In questo clima, Numa governò con saggezza per quarantatre anni, fino alla sua morte che avvenne all’età di ottant’anni, nel 673 a.C..

La sua figura è avvolta nella leggenda e tramandata dalla tradizione, tanto che molti studiosi dubitano della reale esistenza di questo re, come accade anche per il predecessore Romolo.

Ci affidiamo così al mito, il quale diede a questo sovrano una connotazione divina. Il suo nome, infatti, ricorda il legame che Numa aveva con gli dei, in particolare con le ninfe, divinità arcaiche delle sorgenti, tra le quali scelse Egeria come consigliera.

Una volta cresciuto, Numa sposò la regina dei sabini Tazia, dalla quale ebbe quattro figli e che morì prematuramente; ella era figlia di Tito Tazio, il re che aveva governato Roma per cinque anni al fianco di Romolo.

Alla morte di quest’ultimo, nel 716 a. C., anch’essa avvolta nella leggenda dell’assunzione in cielo durante una tempesta, i senatori non elessero subito un successore, ma per un anno si avvicendarono nel governo di Roma, nel tentativo di sostituire la monarchia con l’oligarchia. Tuttavia, dopo tale periodo, chiamato interrex, il malcontento popolare per la cattiva gestione della città richiese al Senato l’elezione di un nuovo re, ma la scelta si rivelò difficile a causa delle tensioni tra senatori romani che proponevano Proculo e i senatori sabini che sostenevano, invece, Velesio. Per risolvere il contrasto, le due fazioni decisero di proporre rispettivamente l’una un esponente dell’altra e i Romani fecero il nome di Numa Pompilio. Egli, infatti, era conosciuto a Roma proprio per il legame con Tito Tazio e tutti lo consideravano un uomo saggio e retto, nonché profondo conoscitore degli dei. I Sabini accettarono senza indugio la proposta e inviarono Proculo e Velesio a Cures per offrire il regno a Numa. Egli non diede subito la sua risposta, ma si prese il tempo di trarre gli auspici degli dei e acconsentì soltanto dopo aver ottenuto il loro favore, dimostrando di essere l’uomo corretto e timoroso degli dei che Roma cercava. E, nonostante non condividesse i costumi del popolo romano, accolse la carica mosso dalla volontà di mantenere la pace tra le popolazioni, una pace che riuscì a garantire a lungo.

Fu così che, all’età di trentanove anni, Numa Pompilio entrò a Roma come nuovo re, acclamato dalla popolazione. Divenuto sovrano, si sposò una seconda volta con Lucrezia ed ebbe altri quattro figli, ma la leggenda narra anche del grande amore per la sua consigliera, la ninfa Egeria, alla quale il popolo attribuiva le nuove leggi, accettandole di buon grado, in quanto considerate volere degli dei.

Iniziò, così, a rimodulare la società civile e religiosa e la prima riforma fu una scelta illuminata: per eliminare le tensioni tra Romani e Sabini, ridusse l’importanza delle tribù creando nuove associazioni basate sui mestieri; in questo modo, non era più importante la gens di appartenenza di un uomo, ma il lavoro che svolgeva. Poi, dando prova di quanto la religione fosse importante per lui, dispose una serie di considerevoli riforme. Istituì il collegio delle vergini Vestali alle quali era affidata la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città; affiancò al sacerdote di Giove e a quello di Marte, un terzo dedito al culto del dio Quirino, riunendoli nel collegio dei flamini; vietò i sacrifici umani e la venerazione di immagini umane e animali. Inoltre, istituì la carica di Pontefice di Roma, il quale aveva il compito di creare un ponte tra gli uomini e gli dei, vigilando sulle vestali, sulla moralità pubblica e privata e sull’applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro; nominò anche il collegio dei Salii, ossia sacerdoti incaricati di separare il tempo di guerra dal tempo di pace, scandendo così il passaggio dallo stato di cives a quello di milites di tutti gli uomini abili alla guerra.

Lungo la Via Sacra, fece costruire il tempio nel quale era custodita la lancia del dio Quirino, simbolo di guerra e che veniva aperto solo in caso di battaglia: il tempio di Giano. Alla stessa divinità dedicò anche uno dei mesi dell’anno che aggiunse nella riforma del calendario che attuò, basato sui cicli lunari: i mesi divennero così dodici, in quanto aggiunse gennaio e febbraio, che vennero collocati alla fine dell’anno, dopo dicembre, dato che l’anno iniziava con il mese di marzo.

Durante il suo regno, il popolo di Roma visse un lungo periodo di pace, il più lungo della sua storia, e un’abbondanza senza precedenti che permise alla città di prosperare. Numa Pompilio si dimostrò un re scaltro, assennato e lungimirante, probabilmente anche grazie alle sue origini sabine e al rigetto che provava nei confronti dei costumi violenti di Roma, ed era considerato dal popolo come un uomo giusto.

La sua politica, infatti, sviluppò il senso della comunità riducendo il potere delle famiglie patrizie, organizzò la vita dei romani sotto l’impero di una comune legge per tutti e avviò la raccolta di fondi pubblici mediante donazioni religiose effettuate dai romani ai templi pubblici, favorite dalla forte crescita economica. Le importanti riforme da lui introdotte crearono, così, una società più flessibile e amalgamata e gettarono le basi per la grande ascesa di Roma dei secoli successivi.

Nessuna guerra o violento intrigo uccise Numa Pompilio. La sua vita si spense per cause naturali all’età di ottant’anni, nell’affetto del suo popolo. Dopo due matrimoni e il grande amore per la ninfa Egeria, si congedò dal mondo dei vivi lasciando diversi figli. Ma nessuno di loro prese il suo posto sul trono di Roma. Soltanto il piccolo nipote Anco Marcio, figlio di Pompilia, seguì la stessa sorte del nonno, come quarto re di Roma.

recensione

Cesare Borgia e Michelotto Corella: il Principe e la sua anima nera

“Lui è come il sole, riscalda la terra e a volte il suo calore può bruciarla. (…) Io sarò la luna, che risplende sulla sua scia. Ma senza di me non troverebbe riposo, la notte sarebbe troppo buia”.

Michelotto Corella è un giovane ragazzo quando decide di lasciare gli studi e votarsi anima e cuore alla causa di Cesare Borgia, il primogenito illegittimo di papa Alessandro VI. Non ha dubbi, Michele: la sua vita è al servizio del grande Borgia. Divenne, così, depositario di quella coscienza che Cesare sembrava non avere, ma anche la mano destra di un uomo disposto a tutto pur di seguire le proprie ambizioni e che lo tramutò in gelido sicario, avvolgendolo nel drappo nero della morte. Fu l’uomo che si macchiò dell’assassinio di nemici e vecchi amici, in nome di un sogno che non gli apparteneva. Incupito dai segreti e dalle azioni commesse in nome del suo Signore, Michele sentì il peso della solitudine e di quella vita donata e votata al Valentino, un’esistenza che si rivelò un lastricato di perdite e sofferenze; ma nonostante ciò, lo servì sempre con lealtà, diventando l’uomo che conobbe le sue luci e le sue ombre, del quale riuscì a dare voce ai sottintesi, agli sguardi e alle cose non dette.

 “Corella. L’ombra del Borgia”, scritto da Federica Soprani ed edito da Nua Edizioni è un romanzo storico che vede protagonista il più fedele uomo di Cesare Borgia, Michelotto Corella, attraverso il quale l’autrice ripercorre la vita del figlio del papa più discusso della Storia.

Ma chi era davvero Cesare Borgia, il duca di Valentinois e di Romagna?

Ribelle nelle vene, ma soggetto all’autorità del padre, papa Alessandro VI, animato da una morbosa passione per la sorella Lucrezia, Cesare Borgia era un uomo scaltro, finemente intelligente, impulsivo, oltremodo sicuro di sé, egoista, irascibile e iracondo, di un’inquietudine che sfociava nell’insofferenza, ambizioso e assetato di potere, posseduto da un’energia rabbiosa. Seppur corta, la sua fu una vita spesa nella ricerca del potere, senza il conforto della felicità. Quale gioia ebbe, infatti, Cesare Borgia? Lui che non conobbe amore, che non visse per gioire, che non combatté che per vincere, a qualunque costo. Temuto come Marte, il dio della guerra, la brama di conquista infuocava il suo animo, sostituendosi alla passione d’amore: solo il potere contava per Cesare. Superbo e orgoglioso combattente, lottò per ottenere i propri scopi, senza nessuno sconto: privo di scrupoli o remore, pronto ad ogni passo pur di raggiungere i propri obiettivi.

E per questa sua caratteristica innata, in molti lo ritennero responsabile della prematura morte del fratello Giovanni, il suo diretto rivale, che, preferito dal padre nonostante fosse il secondogenito e fosse privo di qualsiasi attitudine, aveva ottenuto il comando dell’esercito pontificio, posizione a cui Cesare ambiva con ogni fibra del suo essere. A lui, invece, era toccata la porpora cardinalizia che si intonava alla sua personalità come l’acqua santa sul volto di Satana; l’abito talare che gli bruciava la carne e che poté dismettere proprio grazie alla morte di Giovanni, in seguito alla quale la carica di Generale della Chiesa passò nelle sue mani.

Cesare dallo spirito contraddittorio, che appare ai nostri occhi come un moderno rampollo, amato e odiato da chiunque lo circondasse, per dovere o per convenienza; temuto e ammirato, generava ammirazione e paura allo stesso tempo. Lui che era inquieto, dissimulatore, mai pago delle proprie conquiste, in amore come in guerra, dalla personalità incontenibile, “una vita sola era troppo poca per Cesare Borgia. Troppo poco il tempo, insufficienti le possibilità”. Suadente e mellifluo, era conscio di possedere un fascino maledetto capace di incantare chiunque gli si accostava: i suoi occhi neri come la notte senza luna potevano scagliare sguardi torvi, taglienti, oppure colmi del desiderio più sfrenato, carichi di lussuria malcelata.

Passionale e travolgente, feroce e spietato, calcolatore e istintivo, determinato e irrefrenabile: Cesare fu un’antitesi indecifrabile, dall’animo imperscrutabile. Fiero e indomito, freddo e pungente; maestro nell’arte della dissimulazione, che fece di lui subdolo predatore in paziente attesa di ghermire la preda. Incantatore dall’aspetto di meraviglioso condottiero e dall’eloquenza maliarda, inarrestabile come un uragano e ambizioso oltre ogni limite: nemmeno il cielo avrebbe potuto fermarlo, né Cesare lo ha mai temuto. “Splendido e terribile” come un demone travestito da cherubino; bellicoso poeta dall’energia inesauribile.

Il Valentino, però, pativa un’acuta insofferenza per il trattamento che gli riservavano le corti europee, le quali vedevano in lui nient’altro che il figlio illegittimo di un papa straniero, e ciò gli procurava un rogo che ardeva come l’Inferno dentro di lui, trasformandosi in feroce crudeltà. Crudeltà che riversava nel sogno di conquista dei domini romagnoli che lo portarono a sconfiggere l’indomita Caterina Sforza a Forlì e che lo condusse al titolo di Duca di Romagna.

Io so cos’è la disperazione di chi combatte una battaglia di cui lui solo conosce la ragione, quando gli altri l’hanno dimenticata. Di chi intuisce l’esito ancor prima di intraprendere l’impresa e tuttavia non può esimersi dall’imbarcarsi in essa, mosso da motivazioni incomprensibili ai più”. Ecco l’essenza di Cesare Borgia: il disperato bisogno di combattere, di conquistare, l’incessante urgenza di sentirsi fiero, a discapito della solitudine dell’anima; un’anima che divenne sempre più nera e cupa, nella quale “ogni luce sembrava svanire, inghiottita da un’oscurità vorace, rabbiosa, disperata”. Non permise mai a nulla e a nessuno di porre freni a ciò che voleva essere, né accettò ordini o imposizioni e la sua sconfinata smania di essere lo portò a fare della propria ambizione la propria vita, gettando anima e corpo in ogni impresa che la sua mente riuscì a concepire, incapace di sentirsi sazio di sogni.

Si sentiva invincibile, Cesare. Aveva vinto tanto, in poco tempo e dava l’impressione di non poter perdere mai, assetato com’era di morte e devastazione. Dentro di lui, il fuoco della conquista era destinato a non spegnersi e la sua figura si circondò di una fama sinistra, alimentata anche da un grande amico, Niccolò Macchiavelli, che trovava “in quel perseguire i propri scopi senza fermarsi davanti a nulla una nuova forma di eroismo, una totale e spavalda superiorità”. 

Nulla avrebbe potuto “scalfire la corazza impenetrabile di quel principe senza regno, troppo giovane eppure già consacrato al passato”. Almeno fin quando la morte, sotto le sembianze del temibile mal francese, decise che fosse giunto il momento di porre fine ai desideri dell’indomabile Cesare Borgia. Non prima, però, di concedergli il beffardo tempo di vedere il suo castello di sogni crollare dopo la morte del padre. In quel momento il Valentino perse tutto, ma non volle accettare l’evidenza di quella realtà e non si arrese, tentando il tutto per tutto, come “Satana che tentava la risalita del paradiso a qualunque costo”, finché non trasse l’ultimo respiro. Aveva solo trentasette anni.

Tutto ciò emerge nitidamente e con grande suggestione in questo romanzo che ripercorre la vita del Borgia, soffermandosi in particolar modo sulla sua personalità, e la romanzata ricostruzione del rapporto tra Cesare e Corella, di cui l’autrice dà un’interpretazione poetica, ma verosimile.

Riesce in questo obiettivo, soprattutto grazie all’ottima caratterizzazione dei personaggi, che con poche parole usate con sapienza, riesce ad evidenziare le caratteristiche peculiari di ognuno, tanto che al lettore appare di sentirli vivi accanto a sé. Poco spazio è dedicato all’ambientazione, ma il lettore non ne sente la mancanza perché la sua attenzione è totalmente concentrata sui protagonisti. La ricostruzione del contesto, invece, è precisa e fedele alla realtà storica. Lo stile narrativo è raffinato e soave, dolce e melodico e accompagna il lettore come il suono delle onde del mare. I dialoghi sono suggestivi e incisivi, perfettamente calzanti per ogni personaggio, dei quali è chiaramente distinguibile ogni voce. Le scene sono potenti ed evocative, cariche di pathos e appaiono come splendidi dipinti, variopinti e dettagliati.

Corella. L’ombra del Borgia” è una lettura indimenticabile e oltremodo appagante; un romanzo coinvolgente, vivo ed emozionante, al termine del quale vi sembrerà di aver davvero conosciuto il Valentino e di aver capito perché, per Michele Corella, la vita fu “o Cesare, o nulla”.

recensione

Florentine. La pupilla del Magnifico

“Seppur foss’io il bersaglio di questa macchinazione, sarebbe sempre la città di Firenze a soffrirne. È questo che conta. Salvare la pace della nostra gente.”

Florentine. La pupilla del Mgnifico”, scritto da Marina Colacchi Simone, racconta due vicende, una frutto della fantasia dell’autrice ed una storica, che si intrecciano nella Firenze della seconda metà del ‘400. 

La prima riguarda la giovane Vanna de’ Bardi, fanciulla orfana appartenente ad una casata fiorentina caduta in disgrazia, la quale viene chiamata a Firenze dallo zio Duccio Salimbeni, persona molto vicina al Signore della città, Lorenzo de’ Medici, per svolgere il compito di damigella della bella Simonetta Vespucci. Qui, la ragazza incontrerà due personaggi che daranno vita alla sua storia: l’amato Guido Montefiori e il temuto Matteo Orsini. 

Sullo sfondo di questa vicenda, si innesta lo svolgimento della Congiura dei Pazzi, ossia il complotto ideato da esponenti di alcune famiglie fiorentine avverse ai Medici e da personaggi di spicco della politica italiana dell’epoca, come Girolamo Riario e papa Sisto IV, volto ad annientare il potere del Magnifico, attraverso un attacco mortale ai danni suoi e del fratello Giuliano, che ebbe luogo il 26 aprile 1478, nella basilica di Santa Maria del Fiore a Firenze e che portò all’uccisione del giovane Giuliano de’ Medici. 

Attraverso una narrazione fluida, caratterizzata da uno stile raffinato che si avvale di un linguaggio consono all’epoca narrata, l’autrice sviluppa i due filoni del romanzo che si intrecciano tra loro, ma che si differenziano nell’esposizione. La vicenda che vede protagonista la giovane Vanna, seppur dinamica e avvincente, presenta alcune criticità relative ai dialoghi che appaiono poco incisivi e allo sviluppo in alcuni punti della trama, nei quali i personaggi percepiscono con molta facilità ciò che, in base al progredire della storia, non potrebbero sapere. Viceversa, la parte relativa alla Congiura risulta molto più penetrante ed è scandita da un ritmo che genera un crescendo di interesse nel lettore; inoltre, l’aderenza alla verità storica denota il lungo lavoro di studio delle fonti fatto dall’autrice. 

Per apprezzare appieno il romanzo è necessario addentrarsi nella lettura, in quanto, inizialmente la trama appare debole, mentre con il procedere della narrazione, si rivela interessante, coinvolgente e ben architettata. La caratterizzazione dei personaggi è valida, ma risulta piena per alcuni di loro, come ad esempio il perfido Matteo Orsini, mentre rimane più scarna per altri.

    Le scene sono chiare e ben delineate, l’ambientazione è efficace nel permettere al lettore di calarsi nel luogo e nel periodo narrato. Il contesto storico è ricreato, nonostante qualche licenza letteraria, in modo da sviscerare tutti i reali antefatti della congiura, in un susseguirsi di eventi che conduce al triste epilogo.

    “Florentine. La pupilla del Mgnifico” costituisce comunque una piacevole lettura, poetica ed emozionante, che ci trasporta nella Firenze medicea e che racconta il terribile avvenimento che cambiò per sempre la vita di Lorenzo de’ Medici.