Fatti storici, recensione

Vita di Pantasilea

Ora siamo arrivati sul Gianicolo, accaldati, stanchi, sporchi. Nessun esercito moderno ha mai attraversato una distanza così grande in così poco tempo. Ma non siamo un bello spettacolo. Le nostre divise di solito così brillanti e sgargianti, le nostre maniche a sbuffo, i nostri panhosen aderenti gialli e marrone sono lerci e strappati. Abbiamo le barbe lunghe e i capelli arruffati e aggrovigliati di sozzume. La fame continua a darci i crampi allo stomaco. Ma siamo arrivati. Roma si stende ai nostri piedi. Fra poco s’inchinerà alla nostra potenza!” 

Vita di Pantasilea”, scritto da Luca Romano ed edito da Neri Pozza, racconta due vicende che si intersecano nella Roma del primo Cinquecento. 

Da una parte, troviamo la cortigiana onesta Pantasilea, incinta e innamorata dell’artista Benvenuto Cellini, che viene incaricata dal cardinal Alessandro Farnese di “corrompere con i piaceri della carne” il giovane Marcello Cervino; dall’altra, c’è l’esercito imperiale, comandato da Carlo di Borbone, pronto a marciare su Firenze e Roma. Da due punti di vista differenti, quello del narratore esterno in terza persona nella vicenda di Pantiselea e quello in prima persona del comandante dei lanzichenecchi Sebastian Schertlin, assistiamo ad un momento storico fondamentale per la l’Italia, nel quale la vita della giovane cortigiana si intreccia alle vicende del Sacco di Roma del 1527. 

Infatti, la trama si muove sullo sfondo dell’imminente attacco alla città di Roma, da parte dell’esercito dell’imperatore Carlo V, formato da trentamila soldati lanzichenecchi, spagnoli e italiani; un assedio che durò diversi mesi e che mise a ferro e fuoco la capitale della cristianità, sulla quale governava papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici. Un papa che, come si intuisce già dalle prime pagine del romanzo, veniva additato come avaro e sanguisuga e verso il quale i romani mostravano un chiaro malcontento a causa del governo opprimente, della severa e irragionevole applicazione dei bandi, delle molte tasse che aveva introdotto, dei disordini provocati dai soldati in ozio che riempivano le strade di Roma. Nonostante le rimostranze nei confronti di Clemente VII e la consapevolezza di possibili venti di guerra, il popolo era convinto che gli eserciti cristiani non avrebbero mai osato invadere la capitale della cristianità. E questa convinzione, unite alle illusorie trattative di pace, favorì gli invasori che colsero Roma sorpresa e impreparata.  In questo romanzo l’autore è estremamente abile nel riprodurre ogni sfumatura di questo evento. 

La ricostruzione dell’ambientazione è minuziosa, con descrizioni accurate e suggestive dei luoghi, degli abiti, delle usanze, della condizione delle prostitute. Con grande maestria, l’autore riesce a far trasparire il modo di pensare dell’uomo del Cinquecento in molti ambiti. Il ricco utilizzo di dettagli, insieme alle chiare differenti voci di ogni personaggio, rende il racconto suggestivo, tanto che al lettore pare di partecipare in prima persona agli eventi narrati. Il linguaggio ricercato e adatto all’epoca nella quale si svolge la  trama aumenta la sensazione di coinvolgimento. Caratteristiche che denotano il grande studio e la profonda conoscenza, da parte dell’autore, del periodo raccontato. Inoltre, egli è abile nel mostrare il clima sociale nel quale si innesta il sacco di Roma; attraverso la vicenda della cortigiana riviviamo la quotidianità dell’epoca, le credenze, i problemi sociali, grazie ad un affresco divinamente dipinto delle condizione delle meretrici in epoca rinascimentale; invece, con il racconto del comandante dei Lanzi assistiamo ai retroscena del Sacco. 

Il racconto è perfettamente aderente alla verità storica e la narrazione fluida e coinvolgente permette al lettore di percepire tutte le emozioni e le sensazioni provate dai personaggi. Il ritmo dell’esposizione è incalzante e si sviluppa in un crescendo di tensione, che corre parallela allo stupore. 

La caratterizzazione dei personaggi è precisa ed efficace nel consentire al lettore di distinguere le differenti personalità di ognuno. 

La descrizione delle scene, come ad esempio quella relativa al procedimento penale e alla tortura o ai malati di mal francese, è accurata ed estremamente suggestiva, scandita da un tempo di narrazione perfetto per amplificare il coinvolgimento del lettore. Meticolosa è anche la rappresentazione della città di Roma che sembra di percorrere a piedi, tra i quartieri e i suoi abitanti. Per questo motivo, il romanzo si rivela adatto anche a chi voglia approfondire la conoscenza della vita quotidiana e cittadina in questo frangente storico, che qui traspare nettamente. E così apprendiamo, ad esempio, delle prigioni della Torre Annona, vediamo dove venivano esposti i corpi dei condannati a morte, come monito per i cittadini, quale erano i rimedi per curare le coliche, quali Santi venivano pregati, quali erano i prezzi delle merci.

Ma ciò che colpisce maggiormente il lettore è l’intenso e crudo racconto dell’inferno scatenato dall’esercito imperiale per le strade di Roma, che vennero invase dai cadaveri di migliaia di romani innocenti. “L’anarchia è peggio, infinitamente peggio, della tirannia”, dice il comandante dei Lanzi, e l’esercito senza disciplina fu, infatti, il peggior male dell’assedio. Luca Romano riesce a trasmettere tutto l’orrore e la disperazione di quei giorni, attraverso la pungente descrizione di ciò che accadde quel 6 maggio 1527 e per l’intero mese successivo, in cui l’esercito al soldo di Carlo V, saccheggiò, depredò, uccise e distrusse per sempre parte della storia precedente di Roma. 

Vita di Pantasilea” è un libro splendido, scritto con smisurata competenza e grande capacità, che chiunque ami la Storia non può non apprezzare; nel quale la Roma del Cinquecento si dischiude davanti agli occhi del lettore per farsi conoscere in ogni suo aspetto. Rappresenta un incredibile viaggio nel tempo, nel quale la realtà che circonda il lettore improvvisamente scompare per lasciare spazio a luoghi, personaggi ed eventi narrati che nel romanzo tornano a vivere, nonché un encomiabile connubio tra conoscenza storica ed esposizione narrativa. 

Un romanzo notevole, che trasuda Storia e che catapulta il lettore nella Roma del Sacco in modo nitido ed emozionante, dimostrando di essere un ottimo testo su questo importante evento del passato che ha spezzato la gloria del Rinascimento. 

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PERSONAGGI STORICI

L’anima di un avventuriero: Giacomo Casanova

Tutto il mondo conosce Giacomo Casanova, l’avventuriero veneziano che ha segnato il secolo dei Lumi. Ognuno ricorda le sue numerose vicende amorose, la sua rocambolesca fuga dalle carceri dei Piombi, nel Palazzo Ducale di Venezia; il suo nome viene utilizzato per indicare gli uomini che sprigionano un incontestabile fascino sull’altro sesso, gli incredibili seduttori. 

Eppure possiamo dire di sapere davvero chi fosse Giacomo Casanova? Qual era realmente il suo spirito? 

Un ritratto molto interessante e intimo del celebre cittadino della Serenissima emerge dal racconto che ne fece Stefan Zweig, scrittore austriaco che visse a cavallo del ‘900, nel 1928 e che si può leggere in un’edizione del 2015 di Castelvecchi Editore. 

Casanova, nato nel 1725, visse settantatre anni, come uno spirito libero, cambiando Pesi, città, condizioni, mestieri e donne con una facilità sorprendente.

Nonostante provenisse da una famiglia borghese, fosse un uomo molto colto e sapesse destreggiare diverse arti, visse l’intera esistenza nei panni di avventuriero, non per bisogno di denaro o per scarsa voglia di lavorare, bensì per temperamento innato; amava bluffare, sbalordire e imbrogliare, viveva per i  giochi e i mascheramenti.  

Era (a suo dire) laureato in legge, parlava sei lingue, eccelleva in matematica e filosofia, suonava egregiamente il violino, conosceva la chimica, la medicina, la storia, la letteratura, nonché l’astrologia e l’alchimia; inoltre, brillava in tutte le arti di corte e negli esercizi fisici, danza, scherma, equitazione e gioco delle carte, proprio come un vero cavaliere. Tuttavia, esercitava questi talenti in modo parziale; Zweig lo definisce “tutto un pressappoco, poeta ma non del tutto, ladro ma non di professione”.  

Ma perché? Perché Casanova non voleva essere nulla, gli bastava sembrare tutto, perché le apparenze ingannano e imbrogliare fu la sua occupazione preferita. 

La faccia tosta colossale e il coraggio sfrontato da canaglia furono le caratteristiche che gli permisero di cavarsela in ogni situazione e di passare alla Storia. Di fronte a precise richieste di ogni corte europea come riformare un calendario o redigere il libretto per un’opera seppe dimostrarsi sempre all’altezza perché possedeva il talento per fare qualsiasi cosa senza rendersi ridicolo. 

Avrebbe potuto essere chiunque e fare tutto, ma ai suoi talenti preferì sempre e comunque la libertà; libertà di non sentirsi legato e di andare dove più gli piacesse. 

Infatti, non voleva avere né conservare nulla, perché il suo temperamento richiedeva di vivere cento vite in un’unica esistenza. A questo proposito Casanova diceva “il mio più grande tesoro è che io sono signore di me stesso e non temo la sfortuna”. E così visse l’intera esistenza: rischiando tutto se stesso e ogni probabilità e occasione. 

Tutto ciò gli fu possibile grazie alla mancanza di qualsiasi inibizione etica e morale. Zweig scrisse: “non ha radici in nessuna contrada, non è soggetto ad alcuna legge, altro non è che il soldato di ventura e il filibustiere della sua passione”. Non riconosceva alcuna patria, ma si riteneva cittadino del mondo; quanto alla religione, ne avrebbe scelta una qualsiasi purché gli procurasse anche un minimo vantaggio; odiava gli obblighi e i doveri. 

Non si difese, né si pentì mai di nulla, nonostante finì la sua vita in bancarotta e povertà. Mai pensò al futuro; per lui contava solo l’attimo, il presente e la sua personalità si trasformava a seconda delle circostanze: quando aveva le tasche piene era il cavaliere più nobile che vi fosse, affascinante, amabile e generoso, ma se la fortuna gli voltava le spalle diventava un baro, un falsario ed era capace di commettere qualsiasi canagliata. Era assolutamente imprevedibile: da compagno spiritoso e affascinante, poteva trasformarsi in un attimo in volgare ladro da strada. Quindi non aveva carattere né buono, né cattivo; la sua prerogativa era essere senza carattere. Era incapace di dominarsi, perché agiva sotto gli impulsi del suo temperamento bollente e, pertanto, non si riteneva responsabile di ciò che faceva, in quanto le sua azioni non erano dettate dal freddo calcolo, ma da capricci improvvisi. E questo accadeva perché il bel Giacomo non pensava, non rifletteva, agiva con spensieratezza, mosso principalmente da un unico, semplice demone: la noia. 

Era, infatti, un uomo estremamente annoiato, che temeva la noia più di qualsiasi altro male, come si può evincere dai suoi scritti, e quando la tensione nella sua vita si appiattiva, ecco che si dedicava all’unica attività capace di creare una tensione artificiale che lo faceva sentire vivo e pulsante: il gioco. 

Casanova fu uno dei più stimati bari e manipolatori di carte del suo tempo e il gioco fu per lui il principale mezzo di sostentamento, anche se non giocava per vincere, ma soltanto per il gusto di farlo; non viveva per il finale, ma per la costante tensione, “l’eterna avventura nella sintesi di nero e rosso”. 

Le esorbitanti puntate gli procurarono grandi ricchezze e potenti cadute, in una continua altalena di alti e bassi che si ripeté per tutta la sua vita di dannato avventuriero. 

Si ritrovò in duello dieci volte a un passo dalla morte, dodici volte a un palmo dalle soglie del carcere, i milioni gli scorsero tra le mani e se andarono velocemente, senza che egli abbia fatto alcunché per trattenerli, abbandonandosi totalmente ad ogni donna, gioco e momento, guadagnando così una vita piena. 

E le celeberrime avventure amorose? 

Casanova era “un vero e proprio stallone con le spalle di Ercole Farnese, con i muscoli di un lottatore romano, con la bruna bellezza di un giovane zingaro, con la virulenza e la sfacciataggine di un condottiero e la lussuria di un villoso dio silvestre”, e tutte queste qualità attiravano le donne senza che egli compisse il minimo sforzo di seduzione. E dalle donne era inesorabilmente stregato. Era sufficiente la scintilla di uno sguardo o il contatto fisico indiretto per infiammare i sensi del bell’avventuriero, “instancabile quando la concupiscenza lo punge e una concupiscenza che mai non cessa, che bracca tutto ciò che è femmina; una passione che, malgrado la straordinaria prodigalità, non si impoverisce”. E a ciò si dedicava pienamente; lui, eterno infedele, manteneva fede soltanto alla sua passione per le donne. Nulla per Casanova valeva più di un’avventura, o meglio, della possibilità di un’avventura, in quanto anche solo il sentore di una possibilità riusciva a scaldare la sua fantasia. E ciò valeva per qualunque donna. Non rischiò mai colpi di spada, insulti, ricatti e malattie per una donna unica e amata davvero, ma per una qualunque a portata di mano solo perché era donna. E non aveva preferenze di sorta, né di morale né di estetica, né di decenza, né di età: ogni donna era ben accetta, dalle giovani alle signore di rango, alle gobbe e sciancate delle taverne marinare. 

Questo insaziabile e trasversale appetito lo rendeva irresistibile agli occhi femminili che vedevano in lui un  uomo che non si risparmiava, ma si prodigava per loro perché, per Casanova, vedere le donne felici e rapite era il piacere supremo. Ed egli era un uomo che “offre ognuna doni accuratamente scelti, accarezza la loro vanità con lusso e leggerezza, si compiace di vestirle pomposamente di pizzi prima di denudarle, […], un vero Dio, un Giove che dona, che sommerge un tempo l’amata con l’ardore delle sue vene e sotto una pioggia d’oro”. Il fatto, poi, che sparisse subito dopo non diminuiva la sua luce, anzi la accresceva perché la brusca interruzione manteneva nelle donne il ricordo di un amatore raro ed eccezionale, rimanendo “Dio di una notte”. E nessuna lo ha mai voluto diverso da ciò che era: onesto nella sua passionalità infedele. Mai fece promesse d’amore ad alcuna. Ogni donna desiderava Giacomo Casanova soltanto per la sua eccezionale arte amatoria, nella quale egli era unico e irripetibile: il suo segreto era la carica della sua passione. 

Ma tutto ciò terminò con l’avvento dei quarant’anni, quando, insieme alla sua giovinezza, finì anche la sua felicità. D’un tratto, il mondo parve voltargli le spalle e sempre più spesso si vide coinvolto in tribolazioni e gli inviti alle corti divennero rari. Fu proprio una donna che gli diede il colpo che lo portò a vacillare per il resto della sua vita. Il raggiro di una giovanissima prostituta, che gli rubò tutto il denaro senza concedersi, gli fece perdere la forza che lo aveva spinto fino ad allora, ossia la sicurezza di sé, la sensazione di essere giovane. Per la prima volta si vide respinto con disprezzo, nonostante l’elevato prezzo pagato, e la fiducia in se stesso crollò definitivamente. 

E così svanita una considerevole fonte di denaro, quale erano per Casanova le donne, si trasformò da curioso a spia, da giocatore a mendicante, da uomo di società a scribacchino e da cittadino del mondo, quale si era sempre orgogliosamente considerato, diventò servo della Serenissima Repubblica di Venezia. 

La radicale trasformazione e l’addio al grande Giacomo si compiono quando per due monete, vestito non più alla moda e sotto le mentite spoglie di uno pseudonimo, si siedeva nelle osterie per osservare i sospetti, scrivendo rapporti di spionaggio agli Inquisitori. Da beniamino delle donne diventò abietto delatore che si manteneva mandando gli estranei nelle stesse carceri che aveva conosciuto in gioventù; fin quando naufragò in Boemia, girovagando come uno zingaro e sfoderando le sue vecchie arti nel tentativo di sopravvivere. 

Un ultimo guizzo del Casanova che era stato riaffiorò quando un ricchissimo conte lo assunse come buffone di corte in una città boema e dove restò per tredici anni, terminando la sua avventurosa vita in povertà e nell’infelicità. 

E così Casanova, “questo temerario incrocio di un uomo del Rinascimento e di un moderno cavaliere d’industria, questo bastardo della furfanteria e del genio, questo essere mezzo poeta e mezzo avventuriero”, ci appare più comprensibile, ma non riusciremo mai ad afferrarlo appieno. Lui, che “sfida ogni beffa e ogni biasimo; che non sente vergogna a farsi guardare, biasimare, criticare, beffare e disprezzare”, riuscirà sempre a sfuggirci, continuando a vagare nella Storia, proprio come ha fatto nel mondo per tutta la sua vita. 

recensione

Il gorilla ce l’ha piccolo

Il gorilla ce l’ha piccolo” di Vincenzo Venuto, edito da HarperCollins, è uno straordinario viaggio nella vita degli animali che ne racconta la sfera sessuale.
Il libro è diviso in otto capitoli che corrispondono ad altrettanti aspetti della vita animale (la guerra dei sessi, il corteggiamento, l’atto sessuale, il tradimento, la famiglia, la società, violenze e devianze, invecchiamento, lutto e amore), che ci mostrano come gli individui interagiscano tra loro e perché.
Attraverso uno stile fresco, dinamico e accattivante, l’autore fornisce molte informazioni dal punto di vista biologico utili per meglio comprendere il regno animale e, attraverso di esso, anche la vita dell’uomo.
Come si può capire se una specie è monogama o poligama? Con quale criterio la femmina sceglie il maschio con il quale riprodursi? A cosa serve il corteggiamento?
Questi sono solo alcuni dei quesiti attraverso i quali Vincenzo Venuto ci racconta questo straordinario mondo.
La lettura di questo libro appare come un appassionante documentario che invoglia il lettore, anche su invito dell’autore, ad affrontare questo viaggio utilizzando video reperibili online, per rendere l’esperienza ancor più istruttiva e coinvolgente. E così possiamo ammirare la danza di corteggiamento del manachino oppure il bizzarro canto dell’uccello lira, alcuni tra gli esempi citati per spiegare questo aspetto della sfera sessuale degli animali.
Attraverso l’uso di molti esempi e alcuni aneddoti della sua vita da biologo, l’autore rende chiari e fruibili a tutti importanti principi scientifici, riuscendo a catturare e mantenere viva l’attenzione del lettore.
Il gorilla ce l’ha piccolo” è un libro entusiasmante che appare come una fonte inesauribile di informazioni interessanti, dalla quale bere ogni singola parola.
Un testo che tutti gli appassionati della natura dovrebbero leggere anche per imparare qualcosa di più sulla specie più temibile della terra: l’uomo.