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Il geranio Rosso

È il 1801 e siamo a Charleroi, in Belgio.  Una donna di quarantacinque anni, con il ventre pronunciato per la gravidanza avanzata, prepara la colazione ai suoi due figli, Luigi e Marie Thérèse, e saluta con un tenero bacio il marito, il cavaliere Jean Jarjayes.
Sembra una scena di vita familiare qualunque, ma quella donna è Maria Antonietta, l’ex regina di Francia. È scampata alla ghigliottina e ora vive felice con il suo nuovo amore, i figli e la fedele amica Louise de Lamballe.
Nel romanzo breve “Il geranio rosso”, edito da Giovane Holden Edizioni, Paola Gianoli Caregnato, attraverso una prosa aulica e non comune, ripercorre la vita dell’ultima regina di Francia. Dall’arrivo a Parigi, nel 1770, come promessa sposa del delfino Luigi, fino al fantasioso presente in Belgio.
L’autrice ci restituisce il ritratto immaginario dell’intimità e della semplicità di una delle donne più famose della Storia, così come non abbiamo mai avuto occasione di scoprirla.
Ci racconta di una Maria Antonietta madre e moglie comune, che nella serenità di quei momenti accavalla nella sua mente i dolorosi ricordi del periodo del Terrore, nel quale tutto le era sembrato perduto. La osserviamo sorseggiare un tè, scrivendo memorie che avrebbe voluto dimenticare; la vediamo danzare intorno ad un tavolo con il marito e l’amica di sempre, ma anche ricordare la tremenda fine del suo precedente e illustre consorte, re Luigi XVI.
Nonostante la brevità dell’opera, l’autrice ha riservato ampio spazio alle biografie dei personaggi, permettendo al lettore di entrare in confidenza con loro e di apprendere nozioni e curiosità sulla Rivoluzione Francese e sui suoi protagonisti.
Uno stile molto particolare, caratterizzato dall’utilizzo di piacevoli francesismi, che creano un’atmosfera che permette al lettore di calarsi maggiormente nel contesto, ma anche da lunghi periodi che penalizzano la fluidità della narrazione.
“Il geranio rosso” è un romanzo breve ma intenso e, a tratti, grottesco, nel quale si assiste allo scorrere della vita di una grande donna, ingiustamente disprezzata in veste di regina.

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La mantella rossa

Andalusia, 1494.
Clara Fonseca è una fanciulla con la passione per la medicina, trasmessale dal padre, nata cristiana da una famiglia di conversos; Diego de Mesa, è un valoroso hidalgo, appartenente ad una famiglia di cristianos viejos, contrario alla schiavitù e ai pregiudizi che impregnano la società nella quale è cresciuto. I due giovani si innamorano perdutamente, ma i matrimoni misti non sono ben visti nella Spagna cristiana dei Re Cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Le loro famiglie non accettano questo amore e Diego decide di prendere parte alla guerra per la conquista di Tenerife, per crearsi una posizione che gli permetta di sposare la sua Clara, nonostante il divieto imposto. Ma l’ombra dell’Inquisizione calerà anche sulla famiglia Fonseca e allora tutte le certezze crolleranno; Roma e Tenerife divideranno i due innamorati.
Riuscirà l’amore a superare ostacoli insormontabili come l’Inquisizione, la persecuzione e la distanza?
Questa è la trama de “La mantella rossa”, scritto a quattro mani da Domitilla Calamai e Marco Calamai de Mesa ed edito da La Lepre Edizioni.
La storia di Clara e Diego si svolge sullo sfondo di una Spagna fermamente cattolica e intollerante verso le altre religioni ed, in particolare, degli ebrei, in un clima di grande ostilità nei loro confronti. I Re Cattolici, infatti, alla fine del XV secolo attuarono una repressione verso mori ed ebrei, cacciandoli dalla Spagna, allo scopo di uniformare il loro regno dal punto di vista religioso. Ad essi fu concessa la possibilità di scegliere tra l’esilio e la conversione, ma tale opzione fu soltanto una mera illusione. Coloro che sceglievano di rinnegare la propria religione per abbracciare il cristianesimo, chiamati conversos, venivano infatti additati e subivano la cattiveria del pregiudizio da parte dei cristiani puri, i cristianos viejos, contraddistinti appunto dalla limpieza de sangre. Soprattutto quando, a dare un’accelerata all’unificazione religiosa, arrivò l’implacabile Inquisizione di Tomàs de Torquemada, che ne fece il bersaglio principale della sua attività, inventando accuse ed estorcendo confessioni attraverso la tortura, praticando la politica del sospetto.
Il grande pregio di questo romanzo sta proprio nel puntuale racconto del terribile scenario della persecuzione degli ebrei e di altri argomenti molto interessanti: la conquista di Tenerife con il consequenziale tragico eccidio dei nativi e la sottomissione dei superstiti ; l’affascinante descrizione della figura dell’hidalgo, titolo nobiliare attribuito ai secondogeniti, ai quali non spettava nulla in eredità dalla famiglia e che, per tale motivo diventavano consquistadores, proprio come accade al protagonista; la drammatica realtà della schiavitù dei neri importati dalle colonie africane. Inoltre, è molto suggestivo anche il crudo dipinto della Roma di papa Alessandro VI.
La narrazione è fluida e permette al lettore di addentrarsi con piacere e scorrevolezza nel racconto.
La competente descrizione degli avvenimenti storici è un’altra nota di merito per gli autori. Inoltre, il contesto storico e l’ambientazione sono ben delineati, così come è chiara ed efficace la caratterizzazione dei personaggi.
La mantella rossa” è un romanzo istruttivo e coinvolgente che racconta uno spaccato del Rinascimento, in cui la storia  dei protagonisti si fonde sapientemente con lo sfondo storico nel quale è collocata. Gli autori sono, infatti, abili nel tratteggiare tutte le caratteristiche di quell’epoca di grandi cambiamenti e nel far emergere le emozioni contrastanti che hanno caratterizzato ogni personaggio del racconto. In particolare, rendono chiari i pregiudizi che permeavano la società e il disprezzo del quale erano oggetto gli ebrei, così come lo stato di smarrimento e rabbia che colpiva quest’ultimi.
È una lettura molto piacevole e affascinante, che accompagna il lettore in mondi lontani attraversati da un periodo difficile e caratterizzati da piaghe che, purtroppo, si sono protratte a lungo nei secoli.

Romanzo storico

Rosso di Tiro, Blu d’Oltremare

“Al calare della notte s’alzavano i ponti levatoi, le sentinelle salivano sulle mura di guardia, le porte delle case venivano sprangate con catene e paletti. Nelle strade buie, soltanto la ronda e branchi di randagi. Eppure, ogni sera d’inverno, quel nugolo di donne armate di fusi, fili e vecchie rocche osavano sfidare la legge e la sorte. All’ora convenuta, con sfrontatezza, astuzia e agilità feline si ritrovavano tutte insieme, ora nel retro di una bottega, ora al riparo di una stalla. All’alba tornavano a casa, gabbando gli sgherri e i mariti.”

Tra la bruma dei canali tinti di rosso e di blu, sotto il cielo di Bruges, in un clima tipicamente medievale, si svolge la storia del difficile amore tra Rose Van Triele e Robin Campen, sul quale veglia il piccolo gruppo delle Dame della Canocchia, donne coraggiose e curiose che, tra ricette e incantesimi, presagi e speranze, cercano di sottrarsi all’ignoranza e all’isolamento. Otto donne, ognuna con i propri pregi e i propri difetti, ma accomunate dalla voglia di emergere dal ruolo in cui la società degli uomini le ha relegate, proprio come le fate che “avevano abbracciato la vita rude delle selve anziché sottostare alle regole dispotiche di una società chiusa e ottusa”. Dalle vite di queste donne e dalla storia travagliata dei due innamorati ostacolati dalle famiglie, emerge il quadro della difficile condizione femminile che ha attraversato diversi secoli. Numerosi sono, infatti, i problemi e i pregiudizi che Greta, Rose, Alix, Emmeline, Margot, Sebile, Ysengrine e Anne devono affrontare. Dal dovere di sottostare al potere maschile al disprezzo nei confronti di una madre vedova, dalle velate accuse di stregoneria al beghinaggio. Ed è proprio questa condizione che spinge le otto donne, stanche di quel vivere con fatica e senza gioia, a coltivare il sogno di abbandonare insieme la città fiamminga. Sullo sfondo di queste vicende, si svolge la delicata situazione politica delle Fiandre di fine ‘300, che si trova nel bel mezzo della Guerra dei Cent’anni, nella quale Francia e Inghilterra si scontrarono per il predominio sul fiorente mercato tessile di cui Bruges era il centro commerciale. Alla guida stava il pavido Louis de Male, conte delle Fiandre e del Barbante, vessato dalle rivolte degli operai tessili che, nonostante le rivalità, fecero fronte comune contro la borghesia per rivendicare i propri diritti e ribellarsi ai soprusi dei funzionari pubblici.

Con questa trama e in questo contesto, si sviluppa il nuovo romanzo di Adriana Assini, “Rosso di Tiro, Blu d’Oltremare. Una storia fiamminga”, edito da Scrittura e Scritture, che deve il titolo alla tradizionale rivalità tra i tintori della robbia e quelli del guado.

Questo romanzo, come ogni singolo libro della Assini, spalanca le porte su un mondo lontano nel tempo, fatto di colori, profumi e suoni che riescono a riempire gli occhi e l’anima. Il lettore si ritrova, così, pervaso dagli odori dei mercanti di Bruges, strabiliato dai colori delle tinte delle sue stoffe pregiate, frastornato dalle urla dei tessitori adirati, inneggianti spergiuri nei confronti dell’inetto tiranno; osserva il cielo annebbiato delle Fiandre accanto al cuore innamorato della giovane Rose, salpa su galee battenti bandiera straniera inseguendo il sogno di Robin. Tra le pagine di questo libro, il lettore si sente quanto mai partecipe della storia. Adriana Assini, infatti, come nessun altro riesce a rapire il cuore di chi legge, grazie al suo stile narrativo lirico e romantico, nel quale ogni vocabolo è collocato con sapienza, come piccole tessere di un mosaico che compongono frasi vive che pulsano insieme al battito del cuore del lettore. Con un linguaggio carico di emozioni, capace di evocare le più mistiche e affascinanti visioni, le sue parole riescono, senza sforzo, a ricreare le scene davanti agli occhi di chi legge: questo è il grande pregio dell’autrice. Pur mantenendo il realismo e la verosimiglianza attraverso l’accurata ricostruzione del contesto, riesce a raccontare con parole intrise di magie e incanto, con il tono delle favole più belle; utilizza un lessico degno dell’epoca lontana che ospita la storia e la sua narrazione è delicata come il velo che ricopre il capo della Gioconda di Leonardo. Con frasi mirate e concise, riesce a rendere in modo perfetto la caratterizzazione fisica, psicologica e sociale di ogni personaggio. “Figlia delle maree e delle albe lunari, lei disprezzava la fiducia che gli umili riponevano nella Provvidenza e ambiva a fare il bene non per paura dell’Inferno o per brama del perduto Eden, ma solo per sottrarsi all’inutilità dello stare al mondo. Con i suoi gesti misurati ed eleganti, la carnagione nivea e gli occhi color fiordaliso, avrebbe potuto ambire al sole e alle stelle, e invece si ostinava a lottare a mani nude contro le lance acuminate dell’ingiustizia e dell’ignoranza”, così descrive Alix, una delle otto dame, con una prosa che diventa poesia alle orecchie del lettore. I dialoghi, che sembrano usciti da un’opera di Shakespeare, ammaliano il lettore e ne inebriano lo spirito. Musicali e colmi di meraviglia, gridano di essere recitati ad alta voce, tanto appaiono enfatici. Tra le righe del romanzo traspare la cura per il dettaglio usata per la ricostruzione dell’ambientazione e del contesto storico, che è uno dei punti di forza dei romanzi della Assini. Riesce, infatti, ad incastrare perfettamente le trame frutto della propria fantasia in contesti reali e sublimamente descritti, disseminando il racconto di dettagli e informazioni preziose sull’ambientazione e sul contesto, senza mai appesantire la leggiadria della narrazione.

Rosso di Tiro, Blu d’Oltremare” è un inno alla forza e alla tempra delle donne. Un romanzo ammantato di magia e alchimia, avvolto da superstizioni e sortilegi, la cui poesia è difficile da descrivere tanto ne è alto il livello. Un libro che racconta una trama interessante in un modo così sublime da far sognare: non si può spiegare ciò che si prova nell’intraprendere il viaggio tra le sue pagine, si può soltanto leggere e lasciarsi cullare dalle sue parole.

INTERVISTA

Due chiacchiere con gli autori: INTERVISTA DOPPIA A CRISTINA S. FANTINI E ALESSANDRA SELMI

Durante questo anomalo 2020 ho letto due romanzi storici che ho amato molto, usciti nella prima metà dell’anno: “Nel nome della pietra” di Cristina S. Fantini, edito da Piemme, e “Le origini del potere. La saga di Giulio II, il Papa guerriero”, scritto da Alessandra Selmi ed edito da Editrice Nord. Il primo ambientato nella Milano medievale, mentre il secondo nella Roma di Papa Giulio II. Proprio questa differente ambientazione ha fatto nascere in me il desiderio di mettere a confronto queste due epoche storiche e, a raggiungere l’obiettivo, mi hanno aiutato le autrici, con questa intervista doppia, per la quale le ringrazio profondamente.

Attraverso le loro risposte, proviamo così a confrontare Medioevo e Rinascimento.

“Nel nome della pietra” di Cristina S. Fantini, “Le origini del potere” di Alessandra Selmi. Due romanzi storici grandiosi, che trasportano il lettore indietro nel tempo, regalando uno spaccato di vita nei secoli passati. Qual è stata la spinta che vi ha fatto scegliere di raccontare questa storia?

FANTINI: Esiste una vasta letteratura sul Duomo di Milano. Storici, romanzieri, saggisti, poeti ne hanno celebrato la bellezza, il glorioso tripudio di guglie e statue ma ben pochi ne conoscono la genesi, visto che la fondazione risale al mese di maggio del 1386. Un incontro casuale, la richiesta di un racconto che avesse come protagonista Milano, una passeggiata in piazza Duomo: così è nato il desiderio di approfondire i segreti, l’origine, la storia di questa cattedrale sorta nel cuore più antico della metropoli lombarda. Da autrice di romanzi storici non potevo sottrarmi alla “sfida” che mi aveva ha lanciato il Duomo e da quel momento, per conoscere più a fondo questo nuovo protagonista delle mie storie, ho fatto un salto temporale dalla Roma Imperiale al Medioevo, nell’affascinante XIV secolo.

SELMI: Il personaggio. Conoscevo poco di Giulio II oltre a quello che avevo studiato (e dimenticato) sui libri di scuola. Approfondendo mi sono trovata davanti un vero personaggio da romanzo, pieno di contraddizioni e con molto da raccontare. Da quel momento è stato impossibile resistergli.

Quali difficoltà avete riscontrato nella stesura di romanzi che raccontano vite così lontane nel tempo dai giorni nostri?

FANTINI: Le difficoltà per la stesura di un romanzo storico sono molteplici, prima fra tutte il reperimento e l’interpretazione delle fonti. Devo confessare che, abituata a fare ricerca in un periodo storico ancora più lontano da noi, quello del I secolo, mi sono trovata molto più a mio “agio” con il Medioevo, periodo di cui abbiamo un’importante quantità di  testimonianze scritte e fruibili. Visto che nel mio caso si tratta di un romanzo e non di un saggio, la maggiore difficoltà sta nel conciliare la realtà storica con la vicenda inventata senza stravolgere la prima o mal interpretarla. Prima ho studiato con metodo e critica confrontando fonti e documenti, poi ho elaborato il materiale acquisito e, infine, l’ho interpretato ai fini della trama.

SELMI: La vera difficoltà è stata trovare un equilibrio tra la necessità di essere fedele alla vera storia e il bisogno di non annoiare il lettore con un saggio storico, didascalico e cronachistico. Trovare, insomma, una via di mezzo tra la realtà storica e la finzione narrativa.

Medioevo e Rinascimento; due tra le più importanti città d’Europa: Milano e Roma. Com’erano la Milano medievale e la Roma a cavallo tra ‘400 e ‘500?

FANTINI: Per descrivere la Milano medievale ci vorrebbero pagine e pagine, mi limiterò a raccontarvi di una città cosmopolita densamente abitata con alle spalle un passato di conquiste, assedi e distruzioni, prima fra tutte quella dei Goti del 539, il più grande massacro nella storia di Milano, poi quella di Federico Barbarossa del 1161-1162; una città che non si è mai arresa, operosa di mercanti e artigiani che rivestiva un ruolo centrale già a partire dall’epoca imperiale romana, visto che fu capitale dell’Impero d’Occidente nel IV secolo. Durante i Comuni la spinta verso l’autonomia e l’indipendenza la portò più volte a scontrarsi con il potere imperiale germanico e, attraversata dai venti di cambiamento che investirono l’Europa, passò dall’esperienza comunale all’instaurazione dei regimi signorili e alle lotte intestine tra i Della Torre e i Visconti, fino alla trasformazione in ducato con questi ultimi e i loro discendenti, gli Sforza, che permisero a Milano di giocare un ruolo da protagonista nella politica europea del XIV e XV secolo. Una città sempre in movimento anche quella di oggi che ha affrontato guerre, stragi ed epidemie con la voglia di rialzare sempre la testa.

SELMI: I Della Rovere segnano il passaggio tra Medioevo e Rinascimento. Roma a quei tempi era una città piena di contraddizioni. Da un lato, era il centro del mondo culturale e finanziario, pregna di opportunità. Dall’altro era ancora una città pericolosa, ostaggio delle famiglie nobiliari che si contendevano il potere a colpi di spada. Il Tevere non aveva argini e periodicamente esondava portando morte, distruzione e malattia. Ma proprio in quegli anni, per intuito di alcuni uomini di grande sensibilità artistica, dal terreno venivano riportati alla luce tesori come il gruppo del Laocoonte. Una città incredibile, nel bene e nel male, scenario perfetto per un grande romanzo.

Al centro di entrambi i romanzi, si colloca la Chiesa. Ne “Nel nome della pietra”, infatti, la storia si svolge intorno alla costruzione del Duomo di Milano, la chiesa di Maria Nascente, che rappresenta un punto di svolta per la popolazione milanese della fine del ‘300. Allo stesso modo, ne “Le origini  del potere”, protagonista del racconto è l’ascesa al potere di uno dei papi più famosi e controversi della storia, Giulio II. Qual era il ruolo della Chiesa nel Medioevo e nel Rinascimento? Cosa rappresentava per il popolo e quale peso aveva nello scacchiere politico europeo?

FANTINI: La Chiesa ha sempre avuto un ruolo primario nello scenario storico europeo, potere temporale e spirituale erano concentrati nella figura dei pontefici, vescovi e arcivescovi. Più che soldati di Cristo a quei tempi erano ambiziosi politici che sfidavano il potere secolare con eserciti di mercenari e capitani di ventura. La religione cristiana divenne quella ufficiale con Teodosio e l’editto di Tessalonica del 380, quando tutti gli altri culti furono messi al bando; il cristianesimo poté quindi espandersi a dismisura e impero e religione vennero a coincidere, nell’ottica di creare un “impero universale cristiano” di cui il potere politico era fondamento imprescindibile. La caratteristica del primo cristianesimo fu l’eterogeneità del culto e delle stesse istituzioni; soprattutto nell’alto Medioevo il controllo centrale era più labile e frammentato, così come coesistevano e proliferavano diverse interpretazioni del Vangelo. Lo stesso papato non aveva alcuna supremazia effettiva sugli altri episcopati, solo a partire dal V secolo cominciò un processo di affermazione dei vescovi di Roma, che pretesero e ottennero di essere successori del primo apostolo, Pietro. La Chiesa si pose quindi al servizio della società in più ambiti, divenne tramite tra mondo materiale e spirituale con la fondazione di monasteri e ordini monastici, unico fulcro della cultura che diffondeva l’istruzione. Papa Gregorio I Magno (590-604) rinnovò la Chiesa a tal punto da renderla una vera forza di potere e nell’VIII secolo essa diverrà uno stato secolare a tutti gli effetti. Con queste premesse, possiamo dire che nel secolo che ci interessa, il XIV, la Chiesa fa parte della vita quotidiana di tutti, profondamente radicata nel tessuto sociale, negli usi, nell’arte e nella cultura. È il periodo delle grandi cattedrali della cristianità, di quell’anelito che porterà l’uomo a costruire “ponti” di marmo e pietra volti a unire Terra e Cielo, Dio e i mortali, anelito magistralmente concretizzato dagli edifici più maestosi costruiti in tutta Europa come la cattedrale di Colonia, di Reims, di Notre Dame, il duomo di Firenze e lo stesso duomo di Milano, connubio tra l’ultimo gotico e la più terrena arte lombarda.

SELMI: La Chiesa a quel tempo era cosa ben diversa da quella che abbiamo in mente oggi. Era, prima di tutto, uno Stato, con confini e interessi da difendere, e il Pontefice era un capo di Stato, che ambiva a preservare e allargare il proprio potere. Oltre a essere potentissima, la Chiesa era anche molto ricca e di questa ricchezza le alte cariche facevano grande sfoggio, con buona pace dei principi di uguaglianza e povertà ispirati al Cristianesimo. La Chiesa del tempo non si faceva scrupolo a fare la guerra per i propri interessi, nonostante predicasse la pace. Era dunque un coacervo di contraddizioni che oggi sarebbe difficile comprendere. Queste contraddizioni erano viste dai più e tollerate come mali necessari, specie nelle fasce più povere della popolazione, ma proprio in quei tempi iniziano a germogliare movimenti di protesta per la condotta scellerata degli uomini di Chiesa.

Protagonisti di questi romanzi sono, da una parte due gemelli separati alla nascita in quanto frutto di un amore illegittimo, e dall’altra il giovane Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II. Quali caratteristiche del Medioevo e quali del Rinascimento sono incarnate da questi personaggi?

FANTINI: Nei primi secoli dopo Cristo si affermò la dottrina dualistica, secondo la quale oltre al dio benevolo esisteva anche un dio contrapposto al primo, maligno. Il pensiero medievale ci tramanda una partizione dell’essere umano in due elementi ovvero l’anima e il corpo, duplicità che scopre e giustifica la somiglianza con Dio e, nello stesso tempo, la natura mortale e peccatrice. Intelletto, Fede, anima e mortalità per tutto il Medioevo saranno oggetto di studio, di valutazione, di discussione e nasceranno movimenti ed eresie che la Chiesa condannerà a più riprese. Per la creazione dei gemelli mi sono ispirata al concetto di bene e male, di chiaro e scuro, di luce e ombra anche se sono entrambi personaggi positivi.

SELMI: Giuliano della Rovere è un uomo tipicamente rinascimentale, che incarna la natura stessa del proprio tempo. Pieno di contraddizioni egli stesso, uomo di Chiesa che tuttavia non si fece scrupoli a scendere in guerra, frate che fece voto di povertà e detenne poi grandissime ricchezze. Ma anche grandioso mecenate artistico di gusto raffinato e, diremmo oggi, illuminato “talent scout”: grazie a lui oggi abbiamo il Vaticano che tutti conosciamo, i Musei Vaticani, la Cappella Sistina. Della Rovere scoprì e portò alla massima fama artisti come Michelangelo, Bramante, Raffaello. Metà della città di Roma che vediamo oggi e che attira turisti da tutto il mondo è merito di questo papa straordinario.

Mentre ne “Nel nome della pietra”, nel raccontare le vicende dei protagonisti risulta molto importante la ricostruzione del contesto storico nel quale si svolge la trama, ne “Le origini del potere”, fondamentale è l’attinenza del racconto alla biografia del protagonista. Quale metodo avete utilizzato per la ricostruzione del contesto, da un parte, e della biografia e del carattere di un grande personaggio, dall’altra?

FANTINI: La trama del mio romanzo non poteva prescindere da una ricostruzione storica fedele del contesto storico e sociale della Milano del tempo. Strade, contrade, porte, uno studio urbanistico e artistico della città trecentesca sono stati punto di partenza essenziale. Il protagonista del romanzo è in realtà il Duomo, costruzione architettonica che andò a occupare gran parte della zona centrale della città, il “cuore” antichissimo, quindi dovevo dare ai lettori la sensazione di “vivere” e muoversi insieme ai protagonisti in quello scenario così diverso e lontano nel tempo. Piantine della città, racconti dei contemporanei, descrizioni delle vie milanesi consultate sono state parte essenziale di questo studio e, oserei dire, di scoperta.

SELMI: Ho letto moltissimo e fatto ricerca, senza escludere nessun mezzo, incluse le più recenti serie tv. È stato un lavoro di ricerca durato circa due anni, molto impegnativo per me soprattutto che non sono uno Storico di professione. Una piccola parte, poi, l’ho lasciata libera di divagare e divertirsi, assumendomi il rischio – tutto sommato limitato – di sbagliare: in fondo, un papa di cinquecento anni fa era comunque un uomo, mosso dagli stessi sentimenti che muovono anche noi oggi. Non dobbiamo pensare alla gente di allora come a degli extraterrestri: le ricerche che ho svolto mi hanno dato conferma che in mezzo millennio non siamo cambiati poi molto.

In entrambi i romanzi, anche l’amore trova la sua giusta collocazione, sia per i due fratelli Pietro e Alberto, sia per l’irascibile Giuliano della Rovere, amante della bella Lucrezia dei Normanni. Com’era l’amore nel Medioevo e, invece, quale ruolo aveva nella vita di uomo importante come Giuliano della Rovere?

FANTINI: Amore e piacere erano strettamente connessi ma demonizzati. Al primo si dava un significato spirituale, al secondo si attribuiva un significato carnale legato al sesso. I piaceri sensuali però erano condannati dalla Chiesa, secondo quest’ultima artifici escogitati dal demonio per allontanare gli uomini dalla salvezza e precipitarli nella dannazione. Un celebre trattato del XII secolo, il De amore di Andrea Cappellano, dava dell’amore una lettura intellettuale: nasceva dalla vista perché l’occhio era lo “specchio del cuore”, vedere e innamorarsi era tutt’uno. Infine ci si dichiarava con lo scopo di ottenere carezze, baci, sospiri e veri e propri poemi cantati dai menestrelli. Nella realtà, si corteggiava la fanciulla oggetto del proprio amore anche se il matrimonio vero e proprio, soprattutto tra le classi più abbienti, sanciva un vero e proprio “affare” regolato da contratti firmati dalle rispettive famiglie. Si spiega così la grande quantità di relazioni extraconiugali e il gran numero di figli illegittimi. Un Medioevo moralista, sessuofobo ma solo in apparenza visto che non è possibile etichettare un periodo di mille anni come omogeneo. L’amore e l’innamoramento però esistevano e, senza dubbio, nelle classi meno abbienti dove legami politici o economici, ambizioni e alleanze non erano essenziali per tramandare una dinastia, mi piace pensare che uomini e donne vivessero un amore più terreno e vicino al nostro, sempre regolato però dal rispetto delle regole che la Chiesa imponeva.

SELMI: Anche in questo ambito Giuliano della Rovere era un uomo pieno di contraddizioni: era un frate, tanto per cominciare, e aveva fatto voto di castità. Sappiamo però per certo che ebbe una figlia da Lucrezia Normanni, che riconobbe e a cui diede il proprio cognome: non ne fece dunque un mistero. Qualcuno diceva però che fosse omosessuale e che avesse relazioni con lo stesso Michelangelo. Altri sostengono che queste voci fossero state messe in circolazione al solo scopo di danneggiarlo. Quale sia la verità non è dato sapere, ma una certezza l’abbiamo: l’amore è sempre l’amore, da oltre quattromila anni e forse da ancor prima!

Un’ultima domanda. Quale aspetto dei periodi storici che avete raccontato vi affascina di più e quale, invece, rifiutate? Per Alessandra Selmi, quale lato del carattere e della vita di Giuliano della Rovere ti ha colpito maggiormente?

FANTINI: Non ho mai guardato da questo punto di vista il periodo storico affrontato nel romanzo, anzi sono rimasta affascinata dai suoi molteplici aspetti. La vita quotidiana, molto diversa dalla nostra, era una lotta per sopravvivere sia in campagna che in città e l’approccio alla morte era visto come la naturale conclusione di un periodo che portava all’immortalità dell’anima e quindi all’incontro con Dio. Direi piuttosto che ne sono rimasta completamente affascinata, visto che mi ha trasportato in una dimensione sociale e religiosa che conoscevo poco. Nessun rifiuto quindi, bensì una nuova consapevolezza. L’uomo, tutto sommato, non ha mai cambiato la sua natura più profonda anche se epoche ed eventi hanno imperversato sull’umanità in ogni epoca e nei più svariati contesti.

SELMI: La tempra straordinaria. Il coraggio. Il fatto che non fosse un codardo, che si assumesse la responsabilità delle proprie scelte, anche quando erano difficili e sbagliate. Il carattere fumantino, le collere improvvise e dirompenti, le sue ire terribili e la generosità con gli artisti. Un uomo dal carattere forte e dall’ambizione smodata.

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La Tigre di Forlì


Nel 1463 a Milano, veniva alla luce una bambina, figlia di Galeazzo Sforza e di Lucrezia Landriani, amante saggia e discreta del Duca: era Caterina Sforza, colei che passò alla storia come la Tigre di Forlì.
Francesca Riario Sforza ci racconta la vita leggendaria di questa donna incredibile nelle pagine della biografia romanzata “Io, Caterina”, edito da Tea Libri.
Bambina arguta dai lunghi capelli biondi, come quelli della madre che avevano stregato il duca di Milano Galeazzo Sforza, dal quale aveva ereditato tratti e temperamento, Caterina fu la nipote preferita della nonna Bianca Maria Visconti.
Bella, colta e temeraria, fu cresciuta dal padre e dalla moglie Bona di Savoia e, nonostante la sua condizione di figlia illegittima, all’età di dieci anni venne data in sposa al nipote di Papa Sisto IV, Girolamo Riario, a causa della volontà del papa di impossessarsi della città di Imola che era stata conquistata dal Duca di Milano, creando così un’intesa tra Roma e Milano; unione che fece di Caterina la donna più importante dello Stato Pontificio. Visse i primi anni del matrimonio a Roma, poi si trasferì nel 1480 a Forlì, sostituendo gli Ordelaffi che ne erano stati signori fin dall’anno mille.
Presto, però, Caterina intuì il lato codardo e pavido del marito, che si contrapponeva alla sua indole indomita e battagliera, tanto che, all’indomani della morte di Sisto IV, in una Roma in cui infuriava il saccheggio e il vilipendio della sacra figura del papa appena defunto, a soli vent’anni e incinta di sette mesi, prese possesso di Castel Sant’Angelo, attuando così un assedio per rivendicare i diritti della famiglia Riario sul suolo romano, tenendo in ostaggio lo Stato Pontificio, come il più abile dei condottieri.
Dopo la morte di Sisto IV, però, la famiglia Riario iniziò un lento declino che sfociò nella congiura degli  Orsi, nel quale venne assassinato Girolamo. “E’ sull’orlo del precipizio che lucidità e equilibrio devono essere al massimo”, le ripetevano da bambina alla corte degli Sforza e lei mise in atto questo insegnamento, dimostrando una caparbietà e una fierezza che resistettero anche alle lacrime dei figli minacciati dal nemico, meritandosi l’appellativo di Tigre.
Da quel momento, Caterina divenne Signora Reggente di Imola e Forlì. L’Italia intera parlò di lei; tenne in scacco papi e re, grazie ad un’arguzia e ad un’eloquenza che le permisero di governare da sola la Signoria. Temuta e rispettata, conosciuta in tutta Europa, fu una delle donne più considerate del suo tempo. Sorella del nuovo duca Gian Galeazzo, nipote di Ludovico il Moro e del cardinale Ascanio Sforza; amica di Lorenzo de’ Medici, Leonardo da Vinci e Girolamo Savonarola. Profonda conoscitrice della natura e dei benefici che può apportare, in cui trovava rimedi per ogni malanno. Visse una vita tra congiure, guerre e splendori, in un periodo, il Rinascimento, che ha saputo essere meraviglioso e spietato allo stesso tempo.
Seppe essere giusta e benevola con il suo popolo, ma anche vendicativa e spietata quando le toccarono i suoi affetti più cari; fu una moglie lungimirante prima e una reggente illuminata poi, votata alla politica della neutralità. Seguì con caparbietà il suo cuore fino a sposare, in seconde nozze, un uomo di rango inferiore, Giacomo Feo, andando contro la famiglia, il popolo e i suoi figli; per poi arrivare al terzo matrimonio d’amore con Giovanni de’ Medici, il Popolano.
Bella e colta, coraggiosa, indomita, battagliera, caparbia e implacabile, fiera, arguta e sagace: questo è il ritratto di Caterina che emerge dal racconto dell’autrice dal quale traspare, in ogni riga, la tempra tenace e guerriera, anche quando il destino mise sul suo cammino la temibile famiglia Borgia, che decretò la fine della sua reggenza.
Attraverso il racconto della vita di Caterina, l’autrice ci restituisce una descrizione minuziosa della situazione politica del Rinascimento, ripercorrendo eventi e personaggi, legami familiari e alleanze. Una biografia molto particolareggiata, ricca di dettagli preziosi per comprendere il contesto storico, sia dal punto di vista politico che sociale, che rendono l’opera un dettagliato affresco di un’epoca.
Grazie alla dettagliata ricostruzione dell’ambientazione e all’approfondita fedeltà alla realtà storica, questo romanzo risulta denso di fatti narrati con cura, la fedele cronaca di un tempo lontano.

I personaggi sono abilmente caratterizzati, tanto da mettere in luce le caratteristiche peculiari, ma anche le varie sfaccettature della personalità di ognuno. L’autrice ci permette di entrare in confidenza anche con personaggi di minor rilievo per la storia, come l’artista Botticelli. Inoltre, tra di essi, trova un posto di rilievo Leonardo da Vinci, istrionico, sornione, egocentrico, permaloso e suscettibile.
La narrazione è fluida e lineare, nonostante la mole di informazioni racchiusa in questo racconto che denota l’encomiabile lavoro di studio e analisi delle fonti originali.
L’accurata descrizione delle scene infonde al lettore la sensazione di trovarsi all’interno delle stesse, invisibile come un fantasma, ad osservare gli eventi in prima persona, raggiungendo un grado di suggestione davvero notevole. Colori, odori, suoni, vedute si susseguono in una narrazione avvincente che coinvolge ogni senso e trasporta il lettore all’interno della vita di questa donna straordinaria. Inoltre, di grande interesse appaiono i dialoghi quanto mai vividi e credibili, che donano alle scene una verosimiglianza tale da risultare quasi incredibile.
“Io, Caterina” è una porta quanto mai spalancata su un periodo straordinario; una lettura impegnativa, ma oltremodo appagante per chi ama lasciarsi trasportare indietro nel tempo.