Un libro è un amico, un compagno di viaggio e di avventura, un forziere di emozioni; dona la possibilità di vivere la realtà che preferiamo, di conoscere e viaggiare nel tempo e nello spazio.
“I Medici. Ascesa e potere di una grande dinastia”, scritto da Claudia Tripodi ed edito da Diarkos Editore è un saggio molto godibile sulla potente casata fiorentina. Abbracciando un arco temporale di circa quattro secoli, da Giovanni de’ Bicci, il capostipite della famiglia, a Gian Gastone de’ Medici, ultimo esponente, racconta in diciassette capitoli lo sviluppo di questa gloriosa dinastia attraverso le vite dei suoi membri più illustri. È un saggio completo, scritto in modo chiaro e scorrevole, che risulta esaustivo senza mai essere cattedratico; al contrario, appare fluido e coinvolgente. Un punto di forza è l’affascinante delineazione delle personalità e delle caratteristiche personali peculiari di ogni personaggio raccontato, che arricchisce le biografie di ognuno, regalando una visione umanizzata di figure conosciute soltanto sui libri di scuola. Inoltre, fornisce al lettore una panoramica dei fatti, italiani ed europei, più importanti dei vari periodi trattati, che fanno da sfondo alle vicende medicee e con esse si intersecano, come ad esempio il Sacco di Roma del 1527 o lo scisma della chiesa anglicana del 1534. Il testo appare, così, un valido strumento per conoscere la Storia del nostro Paese e d’Europa e per capire gli sviluppi del Rinascimento e dell’Età Moderna. Nonostante sia un saggio ben particolareggiato, l’autrice non si perde in lunghi preamboli o noiosi incisi, ma va dritta al punto delle questioni, dimostrando l’abilità di saper mantenere viva l’attenzione del lettore. Inoltre, fonti e citazioni sono dosate in maniera impeccabile e ben utilizzate, in modo da non appesantire la trattazione. Altro pregio risulta essere lo spazio dedicato alla componente femminile ed ecclesiastica della famiglia. “I medici. Ascesa e potere di una grande dinastia” è un saggio oltremodo interessante, raccontato in maniera semplice; utile soprattutto ai quei lettori che vogliono approcciarsi alla storia della famiglia Medici e a quelli che vogliono andare oltre la figura del più noto Lorenzo il Magnifico e che non può mancare nella libreria di tutti gli appassionati di questa importante dinastia e della storia di Firenze.
“Mi piacerebbe davvero tanto credere al tuo punto di vista, Tino, ma sai cosa vuol dire amare così tanto, da provare dolore fisico, qualcuno che non vuole farsi neanche toccare da te?”
Questa è la storia dell’amore tra Paolo e Francesca. Questa è la storia della vita consumata di Gianciotto. Questa è la storia di una catastrofe annunciata.
Attraverso le pagine del romanzo breve di Alessandra Casati, “Amor, c’ha nullo amato amar perdona”, edito da Giovane Holden Edizioni, ripercorriamo una celeberrima vicenda storica, l’amore che, alla fine del ‘200, ha unito Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, ma attraverso gli occhi di Giovanni Malatesta, fratello di Paolo ma, soprattutto, marito di Francesca. Questo punto di vista insolito permette al lettore di entrare in empatia con colui che ha ucciso la moglie e il fratello. Tra le righe traspaiono nettamente le difficoltà che ha affrontato nel corso della sua esistenza che lo hanno indotto al misfatto. Già dalle prime pagine, si percepisce il senso di inferiorità che provava nei confronti del fratello più dotato; un’invidia latente, che a poco a poco prese corpo. Innamorato di una donna che non lo ricambiava con lo stesso amore, disprezzato dal padre per colpa delle sue menomazioni fisiche, stremato dall’eterno paragone con il fratello Paolo. Protagonista del romanzo, infatti, non è la storia d’amore tra Paolo e Francesca, ma la vita di Giovanni Malatesta e il suo amore per la giovane da Polenta. Un uomo con le proprie debolezze, i propri fantasmi e i propri dolori: il risultato è un personaggio storico umanizzato, sganciato dalla damnatio memoriae che gli ha conferito il terribile omicidio. In questo libro sono i suoi sentimenti a prevalere: l’amore verso quella fanciulla che gli aveva rapito il cuore, la tristezza e la gelosia nel saperla innamorata di suo fratello. Il ritratto è quello di un uomo innamorato e respinto, devoto e tradito; un uomo che, per tutto il corso della sua esistenza, ha soltanto cercato l’affetto che gli è sempre stato negato. E lo ha bramato soprattutto da colei che aveva generato in lui sentimenti nuovi, lei che aveva desiderato con tutte le forze e che era riuscito ad avere. Ma il matrimonio iniziò con l’inganno della fanciulla già perdutamente innamorata dell’uomo sbagliato; un matrimonio indesiderato per la bella Francesca, combinato dal padre Guido per motivi di convenienza politica, come d’uso all’epoca, ma diverso rispetto agli altri. Infatti, Giovanni era sinceramente innamorato di lei e la trattava con rispetto, desiderandone la felicità. Un amore rimasto nell’ombra dei sentimenti che Francesca ha sempre nutrito per Paolo; sentimenti con i quali Giovanni ha dovuto convivere per tutta la durata del matrimonio. Un amore per quel fratello che lo aveva sempre messo in ombra. Il contesto è ben ricreato e il racconto è fedele alla realtà storica. Il personaggio di Gianciotto è ben caratterizzato sotto tutti i punti di vista e la narrazione in prima persona del protagonista permette al lettore di immedesimarsi con esso, aumentandone la suggestione. Grazie allo stile fluido e scorrevole, si legge tutto d’un fiato, ma una nota stonata è rappresentata dall’uso, a volte, di alcune espressioni tipiche del linguaggio contemporaneo, non adatto al contesto narrato.
Punto forte di questo breve ed intenso romanzo che, in poco più di settanta pagine, riesce abilmente a condensare la vita del protagonista, è il finale emozionante, coinvolgente e carico di pathos. “Amor, c’ha nullo amato amar perdona” è un piccolo, grande romanzo che ha il pregio di mostrare al lettore l’altra faccia della medaglia di una vicenda lontana che, grazie a Dante, è arrivata fino ai giorni nostri.
“Il mondo antico sorprende perché siamo abituati a considerarlo inferiore al nostro, dimenticando che chi è vissuto nell’antichità non è affatto diverso da noi; anzi, in un certo senso è come vedere noi stessi proiettati in un’altra epoca, con la nostra creatività, i nostri pregi e difetti. Per questo l’antichità ci sorprende. Ma non dovrebbe farlo: la migliore fantascienza non è nel futuro, ma nel passato…”. Roma, 18 luglio 64 d. C. E’ una torrida giornata estiva quella che devono affrontare Vindex e Saturninus nella loro ronda, un veterano e una recluta dei vigiles, i vigili del fuoco dell’Antica Roma. Come ogni giorno, devono assicurarsi che tutte le fonti di fuoco della città siano sicure. Ma non sanno che questo sarà l’ultimo giorno della Roma che conoscono, perché la prossima notte le fiamme la distruggeranno per sempre, cambiando il corso della Storia. Ne “L’ultimo giorno di Roma”, il primo capitolo della trilogia dedicata a Nerone, edita da HarperCollins, Alberto Angela supera se stesso, affrontando un tema, quello del Grande Incendio di Roma del 64 d.C., sul quale scarseggiano le fonti coeve, e racconta una Roma andata distrutta per sempre, di cui restano soltanto pochi indizi e molte ipotesi. Insieme al team che ha creato per raccontarci questo momento della Storia, ha fatto un sorprendente lavoro di ricerca e studio delle minime fonti e ci ha restituito l’affresco di una Roma poco conosciuta e molto diversa da quella che siamo abituati a ricordare. Ha saputo ricostruire con grande abilità vite di persone realmente esistite, ha creato ipotesi verosimili suffragate da dati certi. Il risultato di questo encomiabile lavoro è un racconto minuzioso ed estremamente coinvolgente che ci trasporta in un’epoca davvero lontano e ci permette di entrare in confidenza con questa faccia di Roma di cui sono sopravvissute pochissime testimonianze, ma che appare incredibilmente simile ai giorni nostri. Dal mestiere del vigile del fuoco, alla raccolta dei rifiuti, dal funzionamento di librerie ed editori allo svolgimento delle corse al Circo Massimo, scopriamo un popolo antico molto moderno e avanzato, molto simile a noi; una città multietnica ma con un’unica cultura, con problemi che ricorrono anche al giorno d’oggi, come la speculazione edilizia. Proprio come si fa guardando un cielo stellato, Alberto Angela, con il suo stile unico e inimitabile, ricco di competenza ed entusiasmo, unisce tanti frammenti di Storia Romana per ricreare la Roma di Nerone. Prendendoci per mano e seguendo la ronda dei due vigiles, ci guida attraverso le strade della città e ci indica ogni attività e luogo, ci presenta persone realmente esistite che tornano a vivere di nuovo davanti ai nostri occhi. Incontriamo schiavi, mercanti, avvocati e bambini; sentiamo il profumo delle pietanze pronte nelle popine per la colazione; attraversiamo il foro di Cesare; ascoltiamo il boato del pubblico fuoriuscire dal Circo Massimo. Insieme a Vindex e Saturninus passeggiamo letteralmente tra le strette strade della città, ricche di botteghe e bancarelle, percependo gli spintoni della gente al mercato, i discorsi dei filosofi nelle tabernae librariae, il tintinnio delle monete maneggiate dagli argentarii e dai cambiavalute. Ampio spazio è dedicato al fondamentale lavoro dei vigiles, impegnati di giorno a prevenire gli incendi e di notte anche a vigilare sulla sicurezza pubblica tra le pericolosissime strade buie della capitale dell’Impero, del quale viene descritto ogni aspetto. In poco più di trecento pagine, Angela ci racconta ogni aspetto della città e della vita quotidiana in quel preciso momento storico, permettendo al lettore di lasciarsi avvolgere da una cascata di emozioni e di tuffarsi in quel mondo così lontano, e lo fa con quello stile travolgente e trascinante che lo contraddistingue. Nonostante la quantità di informazioni che fornisce, questo libro non annoia mai, anzi stimola la curiosità di continuare la lettura e di approfondire i temi trattati. Oltre a regalarci l’immagine di una Roma perduta per sempre, inoltre, quest’opera ha un altro pregio: restituisce al lettore un ritratto più vero di Nerone, ripulito dalla damnatio memoriae che lo ha consegnato alla Storia. Scopriamo così un Nerone attento agli interessi del popolo, che si assicura, ad esempio, che a Roma non manchi mai il grano. “L’ultimo giorno di Roma” è una lettura totalmente immersiva e molto istruttiva, che ci riempie gli occhi della bellezza e della grandezza di una città unica nella Storia, in grado di appassionare anche i più refrattari verso il passato. Dopo aver affrontato questo viaggio incredibile nella Storia, così sorprendente da mozzare il fiato, non guarderete più Roma con gli stessi occhi.
P.S. Voglio darvi un consiglio. Dopo aver letto “L’ultimo giorno di Roma”, perdetevi nella lettura di un altro interessante libro di Alberto Angela, “Una giornata nell’Antica Roma”. Vi accorgerete di quanto fosse diversa Roma nei due periodi trattati, a soli cinquant’anni di distanza. Sarà senz’altro un’esperienza emozionante.
In un periodo come il Medioevo, che tutti definiamo “buio”, nel quale essere donna era certamente uno svantaggio, possiamo trovare, però, qualche sprazzo di luce che ci ricorda che, forse, così oscuro non lo è sempre stato.
Ne è una dimostrazione la storia di Trotula de’ Ruggiero, che nell’XI secolo operò come medico presso la Scuola Medica Salernitana, la prima e più importante istituzione medica d’Europa nel Medioevo, considerata da molti come l’antesignana delle moderne università. Il suo operato ci arriva fino ad oggi, grazie a due trattati che scrisse circa la salute e il benessere delle donne (De passionibus mulierum ante in et post partum ) e la cosmesi e la cura del corpo (De ornatu mulierum), che vennero utilizzati per molto tempo nel corso della Storia e che possiamo consultare nell’edizione pubblicata da Manni Editore.
Trotula nacque a Salerno, da una’importante famiglia nobile normanna che contribuì alla costruzione del Duomo della città. I nobili natali le permisero di studiare medicina e di esercitare la professione; sposò uno dei più celebri medici dell’epoca, Giovanni Plateario ed ebbe due figli che seguirono le orme dei genitori, riuscendo a conciliare il lavoro con la vita familiare, come in una famiglia contemporanea. E già questo aspetto appare straordinario, perché non dimentichiamo che visse in pieno Medioevo, dove la donna era sottomessa al marito e si occupava esclusivamente di attività come ricamo e tessitura (ciò accadeva nelle famiglie nobili, come quella a cui apparteneva Trotula).
La sua figura fu famosa in tutta Europa, soprattutto per gli studi legati alla sfera femminile: era una donna che metteva a disposizione il proprio lavoro per aiutare altre donne, grazie all’approfondita conoscenza della fisiologia e delle patologie femminili, che le permetteva di suggerire le cure più adatte. Concepiva il benessere complessivo della donna come armonia di salute e bellezza.
Trotula scrisse di desiderio sessuale e di cure per la sterilità, di metodi di contraccezione o di modi per superare le complicazioni delle gravidanze e i rischi del parto. Aveva una cultura medica superiore e sottolineò l’importanza dell’igiene, del controllo delle nascite, dei metodi per rendere meno doloroso il parto; ebbe intuizioni avanzate, come l’idea che l’infertilità potesse anche dipendere dall’uomo. Inoltre, considerava fondamentale la prevenzione e l’anamnesi accurata per individuare la terapia corretta ed evitare così l’intervento chirurgico, spesso erroneamente prospettato dai colleghi maschi.
Il fatto che fosse una donna le permise di avere una conoscenza approfondita e maggiore di quella maschile circa la fisiologia femminile, soprattutto a causa della generale misoginia scientifica che faceva considerare inferiori le donne anche a causa della diversa anatomia e la maggior parte dei medici uomini non le visitava accuratamente.
Era riconosciuta, stimata e apprezzata dai più grandi uomini di medicina e di scienza dell’epoca e a lei va il merito di aver elevato la ginecologia e l’ostetricia a disciplina medica, depurandola dal velo di superstizione che incombeva sul misterioso momento della nascita di una nuova vita.
Leggere i suoi trattati, che acquisirono fama di testi scientifici già nel XII secolo e furono poi tradotti in varie lingue, diventando base di studio per altri medici, è estremamente affascinante perché ci permette di scoprire quale fosse l’approccio alla medicina in un’epoca così distante dalla nostra.
Trotula de’ Ruggiero fu sicuramente un donna straordinaria dell’epoca in cui visse e la sua storia è un faro che illumina la presunta oscurità del Medioevo.
Vi lascio un piccolo estratto dal trattato “Sulle malattie delle donne prima, durante e dopo il parto”:
“Per sapere se una donna sia incinta di un maschio o di una femmina, prendi dell’acqua da una fonte, fa’ che la dona estragga due o tre gocce di sangue o di latte dal lato destro del corpo e versale dell’acqua. Se precipitano sul fondo, la donna è incinta di un maschio; se galleggiano, sarà una femmina. Così sostiene Ippocrate: una donna che porta in grembo un maschio ha un bel colorito e il suo seno destro è più grande del sinistro. Se è pallida, ha in grembo una femmina, e il seno sinistro è più grande del destro.”
Eccomi alla seconda tappa del progetto dedicato alla Congiura dei Pazzi, ossia l’attentato alla vita di Lorenzo de’ Medici, avvenuto nell’aprile del 1478, che provocò la morte del fratello Giuliano. Nel primo articolo dedicato a questa vicenda, avevo parlato dell’evento in sé, mentre questa volta voglio dedicarmi al coinvolgimento nel complotto di un personaggio di grande rilievo: Federico da Montefeltro, duca di Urbino.
Per raccontare questo aspetto, ho letto “L’enigma Montefeltro” di Marcello Simonetta, che ripercorre tutta la vicenda, illustrando anche cause e conseguenze della congiura.
Nella seconda metà del XV secolo, Federico da Montefeltro era il più grande condottiero e capitano di ventura, ingaggiato dai più potenti Signori.
La sua amicizia con Lorenzo de’ Medici nacque nel 1472, quando l’urbinate fu assoldato da Firenze nella guerra contro Volterra, che non voleva condividere le miniere di allume.
Dopo pochi anni, però, il Montefeltro maturò un’acredine nei confronti del fiorentino che si sviluppò di pari passo con quella tra quest’ultimo e papa Sisto IV, che prese le mosse dal rifiuto del Medici al prestito chiesto dal Papa per l’acquisto della città di Imola, nel 1473. Tale diniego da parte della Banca che aveva in gestione i conti dello Stato Pontificio, costrinse il Papa a rivolgersi ad un’altra banca fiorentina, diretta concorrente di quella medicea: quella dei Pazzi, gestita da Jacopo e Francesco Pazzi, uomini molto ambiziosi e desiderosi di rimpiazzare i Medici come signori di Firenze e come banchieri papali.
L’anno successivo, un altro evento significativo creò un’ulteriore crepa nei rapporti tra Sisto e Lorenzo: la questione di Città di Castello. Dopo l’espansione del dominio ecclesiastico su Imola, alcune città iniziarono a ribellarsi e la prima a farlo fu proprio Città di Castello. Il Papa mandò suo nipote, il cardinale Giuliano della Rovere, ad assediare la città, il quale però non vi riuscì soprattutto a causa dell’appoggio che il capo della ribellione Nicolò Vitelli riceveva da Lorenzo de’ Medici, che percepiva l’iniziativa di Sisto come un’aggressiva interferenza nel controllo dell’Italia centrale. Il Papa ritenne il comportamento del Medici come un offensivo tradimento e, nell’agosto del 1474, chiamò il Montefeltro per dirimere la questione. Egli marciò sulla città, che si arrese immediatamente, probabilmente per evitare la stessa sorte di Volterra. Quando ciò accadde, Federico era appena stato nominato duca da Sisto con una cerimonia molto simbolica, che evocava il potere della Chiesa di mettere l’arma della giustizia nelle mani del potere secolare.
Un potere che il nuovo duca di Urbino prese molto seriamente, tanto che iniziò a vedere Lorenzo come un nemico potenziale del Papa, da distruggere. Il suo obiettivo divenne il rovesciamento del regime mediceo su Firenze. Con i rapporti rovinati tra Sisto IV e Lorenzo de’ Medici, Federico da Montefeltro si schierò apertamente con il pontefice, tanto da dare in sposa una delle sue figlie al nipote del Papa, Giovanni della Rovere.
Alla fine di quell’anno così teso, arrivò anche lo “schiaffo morale” da parte del Montefeltro nei confronti del Magnifico, allorchè quest’ultimo chiese un cavallo per la giostra del 1475: il duca rispose che lo aveva già dato ad un membro della famiglia Pazzi.
In quei mesi, l’odio del duca di Urbino nei confronti di Lorenzo crebbe tanto da mettere in guardia anche Cicco Simonetta, il quale intercettò una lettera del Montefeltro in cui scriveva che il re di Napoli avrebbe dovuto cacciarlo da Firenze o farlo tagliare a pezzi. Il suo intento era quello di usare tutto il suo peso politico per mettere in difficoltà il Medici davanti alla corte di Napoli.
Una nuova frattura nei rapporti tra Montefeltro e Medici si creò all’indomani della morte del duca di Milano Galeazzo Sforza, alla fine del 1476. In quell’occasione, Cicco Simonetta, braccio destro del defunto duca e nuovo reggente del ducato, chiese aiuto a Federico per rinsaldare il potere ducale su Milano, ma Lorenzo lo impedì nel timore che la garanzia militare e politica del condottiero diminuisse l’influenza che aveva sulla città in virtù del rapporto di grande amicizia che lo legava a Galeazzo, e favorì il suo diretto concorrente, Ludovico Gonzaga.
Federico, così, iniziò a screditare la figura del Magnifico agli occhi di Milano, nel tentativo di portare il Simonetta dalla parte del re di Napoli, al fine di indebolire la lega tra Milano, Firenze e Venezia. Infatti, Urbino si trovava proprio al centro tra due alleanze: da una parte la Lega citata e dall’altra l’asse Napoli e Stato Pontificio; Federico serviva entrambe in qualità di mercenario.
Una prova del coinvolgimento del duca di Urbino nella congiura, la diede, a fatti avvenuti, proprio il soldato Gian Battista Conte di Montesecco (assoldato dai congiurati per uccidere Lorenzo), quando, al momento della confessione prima di essere giustiziato, riportò la conversazione avuta con Riario e Salviati, il quale gli disse che fuori Firenze avevano il favore del duca. Nella stessa confessione si evince anche che il primo a voler la morte dei fratelli Medici, oltre a Riario e Salviati, era proprio Papa Sisto IV.
Quest’ultimo, infatti, sigillò con Montefeltro il patto per l’eliminazione dei Medici attraverso un dono, una catena d’oro, regalata al figlio del duca, Guidobaldo, con un significato ben preciso: Sisto, dopo aver conferito a Federico il titolo ducale, riconosceva così la legittimità dinastica dei Montefeltro, che in questo modo ricevevano l’investitura ecclesiastica per le generazioni future. Questo rapporto tra papa e duca ben chiarisce quale fosse la convenienza del Montefeltro nel sostenere il papato e la congiura contro Lorenzo.
Una prova ulteriore la diede proprio il duca di Urbino, in una lettere inviata a Cicco Simonetta pochi giorni dopo l’attentato, quando si sparse la voce che il conte Montesecco aveva confessato, nella quale fu chiaro quanto fosse coinvolto.
Tuttavia, quando aveva accettato di contribuire al complotto, Federico lo aveva fatto contando di diventare il “salvatore di Firenze”, in quanto credeva nel sostegno popolare del partito antimediceo, che avrebbe permesso alle sue truppe di entrare in città facilmente, senza spargimenti di sangue. Ma non andò così, pertanto, quando poco tempo dopo si presentò un’altra occasione di assediare Firenze, egli rifiutò. Ciò avvenne perché il Montefeltro avrebbe voluto liberare la città da Lorenzo, ma senza metterla a ferro e fuoco, come era accaduto a Volterra. Non voleva risultare agli occhi del popolo come un invasore e, per questo, si oppose ad un sacco della città, mantenendo però salda la volontà di rovesciare il regime di Firenze minando l’autorità di Lorenzo dall’esterno.
Ma il Rinascimento è stata un’epoca nella quale le alleanze e gli equilibri politici furono quanto mai fragili e volubili e ben presto Federico da Montefeltro si accorse che l’odiato Medici rappresentava il male minore. Solo un anno dopo la congiura, infatti, un altro pericolo iniziò ad aleggiare sulla sua città: la sfrenata ambizione del conte Girolamo Riario. Così il duca di Urbino si trovò a trattare proprio con Lorenzo per frenare Riario che ambiva a diventare l’uomo più influente della penisola: se Firenze avesse perso potere, tutta l’Italia centrale sarebbe stata in balia del papato e Urbino avrebbe potuto diventare la prima facile preda del Papa; la legittimazione dei Montefeltro dipendeva proprio da Sisto, il quale avrebbe potuto revocarla in qualsiasi momento.
E questo suo voltafaccia nei confronti di Sisto IV si palesò all’indomani della pace siglata a Napoli da Lorenzo nel 1479: il Papa reputò Federico regista occulto di un accordo di pace che non teneva in considerazione gli interessi della Chiesa e lo iscrisse nel suo libro nero. Federico da Montefeltro, fino a poco tempo prima paladino degli interessi del Papa, nel 1482 smise di essere condottiero della Chiesa; Sisto non rinnovò il suo contratto.
La ritrovata interessata amicizia con il Magnifico provocò una spaccatura profonda tra Federico e i suoi precedenti complici, Sisto IV e Riario. Lorenzo, ormai armai alleato del re di Napoli e del nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, offrì al Montefeltro un contratto d’oro per la difesa della città di Ferrara, entrata nelle mire di Girolamo Riario. Gli equilibri erano cambiati ancora una volta e Roma era spalleggiata da Venezia.
Ma poco importò per Federico da Montefeltro che morì di malaria all’età di sessant’anni nelle paludi ferraresi proprio mentre si trovava nel mezzo della difesa di Ferrara dall’assedio di Venezia, forse pentendosi di essersi allontanato dal Papa e dalla Chiesa proprio poco prima di morire.
Tutto questo e molto di più lo potete trovare ne “L’enigma Montefeltro” di Marcello Simonetta, un saggio molto approfondito che spiega e racconta molte vicende del primo Rinascimento. Una lettura davvero appagante e intrisa di informazioni importanti per tutti gli appassionati di Storia.
Vi aspetto alla prossima tappa in cui vi racconterò come cambiò per sempre Lorenzo il Magnifico dopo il terribile attacco in Santa Maria del Fiore.
Federico da Montefeltro nel ritratto di Piero della Francesca